Da Matrix al Metaverso, ovvero il demone di David Chalmers

Ho seguito, online, una presentazione del libro di David Chalmers sulla realtà virtuale.

Il saggio Reality+, da poco tradotto in italiano con il titolo Più realtà, è uscito nel gennaio del 2022. In quel periodo il tema tecnologicamente caldo sembrava essere la realtà virtuale/aumentata, non l’intelligenza artificiale: tutti guardavano al Metaverso di Facebook. Poi è arrivato ChatGPT e sembra aver ribaltato sia le attenzioni del pubblico, sia gli investimenti delle grandi aziende tecnologiche.

Tuttavia, stando a Chalmers non c’è una vera e propria contrapposizione tra i due temi. Grazie alle intelligenze artificiali i computer possono non solo “gestire” i mondi virtuali, ma anche “crearli”. ChatGPT è già in grado di creare una avventura testuale che è a tutti gli effetti un mondo virtuale, ovvero un universo interattivo generato da un computer. E non si vede perché non potrà, in futuro, creare anche realtà virtuali, ovvero dei mondi virtuali immersivi nei quali entri grazie ai (per ora costosi e limitati) set per la realtà virtuale.

Una, cento, mille realtà

La tesi centrale del libro, così come l’ha esposta Chalmers, è che la realtà virtuale è una “genuine reality”. Non è una realtà di seconda classe, non è un’illusione o una finzione. Perché è reale ciò che “fa la differenza” e questi mondi virtuali possono fare la differenza. Possiamo anzi condurre una vita significativa e piena nella realtà virtuale – non necessariamente migliore ma neanche peggiore.

Questa parte mi pare molto convincente e, a dispetto dell’atteggiamento da rivoluzionario di Chalmers, coerente con una tendenza quantomeno secolare in filosofia. Mi riferisco al non limitare la categoria del “reale” alla sola realtà fisica, ma estenderla includendovi anche altri enti. Insieme ai muri, che sono oggetti fisici, esistono anche i confini, che sono oggetti sociali come le multe, le promesse, i campionati di calcio e molte altre cose che spesso per noi contano più degli oggetti fisici. (Sul blog ho scritto diverse cose sull’ontologia sociale). E a suo modo è reale anche la finzione. È infatti vero che Sherlock Holmes abita al 221b di Baker Street mentre è falso che Frodo Baggins abbia vinto l’unico anello giocando a carte.
Solo che tutte queste realtà esistono in modi diversi. Per costruire un muro basta prendere un po’ di mattoni, per costruire un confine serve una comunità che lo riconosca come tale. La casa di Sherlock Holmes la trovo nei racconti di Arthur Conan Doyle, non per le vie di Londra (dove fino al 1930 Baker Street terminava al civico 85).

Solo che Chalmers sembra affermare che le realtà virtuali – o almeno alcune realtà virtuali – esistono allo stesso modo della realtà non virtuale. E qui ho qualche difficoltà a seguirlo, ad esempio quando afferma che le “menti virtuali sono menti genuine”.
Se con “genuino” Chalmers intende contrastare l’idea che tutto quel che è virtuale è un surrogato privo di valore, concordo con lui: i mondi e le realtà virtuali giocano e verosimilmente giocheranno sempre più un ruolo importante nelle nostre vite. Il problema è che da questa “tesi debole” sembra passare a una “tesi forte”: non ci sono differenze significative, tra realtà virtuale e realtà fisica. Mi sembra una tesi insostenibile a meno di non limitarsi a scenari – che è difficile considerare rappresentatiti del fenomeno dei mondi e realtà virtuali –, tipo un essere digitale senziente e una realtà virtuale completamente indistinguibile dalla realtà fisica. Ma ha senso costruire una filosofia della realtà virtuale che si adatta solo a uno scenario fantascientifico, tralasciando tutto il resto?

La grande simulazione

Questo scenario “alla Matrix” sembra tuttavia essere un punto centrale della riflessione di Chalmers.

Non possiamo escludere di vivere in una simulazione. Non solo: i progressi tecnologici nel campo della realtà virtuale e dell’intelligenza artificiale renderebbero questa ipotesi verosimile. Personalmente mi pare un’esagerazione: anche ammettendo di avere già una tecnologia in grado di inviare al cervello segnali indistinguibili da quelli prodotti da un oggetto fisico, l’ipotesi Matrix resta comunque nel regno dell’inverosimile. Voglio dire: qualcuno dovrebbe avermi rapito e messo in un complicatissimo (e costosissimo) macchinario per farmi credere di condurre la mia vita di tutti i giorni? Oppure è tutta l’umanità a vivere in una simulazione realizzata per misteriosi motivi da una specie aliena?

Direi che i progressi tecnologici hanno al massimo fatto passare questa ipotesi da “praticamente impossibile” a “altamente improbabile”. Non possiamo escludere che sia così, ma non possiamo neanche escludere che io domani trovi un miliardo di dollari in contanti dimenticati per strada da Bill Gates. Non vedo motivi sufficienti per “prendere in considerazione” questa ipotesi. Per tornare al film ‘Matrix’, la celebre scena in cui il protagonista Neo prende la pillola rossa e scopre che tutto è una simulazione arriva dopo una serie di indizi che rendono l’ipotesi simulazione più probabile. Inutile dire che al momento non abbiamo nessuno di questi indizi.

