Ho fatto un errore

Di solito si dice “prendere lucciole per lanterne” o “fischi per fiaschi”; ma nel mio caso credo che l’espressione più adatta sia “confondere il burro con la ferrovia“. Ho infatti confuso due personaggi molto distanti tra di loro: nel citare nella mia newsletter un interessante articolo sulle difficoltà nel pensare e raccontare la crisi climatica, non l’ho attribuito allo scrittore Paolo Giordano ma al giornalista Mario Giordano.

Nella versione online è corretto, ma nella mail inviata agli iscritti l’errore rimane. Non mi resta che sopportare i più che legittimi sbeffeggiamenti di chi ha notato l’errore.

Dagli errori bisogna imparare. Sul perché della confusione, è abbastanza facile: quella parte della newsletter l’ho scritta un po’ di fretta e non l’ho riletta – inoltre avevo appena cercato e letto un po’ di esempi di controinformazione e disinformazione sull’alluvione in Emilia Romagna, mentre l’articolo di Paolo Giordano l’avevo letto qualche giorno prima.

Ma perché confondere i due personaggi è così strano e perché l’idea di me che cito Mario Giordano così divertente? Certo, c’è la profonda differenza di opinione sulla crisi climatica (e anche su altri temi). Paolo Giordano sostiene quella che potremmo chiamare “posizione standard sulla crisi climatica”, ovvero che i cambiamenti climatici sono reali, pericolosi e indotti dalle attività umane; il consenso scientifico è sufficientemente robusto per decidere e possiamo ancora fare qualcosa. Mario Giordano, invece, è lontano da questa “posizione standard”: forse non nega l’esistenza del cambiamento climatico, ma certamente sminuisce il contributo umano e i provvedimenti considerati opportuni.
Tuttavia secondo me la differenza maggiore non è che cosa sostengono, ma come lo sostengono. Paolo Giordano cerca di costruire uno spazio di ragionamento e riflessione nel quale non siamo schiacciati dalle emozioni. Proprio all’inizio del suo articolo afferma che i giorni di una situazione di emergenza sono tra le occasioni “meno adeguate in assoluto” perché quando “la commozione è al culmine e sarebbe meglio tacere”. E quando riporta un dialogo captato in treno – un tizio che commenta che finalmente la smetteranno di rompere le scatole con la storia della siccità – non lo fa né per schernirlo né provocare indignare i lettori. Al contrario, cerca di comprendere da dove arriva questa insofferenza.
La retorica di Mario Giordano è l’opposto, vive di emozioni, perlopiù negative, e di nemici da attaccare.

Non apprezzerei – anzi: non apprezzo, visto che gli esempi non mancano – un sostenitore di quella che definisco “posizione standard sulla crisi climatica” che usasse i metodi di Mario Giordano. Viceversa apprezzerei – anzi: apprezzo – chi esprime dei dubbi perché vuole capire e fa delle critiche che vogliono portare un contributo, non distruggere tutto.

Appendice: il burro e la ferrovia

Quello di “confondere il burro con la ferrovia” è un modo di dire abbastanza diffuso nella Svizzera italiana. E molto curioso: mentre lucciole e lanterne sono accomunate dal fatto di far luce e fischi e fiaschi possono contare su una certa consonanza, l’accostamento tra burro e ferrovia suona ancora più surreale di quello tra un ombrello e una macchina per cucire.

Il mistero sembra avere una soluzione iberica: in spagnolo infatti si confonde l’asino (burro) con la ferrovia (camino de hierro) e le due parole hanno una certa rassomiglianza oltre a indicare entrambe un mezzo di trasporto.

Cosa potrebbe cambiare in sei mesi di moratoria sulle IA

Fa molto discutere la lettera aperta con cui si chiede di fermare per sei mesi lo sviluppo di modelli linguistici – quelli che ho chiamato “intelligenze artificiali che scrivono cose” – ancora più potenti di quelli attuali.

Credo che questa proposta sia semplicemente inapplicabile e l’iniziativa, se avrà qualche effetto, sarà di aumentare un po’ la consapevolezza sull’impatto che ChatGPT e prodotti simili potrebbero avere – e sui quali ho scritto più volte su questo sito, anche prima che l’argomento diventasse così di attualità – il che certo male non fa.
Ma, al di là della realizzabilità, la proposta di una moratoria è anche opportuna? Io credo di sì.

Certo, se avessimo iniziato a occuparci prima – che poi sarebbe l’etimologia di preoccupare – non dovremmo chiedere questa lunga pausa. Dopotutto non è che i modelli linguistici o le reti neurali artificiali siano spuntate all’improvviso poche settimane fa: anche lasciando da parte la fantascienza che racconta queste storia grosso modo da un secolo, sono almeno diversi decenni che se ne discute a livello teorico, pratico e filosofico. Ma si sa, finché un pericolo non è incombente non ce ne occupiamo, per cui eccoci qui, nel 2023, relativamente impreparati.

Cosa cambia in sei mesi? Sperare in qualche legge che regoli le IA mi pare utopico. Senza dimenticare che leggi malfatte potrebbero pure peggiorare la situazione. Sei mesi potrebbero tuttavia bastare per un accordo tra le principali aziende per uno sviluppo “etico” delle intelligenze artificiali. Ma non ho grande fiducia sull’efficacia di un simile accordo.
Una cosa però potrebbe cambiare in sei mesi: il comportamento delle persone. Abituarci a cosa sanno fare i modelli linguistici che, come li definisce il Politecnico di Zurigo, “producono racconti di fantasia altamente plausibili che spesso si rivelano corretti nei fatti”. Abituarci al fatto che dietro un testo ben scritto potrebbe non esserci una persona. Abituarci al fatto che fotografie, audio e video non sono più prove inconfutabili. Abituarci a nuove procedure lavorative.

A proposito delle imposizioni linguistiche

Torno brevemente sulla questione “linguaggio inclusivo” e il parere che l’Accademia della Crusca ha fornito alla Corte di Cassazione.

Seguendo – lo confesso senza particolare entusiasmo – le discussioni sui social media, ho notato il ripresentarsi da parte dei contrari allo schwa del curioso argomento “la lingua non può essere imposta dall’alto”.

Definisco “curioso” questo argomento innanzitutto perché si riferisce proprio a un caso di imposizione: appunto il divieto di utilizzare lo schwa o l’asterisco per evitare il maschile sovraesteso e l’obbligo di utilizzare i femminili professionali. A stabilire queste imposizioni non è tanto l’Accademia della Crusca, che si è limitata a fornire un parere, ma – immaginando che aderisca alle raccomandazioni – la Corte di Cassazione che impone, nei suoi testi, alcune norme redazionali.

A rigor di logica, se si è contro ogni “imposizione dall’alto” della lingua, si dovrebbe difendere il diritto di poter scrivere, se una persona lo desidera, “ə denunciantə” in un atto giudiziario. Ma sarebbe una pessima idea e la corte non solo può, ma probabilmente deve imporre dall’alto delle scelte linguistiche.

Non è certo l’unica realtà a fare una cosa del genere: credo che tutti gli editori abbiamo un proprio “manuale di stile” che non si limitano a grammatica e ortografia standard. Nei libri di Einaudi ad esempio “più” e “così” hanno l’accento acuto anziché grave (piú e cosí); il manuale di stile della Associated Press sconsiglia di utilizzare “claim” (dichiara) perché può implicare scetticismo su quanto affermato; da qualche anno il Guardian scrive “crisi climatica” invece di “cambiamento climatico”.

Certo, alla fine decidono i parlanti, in base a quello che dicono e scrivono e in base a quello che considerano giusto e sbagliato. Ma questo non toglie che c’è chi ha l’autorità di stabilire delle norme – in contesti specifici o anche in generale, come accaduto con la riforma dell’ortografia tedesca –, chi magari non ha l’autorità ma comunque l’autorevolezza per farlo e chi alla fine può solo limitarsi a fare proposte.

E qui arriviamo al secondo motivo per cui definisco “curioso” l’argomento “la lingua non può essere imposta dall’alto”. Non solo è falso, visto che è possibile e giusto farlo; non solo è fuori luogo visto che il caso in questione è una (legittima) imposizione dall’alto. Ma l’argomento sottintende anche che quel che “arriva dall’alto” sia di per sé male mentre quello che “arriva dal basso” sia di per sé buono. Il che, soprattutto se “in alto” mettiamo delle presunte “élite”, mi pare un argomento decisamente populista.

Niente schwa nei testi giuridici

Mi è stata segnalato che “La Crusca dice basta asterischi e schwa perché ideologici“.

Il riferimento è a un documento che ha uno di quei titoli che mi piacciono tanto perché non dovrebbero lasciare spazio a fraintendimenti: L’Accademia risponde a un quesito sulla parità di genere negli atti giudiziari posto dal Comitato Pari opportunità del Consiglio direttivo della Corte di Cassazione.