Una superflua risposta allo scetticismo radicale

Chalmers probabilmente insiste su questa “ipotesi Matrix” perché è la versione tecnologica di un classico argomento filosofico, quello che oggi chiameremmo esperimento mentale. La versione più celebre è quella del demone di Cartesio: non possiamo fidarci dei nostri sensi perché un demone potrebbe ingannarci. (Peraltro sospetto che, almeno in alcuni periodi storici, l’idea di un demone ingannatore fosse più credibile di quanto adesso lo è l’ipotesi di una simulazione al computer). Dal momento che non possiamo escludere con certezza assoluta questo scenario, non è possibile dare un fondamento ultimo alla conoscenza della realtà.

Schematizzando:

  1. Non possiamo sapere se viviamo in una simulazione.
  2. Se siamo in una simulazione non possiamo conoscere nulla di vero.
  3. Quindi la conoscenza della realtà è impossibile.

Chalmers accetta il punto 1 e anzi trasforma il “non possiamo escludere che” in un “è probabile che”. Ma esclude lo scetticismo radicale della conclusione 3 rifiutando il punto 2: anche la simulazione è reale.

Il fatto è che lo sforzo mi pare inutile. Prima di tutto perché finché restiamo all’interno della simulazione la nostra conoscenza della realtà resterà incompleta. Ma soprattutto perché la conclusione 3 non è poi così grave: d’accordo, non c’è un fondamento ultimo alla conoscenza della realtà; e con ciò? Possiamo benissimo andare avanti con un assenso provvisorio, tanto più forte quanto solide sono le prove di cui disponiamo (o deboli le obiezioni). Come consigliava il filosofo David Hume, “un uomo saggio proporziona la sua credenza all’evidenza”.

Il punto 1, quello che non possiamo escludere di vivere in una simulazione, è come la tesi del solipsismo in un celebre passaggio del Mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer. Non lo si potrà mai confutare con prove, ma rimane un argomento pretestuoso. “Come convinzione seria esso potrebbe trovarsi solo in un manicomio: come tale, occorrerebbe poi, contro di esso, non tanto una prova quanto una cura. In tanto anche non ci dilungheremo su di esso, ma ci limiteremo all’ultima fortezza dello scetticismo, che è sempre polemico”. Questo argomento è “come una piccola fortezza di frontiera, che rimarrà qui sempre inespugnabile, ma la cui guarnigione anche non ne potrà uscire mai e poi mai, sicché le si può passar davanti e lasciarsela alle spalle senza pericolo”.

Ho fatto un errore

Di solito si dice “prendere lucciole per lanterne” o “fischi per fiaschi”; ma nel mio caso credo che l’espressione più adatta sia “confondere il burro con la ferrovia“. Ho infatti confuso due personaggi molto distanti tra di loro: nel citare nella mia newsletter un interessante articolo sulle difficoltà nel pensare e raccontare la crisi climatica, non l’ho attribuito allo scrittore Paolo Giordano ma al giornalista Mario Giordano.

Nella versione online è corretto, ma nella mail inviata agli iscritti l’errore rimane. Non mi resta che sopportare i più che legittimi sbeffeggiamenti di chi ha notato l’errore.

Dagli errori bisogna imparare. Sul perché della confusione, è abbastanza facile: quella parte della newsletter l’ho scritta un po’ di fretta e non l’ho riletta – inoltre avevo appena cercato e letto un po’ di esempi di controinformazione e disinformazione sull’alluvione in Emilia Romagna, mentre l’articolo di Paolo Giordano l’avevo letto qualche giorno prima.

Ma perché confondere i due personaggi è così strano e perché l’idea di me che cito Mario Giordano così divertente? Certo, c’è la profonda differenza di opinione sulla crisi climatica (e anche su altri temi). Paolo Giordano sostiene quella che potremmo chiamare “posizione standard sulla crisi climatica”, ovvero che i cambiamenti climatici sono reali, pericolosi e indotti dalle attività umane; il consenso scientifico è sufficientemente robusto per decidere e possiamo ancora fare qualcosa. Mario Giordano, invece, è lontano da questa “posizione standard”: forse non nega l’esistenza del cambiamento climatico, ma certamente sminuisce il contributo umano e i provvedimenti considerati opportuni.
Tuttavia secondo me la differenza maggiore non è che cosa sostengono, ma come lo sostengono. Paolo Giordano cerca di costruire uno spazio di ragionamento e riflessione nel quale non siamo schiacciati dalle emozioni. Proprio all’inizio del suo articolo afferma che i giorni di una situazione di emergenza sono tra le occasioni “meno adeguate in assoluto” perché quando “la commozione è al culmine e sarebbe meglio tacere”. E quando riporta un dialogo captato in treno – un tizio che commenta che finalmente la smetteranno di rompere le scatole con la storia della siccità – non lo fa né per schernirlo né provocare indignare i lettori. Al contrario, cerca di comprendere da dove arriva questa insofferenza.
La retorica di Mario Giordano è l’opposto, vive di emozioni, perlopiù negative, e di nemici da attaccare.