Parliamo insomma di un parere – la Crusca non ha del resto poteri prescrittivi sulla lingua, se non la sua autorevolezza – e che riguarda un contesto ben particolare, ovvero il linguaggio giuridico. Non è un divieto generale all’utilizzo di soluzioni come il “carə tuttə” anche in altri contesti ai quali, si legge, «occorre per contro garantire la massima libertà».

Detto questo: sì, il documento è decisamente ostile verso quelli che definisce “segni eterodossi”. Ed è anche vero che, nella lunga premessa, si criticano i presupposti teorici del linguaggio inclusivo.

Non condivido appieno queste critiche, che mi paiono forzate soprattutto con l’accostamento alla cancel culture, ma condivido o comunque a considero ragionevoli le raccomandazioni pratiche.

  • Evitare le reduplicazioni come “cittadine e cittadini” (soluzione peraltro criticata anche dai sostenitori del linguaggio inclusivo in quanto escluderebbe le persone non binarie).
  • Evitare l’articolo davanti ai cognomi di donne.
  • Evitare asterischi e schwa.
  • Declinare al femminile i nomi di cariche e professioni, come “ingegnera”, “la giudice istruttrice” o “la presidente”.
  • Usare forme neutre o generiche come “le persone” o “il personale”.
  • Accettabilità del maschile “inclusivo” plurale (ma non di quello singolare) come “i dipendenti”.

Questo, come detto, in un contesto di linguaggio sorvegliato come quello giuridico. Sul quale peraltro la Crusca fa un paio di affermazioni che appaiono temerarie, viste le oscurità di alcuni testi giuridici. Mi riferisco al timore di arrivare “alla disomogeneità e all’idioletto”: intento nobile, ma direi che da quel punto di vista il linguaggio inclusivo è l’ultimo dei problemi.

Chiudo con una considerazione. Questa è una presa di posizione conservativa eppure sostiene con convinzione – si parla di «uso largo e senza esitazioni» – i femminili professionali. Penso che, dei tanti aspetti del linguaggio inclusivo, quello di “ingegnera” lo si possa ormai dare per assodato.

I social media nuocciono gravemente alla salute delle discussioni razionali

Il titolo ricalca gli avvisi che si trovavano sui pacchetti delle sigarette – da qualche anno mi pare che il burocratico “nuoce gravemente alla salute” sia stato sostituito da un più diretto “uccide” – ma non vorrei venisse frainteso.
Sul fatto che il fumo faccia male non ci sono praticamente dubbi, mentre le ricerche di cui parlo in questo articolo sono meno certe. In ogni caso non auspico interventi statali per proibire o ridurre l’utilizzo dei social, né mi sento di consigliare a tutti di tenersene alla larga.

Già che siamo in zona di avvisi: questo post riprende in parte quanto scritto nella mia newsletter settimanale, alla quale potete abbonarvi.

Più condividiamo meno pensiamo

Alla fine di ogni articolo ci sono una serie di pulsanti per condividerlo su vari social media. Ma forse dovrei toglierlo, visto che secondo una ricerca condividere un’informazione ci rende più creduloni. O, per dirla con le parole del titolo dell’articolo pubblicato su Science Advances, “il contesto dei social media interferisce con il riconoscimento della verità” (“The social media context interferes with truth discernment”).

Prima di vedere i contenuti dell’articolo, qualche avvertenza.
La ricerca è stata condotta sottoponendo ad alcuni soggetti il titolo di una notizia e chiedendo loro, in maniera casuale, se la consideravano attendibile e se l’avrebbero condivisa online. Insomma una situazione così:

Un contesto un po’ diversa dal modo in cui di solito troviamo delle notizie, ne valutiamo l’affidabilità e decidiamo se è il caso di condividerle. Insomma, nella “vita vera” l’effetto rilevato dai ricercatori potrebbe non esserci, o essere trascurabile. Ma intanto si è visto che le persone sono meno brave a distinguere le notizie vere da quelle false quando viene loro chiesto se sono interessate a condividere la notizia.