Non apprezzerei – anzi: non apprezzo, visto che gli esempi non mancano – un sostenitore di quella che definisco “posizione standard sulla crisi climatica” che usasse i metodi di Mario Giordano. Viceversa apprezzerei – anzi: apprezzo – chi esprime dei dubbi perché vuole capire e fa delle critiche che vogliono portare un contributo, non distruggere tutto.

Appendice: il burro e la ferrovia

Quello di “confondere il burro con la ferrovia” è un modo di dire abbastanza diffuso nella Svizzera italiana. E molto curioso: mentre lucciole e lanterne sono accomunate dal fatto di far luce e fischi e fiaschi possono contare su una certa consonanza, l’accostamento tra burro e ferrovia suona ancora più surreale di quello tra un ombrello e una macchina per cucire.

Il mistero sembra avere una soluzione iberica: in spagnolo infatti si confonde l’asino (burro) con la ferrovia (camino de hierro) e le due parole hanno una certa rassomiglianza oltre a indicare entrambe un mezzo di trasporto.

L’identità tra avere, essere e fare

Avere o essere? di Erich Fromm è uno di quei libri che da adolescente consideri fondamentale, crescendo trovi scontato e stucchevole per poi parzialmente rivalutarlo. Col rischio di risultare, a nostra volta, un po’ scontati e stucchevoli.

Semplificando brutalmente, vi sono due modi di vivere: uno basato sull’avere e uno sull’essere. Nel primo il valore è determinato da quel che si possiede; nel secondo da quelle che potremmo definire “qualità interiori” e che include la crescita personale, l’amore e l’empatia.

Credo che potremmo e forse dovremmo aggiungere una terza modalità di condurre e valutare la propria vita: il fare.

Intendiamoci: l’identità, il modo in cui ci vediamo e valutiamo, è un concetto vago e complesso. Il che è stato, almeno per me, il motivo che mi ha portato a ignorare le riflessioni di Fromm. Ma prendiamoli come modelli, delle astrazioni che non incontreremo mai che che ci aiutano a comprendere noi stessi e gli altri.
Il primo di questi modelli è quello di chi guarda a sé stesso, al proprio carattere e comportamento. Il secondo è di chi guarda a quello che possiede, al controllo che può avere sugli altri. Il terzo, quello che propongo di aggiungere, punta tutto su quello che si fa. O che si tenta di fare, perché non è importante il risultato, non è importante l’effettiva utilità di quello che si fa: quello che conta è il fatto di fare qualcosa anche se inutile, anche se dispersivo, anche se controproducente. Conseguentemente, il non fare nulla – anche se magari è l’unica cosa sensata da fare, visto che non tutto è sotto il nostro controllo – è una cosa negativa o comunque pone in una situazione di inferiorità rispetto a chi fa qualcosa.

Si tratta, lo ribadisco, di modelli astratti. Ma se c’è un campo in cui questo “modello del fare” trova incarnazione, è la politica. Un politico deve fare qualcosa, anche se quel qualcosa è inutile o addirittura dannoso; anche se alla fine è come se non avesse fatto nulla (pensiamo a una legge che risulta inapplicabile o viene dichiarata nulla), almeno ha fatto qualcosa.
Immagino sia una reazione all’accusa, rivolta periodicamente a chi fa politica, di esser bravi a ingannare il prossimo – cioè gli elettori – con le parole. Ma non è un grande progresso e anzi forse è un regresso, se quello che conta è il fatto di fare qualcosa, non il come lo si fa e gli effetti complessivi di quello che si è fatto.

La conclusione del libro di Fromm è che, tutto sommato, è meglio essere che avere.
Non so se mi sento di concludere che è meglio essere che fare. Il carattere e il temperamento sono due caratteristiche poco considerate, in politica – e forse dovremmo valutarle meglio, nello scegliere chi votare –, ma non ha molto senso demonizzare quello che una persona fa (e a pensarci bene neanche quello che una persona possiede).

Cosa potrebbe cambiare in sei mesi di moratoria sulle IA

Fa molto discutere la lettera aperta con cui si chiede di fermare per sei mesi lo sviluppo di modelli linguistici – quelli che ho chiamato “intelligenze artificiali che scrivono cose” – ancora più potenti di quelli attuali.

Credo che questa proposta sia semplicemente inapplicabile e l’iniziativa, se avrà qualche effetto, sarà di aumentare un po’ la consapevolezza sull’impatto che ChatGPT e prodotti simili potrebbero avere – e sui quali ho scritto più volte su questo sito, anche prima che l’argomento diventasse così di attualità – il che certo male non fa.
Ma, al di là della realizzabilità, la proposta di una moratoria è anche opportuna? Io credo di sì.

Certo, se avessimo iniziato a occuparci prima – che poi sarebbe l’etimologia di preoccupare – non dovremmo chiedere questa lunga pausa. Dopotutto non è che i modelli linguistici o le reti neurali artificiali siano spuntate all’improvviso poche settimane fa: anche lasciando da parte la fantascienza che racconta queste storia grosso modo da un secolo, sono almeno diversi decenni che se ne discute a livello teorico, pratico e filosofico. Ma si sa, finché un pericolo non è incombente non ce ne occupiamo, per cui eccoci qui, nel 2023, relativamente impreparati.

Cosa cambia in sei mesi? Sperare in qualche legge che regoli le IA mi pare utopico. Senza dimenticare che leggi malfatte potrebbero pure peggiorare la situazione. Sei mesi potrebbero tuttavia bastare per un accordo tra le principali aziende per uno sviluppo “etico” delle intelligenze artificiali. Ma non ho grande fiducia sull’efficacia di un simile accordo.
Una cosa però potrebbe cambiare in sei mesi: il comportamento delle persone. Abituarci a cosa sanno fare i modelli linguistici che, come li definisce il Politecnico di Zurigo, “producono racconti di fantasia altamente plausibili che spesso si rivelano corretti nei fatti”. Abituarci al fatto che dietro un testo ben scritto potrebbe non esserci una persona. Abituarci al fatto che fotografie, audio e video non sono più prove inconfutabili. Abituarci a nuove procedure lavorative.

La disinformazione ai tempi dell’intelligenza artificiale

Circola un video di Bill Gates che dice cose che non ha mai detto: come riporta Facta, molto probabilmente il filmato è stato alterato usando un software di intelligenza artificiale. Parliamo di un deepfake, della creazione di immagini, video e audio praticamente irriconoscibili e relativamente facili da realizzare.
Ai deepfake possiamo aggiungere i modelli linguistici – che qui chiamo “intelligenze artificiali che scrivono cose” – con i quali possiamo in pochi secondi produrre dettagliati articoli di disinformazione sul fatto che la Terra è piatta, non siamo mai andati sulla Luna, l’11 settembre è stata una demolizione controllata, i vaccini hanno rischiato di portare all’estinzione l’umanità eccetera.

Quanta disinformazione!

Le intelligenze artificiali stanno aggravando il problema della disinformazione? Apparentemente sì, anche se forse il problema non è tanto la quantità e qualità delle false informazioni.
Già adesso per verificare una notizia occorre risalire alla fonte e ricostruire il contesto. E non è detto che la qualità delle manipolazioni porti più persone a ritenerle buone. Infatti più della qualità di un contenuto, contano la fiducia verso la fonte e quanto quel contenuto conferma le nostre opinioni. Saremo portati allo scetticismo di fronte a un video perfetto ma presentato da un media che consideriamo inaffidabile e che va contro quello che crediamo. Tenderemo invece a prendere per buono un video imperfetto presentato da fonte che riteniamo credibile e che conferma le nostre idee. Certo non è un atteggiamento ideale, ma ha l’indubbio vantaggio di risparmiarci la fatica di valutare attentamente ogni singola informazione che ci passa davanti, il che sarebbe impossibile.
I modelli linguistici sembrano aggravare la cosiddetta Legge di Brandolini, quella per cui l’energia per smontare una bufale è di un ordine di grandezza superiore a quella necessaria per inventarla. (C’è anche la variante della “montagna di merda, facile da scaricare ma difficile da spalare via”).
Però le intelligenze artificiali possono essere utilizzate anche per riconoscere e smontare le bufale, semplificando quindi anche l’altra parte del lavoro.

Forse sono eccessivamente ottimista, ma credo che alla fine non cambierà molto, per quanto riguarda la facilità (o difficoltà) nel riconoscere le bufale. Il vero problema non riguarderà le monete cattive, ma da quelle buone. Ovvero le notizie autentiche.

Il dividendo del bugiardo

Ho appena scritto che tendiamo a dare per vero quello che conferma le nostre idee e a dare per falso quello che le smentisce. Ma non è solo una questione di vero e falso.
Prima di tutto perché non è detto che una notizia, e più in generale un’affermazione, sia o vera o falsa senza vie di mezzo. Semplificazioni, approssimazioni o imprecisioni introducono tutta una serie di gradazioni. Nella maggior parte delle situazioni dire che la Luna dista 400mila km dalla Terra è un’adeguata approssimazione della distanza media di 384’399 km. Ed è certamente “meno sbagliato” dell’affermare che la Luna si trova a 400 km o a 400 milioni di km.
Soprattutto, può variare la nostra convinzione verso la verità o falsità di un’affermazione, insomma il “quanto ci crediamo”. Sono certo che la Luna non sia a poche centinaia di chilometri dalla Terra e non sia fatta di formaggio; su come si sia formata ho meno sicurezza, sia perché esistono diverse ipotesi sia perché non sono un esperto. Possiamo formularla anche così: sul fatto che la Luna non sia di formaggio sarei pronto ad accettare una scommessa particolarmente rischiosa, diciamo diecimila a uno; per scommettere che la Luna sia nata in seguito a un grande impatto vorrei invece quote più favorevoli. Infine, sulla quantità di acqua presente sulla Luna invece non scommetterei.

La crescente qualità della disinformazione prodotta da intelligenze artificiali forse non alza la credibilità della disinformazione, ma rischia di abbassare quella dell’informazione. Prendiamo – l’esempio è di John Gruber – la registrazione di alcune frasi sessiste di Donald Trump, tra cui il celebre “Grab them by the pussy”, pubblicata a poche settimane dalle elezioni del 2016. Trump alla fine venne eletto, ma la sua popolarità calò. All’epoca non era possibile mettere in dubbio l’autenticità dell’audio; oggi sarebbe una strategia percorribile. E anche un oppositore di Trump dovrebbe ammettere la possibilità di un deepfake e ridurre di conseguenza la propria sicurezza sull’autenticità della registrazione.

Questa erosione dell’affidabilità è un fenomeno noto da alcuni anni; ha anche un nome: “liar’s dividend”, il dividendo del bugiardo. Ne scriveva ad esempio Paul Chadwick sul Guardian nel 2018, sottolineando come gli effetti del dividendo del bugiardo cresceranno con la consapevolezza pubblica dell’esistenza dei deepfake. La popolarità di ChatGPT e dei modelli linguistici è quindi una brutta notizia.

Tutta colpa dell’Intelligenza artificiale?

Riassumendo, c’è il rischio che un audio o un video autentici vengano ritenuti meno attendibili perché c’è la possibilità che siano dei deepfake. O che la grande quantità di articoli di disinformazione ben scritti – da intelligenze artificiali – mi renda più scettico verso articoli ben documentati.

A ben guardare, però, il problema non è dovuto solo alla qualità di falsi. Come detto, molto dipende dal contesto di una notizia per cui, prima ancora che i deepfake e i modelli linguistici, il vero problema è che mass media e autorità hanno perso credibilità.

Quando si è diffusa questa sfiducia? In un articolo su The Conversation, Robert M. Dover indica come punto di svolta l’invasione dell’Iraq e l’utilizzo che i politici hanno fatto delle informazioni fornite dai servizi di intelligence. Non sono sicuro che quello sia stato davvero un momento cruciale; certo la diffidenza non è nata con le intelligenze artificiali e neanche con i social media.

A proposito delle imposizioni linguistiche

Torno brevemente sulla questione “linguaggio inclusivo” e il parere che l’Accademia della Crusca ha fornito alla Corte di Cassazione.

Seguendo – lo confesso senza particolare entusiasmo – le discussioni sui social media, ho notato il ripresentarsi da parte dei contrari allo schwa del curioso argomento “la lingua non può essere imposta dall’alto”.

Definisco “curioso” questo argomento innanzitutto perché si riferisce proprio a un caso di imposizione: appunto il divieto di utilizzare lo schwa o l’asterisco per evitare il maschile sovraesteso e l’obbligo di utilizzare i femminili professionali. A stabilire queste imposizioni non è tanto l’Accademia della Crusca, che si è limitata a fornire un parere, ma – immaginando che aderisca alle raccomandazioni – la Corte di Cassazione che impone, nei suoi testi, alcune norme redazionali.

A rigor di logica, se si è contro ogni “imposizione dall’alto” della lingua, si dovrebbe difendere il diritto di poter scrivere, se una persona lo desidera, “ə denunciantə” in un atto giudiziario. Ma sarebbe una pessima idea e la corte non solo può, ma probabilmente deve imporre dall’alto delle scelte linguistiche.

Non è certo l’unica realtà a fare una cosa del genere: credo che tutti gli editori abbiamo un proprio “manuale di stile” che non si limitano a grammatica e ortografia standard. Nei libri di Einaudi ad esempio “più” e “così” hanno l’accento acuto anziché grave (piú e cosí); il manuale di stile della Associated Press sconsiglia di utilizzare “claim” (dichiara) perché può implicare scetticismo su quanto affermato; da qualche anno il Guardian scrive “crisi climatica” invece di “cambiamento climatico”.

Certo, alla fine decidono i parlanti, in base a quello che dicono e scrivono e in base a quello che considerano giusto e sbagliato. Ma questo non toglie che c’è chi ha l’autorità di stabilire delle norme – in contesti specifici o anche in generale, come accaduto con la riforma dell’ortografia tedesca –, chi magari non ha l’autorità ma comunque l’autorevolezza per farlo e chi alla fine può solo limitarsi a fare proposte.

E qui arriviamo al secondo motivo per cui definisco “curioso” l’argomento “la lingua non può essere imposta dall’alto”. Non solo è falso, visto che è possibile e giusto farlo; non solo è fuori luogo visto che il caso in questione è una (legittima) imposizione dall’alto. Ma l’argomento sottintende anche che quel che “arriva dall’alto” sia di per sé male mentre quello che “arriva dal basso” sia di per sé buono. Il che, soprattutto se “in alto” mettiamo delle presunte “élite”, mi pare un argomento decisamente populista.

Niente schwa nei testi giuridici

Mi è stata segnalato che “La Crusca dice basta asterischi e schwa perché ideologici“.

Il riferimento è a un documento che ha uno di quei titoli che mi piacciono tanto perché non dovrebbero lasciare spazio a fraintendimenti: L’Accademia risponde a un quesito sulla parità di genere negli atti giudiziari posto dal Comitato Pari opportunità del Consiglio direttivo della Corte di Cassazione.

Parliamo insomma di un parere – la Crusca non ha del resto poteri prescrittivi sulla lingua, se non la sua autorevolezza – e che riguarda un contesto ben particolare, ovvero il linguaggio giuridico. Non è un divieto generale all’utilizzo di soluzioni come il “carə tuttə” anche in altri contesti ai quali, si legge, «occorre per contro garantire la massima libertà».

Detto questo: sì, il documento è decisamente ostile verso quelli che definisce “segni eterodossi”. Ed è anche vero che, nella lunga premessa, si criticano i presupposti teorici del linguaggio inclusivo.

Non condivido appieno queste critiche, che mi paiono forzate soprattutto con l’accostamento alla cancel culture, ma condivido o comunque a considero ragionevoli le raccomandazioni pratiche.

  • Evitare le reduplicazioni come “cittadine e cittadini” (soluzione peraltro criticata anche dai sostenitori del linguaggio inclusivo in quanto escluderebbe le persone non binarie).
  • Evitare l’articolo davanti ai cognomi di donne.
  • Evitare asterischi e schwa.
  • Declinare al femminile i nomi di cariche e professioni, come “ingegnera”, “la giudice istruttrice” o “la presidente”.
  • Usare forme neutre o generiche come “le persone” o “il personale”.
  • Accettabilità del maschile “inclusivo” plurale (ma non di quello singolare) come “i dipendenti”.

Questo, come detto, in un contesto di linguaggio sorvegliato come quello giuridico. Sul quale peraltro la Crusca fa un paio di affermazioni che appaiono temerarie, viste le oscurità di alcuni testi giuridici. Mi riferisco al timore di arrivare “alla disomogeneità e all’idioletto”: intento nobile, ma direi che da quel punto di vista il linguaggio inclusivo è l’ultimo dei problemi.

Chiudo con una considerazione. Questa è una presa di posizione conservativa eppure sostiene con convinzione – si parla di «uso largo e senza esitazioni» – i femminili professionali. Penso che, dei tanti aspetti del linguaggio inclusivo, quello di “ingegnera” lo si possa ormai dare per assodato.

I social media nuocciono gravemente alla salute delle discussioni razionali

Il titolo ricalca gli avvisi che si trovavano sui pacchetti delle sigarette – da qualche anno mi pare che il burocratico “nuoce gravemente alla salute” sia stato sostituito da un più diretto “uccide” – ma non vorrei venisse frainteso.
Sul fatto che il fumo faccia male non ci sono praticamente dubbi, mentre le ricerche di cui parlo in questo articolo sono meno certe. In ogni caso non auspico interventi statali per proibire o ridurre l’utilizzo dei social, né mi sento di consigliare a tutti di tenersene alla larga.

Già che siamo in zona di avvisi: questo post riprende in parte quanto scritto nella mia newsletter settimanale, alla quale potete abbonarvi.

Più condividiamo meno pensiamo

Alla fine di ogni articolo ci sono una serie di pulsanti per condividerlo su vari social media. Ma forse dovrei toglierlo, visto che secondo una ricerca condividere un’informazione ci rende più creduloni. O, per dirla con le parole del titolo dell’articolo pubblicato su Science Advances, “il contesto dei social media interferisce con il riconoscimento della verità” (“The social media context interferes with truth discernment”).

Prima di vedere i contenuti dell’articolo, qualche avvertenza.
La ricerca è stata condotta sottoponendo ad alcuni soggetti il titolo di una notizia e chiedendo loro, in maniera casuale, se la consideravano attendibile e se l’avrebbero condivisa online. Insomma una situazione così:

Un contesto un po’ diversa dal modo in cui di solito troviamo delle notizie, ne valutiamo l’affidabilità e decidiamo se è il caso di condividerle. Insomma, nella “vita vera” l’effetto rilevato dai ricercatori potrebbe non esserci, o essere trascurabile. Ma intanto si è visto che le persone sono meno brave a distinguere le notizie vere da quelle false quando viene loro chiesto se sono interessate a condividere la notizia.

Perché tutto questo? I ricercatori hanno preso in considerazione due ipotesi. La prima è che abbiamo una quantità limitata di “energia mentale”. Se ne impieghiamo una parte per decidere se condividere la notizia, ne abbiamo meno a disposizione per valutarne criticamente il contenuto. Insomma, decidere se condividere o meno un contenuto ci distrae. La seconda ipotesi è che la decisione di condividere una notizia ci porti automaticamente a considerarla più attendile, visto che non ci piace l’idea di condividere notizia inaccurate.
I due modelli differiscono per il tipo di interferenza. Il modello dell’energia mentale (che i ricercatori definiscono “spillover”) prevede giudizi errati sia per le notizie vere che per quelle false. Il modello della consistenza, invece, prevede perlopiù notizie false scambiate per vere. Ebbene, i dati mostrerebbero che è il primo modello a essere corretto. In altre parole: basta prevedere la possibilità di condividere una notizia per abbassare lo spirito critico delle persone.

A caccia di indignazione

Quella appena riassunta non è l’unica ricerca sui social media di questi giorni. Un altro studio ha preso in considerazione i tweet sul “trophy hunting”. Qui c’è la ricerca, e qui il comunicato stampa.

La caccia ai trofei consiste in persone benestanti che pagano per poter cacciare animali protetti. Il tutto avviene legalmente e i soldi vengono usati per la protezione degli ecosistemi, per cui alla fine c’è un guadagno netto per la fauna selvatica. Hai fatto fuori un leone o un rinoceronte in via di estinzione, ma quel che hai speso permette di mantenere aperta la riserva naturale in cui possono vivere molti più esemplari. Ciononostante fatico a considerare chi pratica questo sport un “amico della natura”. E mi sento di concludere che uno che uccide esseri viventi perché sono trofei non è una bella persona.

Sul tema ne aveva scritto Sandel nel suo interessante saggio Quello che i soldi non possono comprare (del quale avevo scritto una recensione):

Se credete che sia moralmente riprovevole uccidere la fauna selvatica per sport, il mercato della caccia ai rinoceronti è un patto col diavolo, un tipo di estorsione morale. Potreste accettare i suoi effetti positivi sulla conservazione dei rinoceronti ma deplorare di fatto che questo risultato sia ottenuto soddisfacendo quelli che voi considerate piaceri perversi di ricchi cacciatori. Sarebbe come salvare dalla distruzione un’antica foresta di sequoie permettendo ai boscaioli di vendere a donatori benestanti il diritto di incidere le proprie iniziali su alcuni degli alberi. Quindi che cosa si sarebbe dovuto fare? Avreste rifiutato la soluzione di mercato sulla base del fatto che la repellenza morale della caccia ai trofei è superiore ai benefici della salvaguardia? Oppure avreste deciso di pagare l’estorsione morale e di vendere il diritto di cacciare alcuni rinoceronti nella speranza di salvare la specie dall’estinzione? La risposta corretta dipende in parte dal fatto che il mercato riesca poi effettivamente a procurare, o meno, i benefici che promette. Ma dipende anche da un’altra questione: se i cacciatori di trofei sbagliano a trattare la fauna selvatica come un oggetto di sport e, in tal caso, dalla gravità morale di questo errore.

Il tema mette in discussione i nostro modelli etici e va attentamente valutato. Solo che tutta questa discussione sfugge di mano, quando sui social media appare la foto di una persona ricca con il fucile da una parte e il corpo di un animale protetto dall’altra. E le discussioni violente su Twitter sembrano avere un effetto sulle leggi sulla protezione della fauna selvatica. Personalmente sarei per proibire questo tipo di caccia e cercare altre risorse per proteggere le specie in via di estinzione, per cui non sono troppo dispiaciuto dall’esito – ma è inquietante come i social media riducano lo spazio per discussioni razionali.

Il dodo e T. Bayes: immagini false ma sincere

Questo è un articolo sul dodo e sul reverendo T. Bayes, ma il tema non sono né gli uccelli estinti né il calcolo delle probabilità soggettive, bensì le immagini.

Un tacchino tozzo e pesante

Iniziamo dal dodo, animale solitamente descritto come tozzo e pesante. Coerentemente con le immagini che lo ritraggono – incluse quelle usate per il logo di questo sito (basata su un’illustrazione ottocentesca).

Ebbene: il dodo non era affatto così.
Il fatto è che la maggior parte delle illustrazioni che abbiamo sono state realizzate dopo l’estinzione, avvenuta alla fine del Seicento: non erano ritratti dell’originale ma copie di copie e si sono man mano accentuate le caratteristiche che ci si aspettava da un uccello pacifico, inerme ed estinto.

Alla base di molti di questi ritratti c’è poi il quadro del pittore fiammingo Roelant Savery:

Solo che Savery aveva visto un esemplare tenuto in cattività e probabilmente malato a causa dell’alimentazione a base di carne.
Non credo che in natura avesse l’aspetto atletico di uno struzzo, ma quel collo così ingrossato è probabilmente dovuto a una malattia al fegato.

Ho scoperto tutto questo grazie a un articolo pubblicato su Horizons, la rivista del Fondo nazionale svizzero per la ricerca scientifica, che riprende una tesi di bachelor sulla comunicazione visiva di Oliver Hoop:

Evoluzione delle immagini del dodo (immagine di Oliver Hoop).

Il reverendo T. Bayes

Passiamo adesso al reverendo Thomas Bayes (1701-1761), al quale si deve la formula per calcolare la probabilità di una causa che ha provocato l’evento verificato:

T. Bayes

Solo che questa immagine, che troviamo un po’ ovunque incluse molte copertine di libri, non è di Thomas Bayes.
È stata usata in un testo del 1936 con la seguente didascalia: “Rev. T. Bayes: Improver of the Columnar Method developed by Barrett”. Solo che, come spiega Sharon Bertsch McGrayne nel suo saggio The Theory That Would Not Die, il “Columnar Method” è stato sviluppato una cinquantina d’anni dopo la morte di Thomas Bayes. Del resto lo stile del ritratto, in particolare i capelli, non corrispondono. Evidentemente è esistito un altro T. Bayes (che magari si chiamava pure Thaddeus), dimenticato dalla storia ma non dall’iconografia.

Peraltro di Bayes si tende a sbagliare pure la data di morte, avvenuta il 7 aprile del 1761: per un errore di trascrizione alcuni riportano “17 aprile”, mentre altri confondo la data di morte con quella di inumazione, avvenuta il 15 aprile.

La verità delle immagini

Nell’articolo sui dodo, Hoop sottolinea come questo caso “mostra perché le illustrazioni scientifiche debbano essere molto precise”. Certo, per uno scienziato che cerca di ricostruire come viveva il dodo quelle immagini rappresentano un problema in quanto mostrano caratteristiche che gli animali in natura non possedevano. Ma per tutti noi il dodo è così, tozzo e sgraziato, e del resto nella maggioranza dei casi quelle immagini non hanno scopi naturalistici.

Discorso simile per l’immagine di Bayes: solo gli storici della scienza si interessano all’articolo (peraltro postumo) in cui Thomas Bayes parla delle probabilità che una palla rimbalzi da una parte o l’altra di un tavolo.

Le immagini di per sé non sono né vere né false: la verità (o falsità) è una cosa che riguarda non le cose, ma le proposizioni. A essere falsa non è l’immagine di un dodo, ma l’affermare (o il credere) che quell’immagine sia una rappresentazione fedele di un esemplare tipico di un uccello esistito secoli fa.
Di una immagine possiamo al più dire se è più o meno adeguata a una determinata funzione. Il che complica incredibilmente le cose.

I messaggini di Hancock tra paura e fiducia

Credo sia utile dire una cosa sui “Lockdown files” che il quotidiano britannico The Telegraph sta pubblicando. Si tratta di migliaia di messaggi dell’ex ministro della sanità Matt Hancock, quello che si è dovuto dimettere per aver violato le restrizioni sul distanziamento sociale.

Non mi pare ci siano rilevazioni che cambino radicalmente quello che già si sapeva o si poteva sospettare visto il personaggio. Tuttavia uno scambio di messaggi ha dato il via a diverse discussioni online ed è stato anche ripreso dalla BBC.

In quei messaggi Hancock parla del “rilascio” (deploy) di una nuova variante del coronavirus per spaventare la popolazione (frighten the pants of everyone). Siti come BUTAC sono subito intervenuti spiegando che il riferimento è all’annuncio della scoperta della nuova variante, non alla sua diffusione tra la popolazione. Aggiungo anche che Hancock indica chiaramente che la paura ha lo scopo di far rispettare le restrizioni.

Ora, può essere che qualcuno abbia davvero preso quel “deploy” scritto da Hancock come prova del complotto del virus inesistente o creato in laboratorio come parte di un piano per dominare il mondo. Ma sinceramente non ho visto nessuno sostenerlo. La smentita di BUTAC mi pare quindi uno straw man argument.
Ho invece visto citare lo scambio di messaggi come conferma del fatto che le decisioni dei governi non erano basate sulla scienza e non erano prese per il bene della popolazione. Al contrario, la scienza si era sottomessa alla politica e alla sua volontà di controllo.

È una interpretazione che non condivido affatto. Ma che non posso pensare di contrastare semplicemente dicendo che Hancock parlava dell’annuncio e non del rilascio. Quella precisazione non tocca il punto più importante di quei messaggi, ovvero l’esistenza di un piano per spaventare la popolazione (come ha titolato la BBC: “Leaked messages suggest plan to frighten public”).
Siamo nella situazione in cui un governo, invece di informare in maniera completa e obiettiva la popolazione, punta tutto sulla paura. Invece di spiegare le motivazioni alla base dei vari provvedimenti si spaventano le persone, con un paternalismo che sarebbe inaccettabile anche ad aver a che fare con dei veri bambini – spieghi che le scale per la cantina sono pericolose, non che c’è un mostro nel seminterrato. Il tutto, ovviamente, senza rispettare le restrizioni imposte agli altri.

È un comportamento che era già emerso prima dei messaggi trapelati. Ma non per questo meno grave: agendo così si è ridotta, e a ragione, la fiducia verso le autorità (in questo caso britanniche, ma il discorso è chiaramente più ampio). Ricostruire questa fiducia non sarà semplice, ma il primo passo è certamente denunciare chiaramente le cose che non hanno funzionato, anche se vuol dare un briciolo di ragione a dei complottisti.