Perché tutto questo? I ricercatori hanno preso in considerazione due ipotesi. La prima è che abbiamo una quantità limitata di “energia mentale”. Se ne impieghiamo una parte per decidere se condividere la notizia, ne abbiamo meno a disposizione per valutarne criticamente il contenuto. Insomma, decidere se condividere o meno un contenuto ci distrae. La seconda ipotesi è che la decisione di condividere una notizia ci porti automaticamente a considerarla più attendile, visto che non ci piace l’idea di condividere notizia inaccurate.
I due modelli differiscono per il tipo di interferenza. Il modello dell’energia mentale (che i ricercatori definiscono “spillover”) prevede giudizi errati sia per le notizie vere che per quelle false. Il modello della consistenza, invece, prevede perlopiù notizie false scambiate per vere. Ebbene, i dati mostrerebbero che è il primo modello a essere corretto. In altre parole: basta prevedere la possibilità di condividere una notizia per abbassare lo spirito critico delle persone.

A caccia di indignazione

Quella appena riassunta non è l’unica ricerca sui social media di questi giorni. Un altro studio ha preso in considerazione i tweet sul “trophy hunting”. Qui c’è la ricerca, e qui il comunicato stampa.

La caccia ai trofei consiste in persone benestanti che pagano per poter cacciare animali protetti. Il tutto avviene legalmente e i soldi vengono usati per la protezione degli ecosistemi, per cui alla fine c’è un guadagno netto per la fauna selvatica. Hai fatto fuori un leone o un rinoceronte in via di estinzione, ma quel che hai speso permette di mantenere aperta la riserva naturale in cui possono vivere molti più esemplari. Ciononostante fatico a considerare chi pratica questo sport un “amico della natura”. E mi sento di concludere che uno che uccide esseri viventi perché sono trofei non è una bella persona.

Sul tema ne aveva scritto Sandel nel suo interessante saggio Quello che i soldi non possono comprare (del quale avevo scritto una recensione):

Se credete che sia moralmente riprovevole uccidere la fauna selvatica per sport, il mercato della caccia ai rinoceronti è un patto col diavolo, un tipo di estorsione morale. Potreste accettare i suoi effetti positivi sulla conservazione dei rinoceronti ma deplorare di fatto che questo risultato sia ottenuto soddisfacendo quelli che voi considerate piaceri perversi di ricchi cacciatori. Sarebbe come salvare dalla distruzione un’antica foresta di sequoie permettendo ai boscaioli di vendere a donatori benestanti il diritto di incidere le proprie iniziali su alcuni degli alberi. Quindi che cosa si sarebbe dovuto fare? Avreste rifiutato la soluzione di mercato sulla base del fatto che la repellenza morale della caccia ai trofei è superiore ai benefici della salvaguardia? Oppure avreste deciso di pagare l’estorsione morale e di vendere il diritto di cacciare alcuni rinoceronti nella speranza di salvare la specie dall’estinzione? La risposta corretta dipende in parte dal fatto che il mercato riesca poi effettivamente a procurare, o meno, i benefici che promette. Ma dipende anche da un’altra questione: se i cacciatori di trofei sbagliano a trattare la fauna selvatica come un oggetto di sport e, in tal caso, dalla gravità morale di questo errore.

Il tema mette in discussione i nostro modelli etici e va attentamente valutato. Solo che tutta questa discussione sfugge di mano, quando sui social media appare la foto di una persona ricca con il fucile da una parte e il corpo di un animale protetto dall’altra. E le discussioni violente su Twitter sembrano avere un effetto sulle leggi sulla protezione della fauna selvatica. Personalmente sarei per proibire questo tipo di caccia e cercare altre risorse per proteggere le specie in via di estinzione, per cui non sono troppo dispiaciuto dall’esito – ma è inquietante come i social media riducano lo spazio per discussioni razionali.

Contro le guerre culturali

Sono stato tentato di scrivere qualcosa sulle modifiche apportate ad alcuni romanzi di Roald Dahl.

Il caso, del resto, apre molti interrogativi interessanti.
Chi gestisce i diritti d’autore può modificare i testi come faceva lo stesso autore in vita? Il fatto che parliamo di letteratura per l’infanzia cambia qualcosa? Perché importanti cambiamenti nella trama o nei personaggi in opere derivate (vedi i molti film realizzati a partire dai romanzi di Dahl) ci indignano meno di una correzione al testo? Se correggere quanto scritto dell’autore è sbagliato, lo è anche pubblicare uno scritto che l’autore non voleva pubblicare?
Immaginando che la correzione di un refuso sia non solo tollerata ma anche auspicata, a che punto una correzione diventa inopportuna? Se una parola ha cambiato significato o accezione, è lecito sostituirla con una parola più vicina al significato originario e quindi alle intenzioni dell’autore? E se – cambiando autore e genere – qualcuno ripubblicasse le opere di Asimov sostituendo le anacronistiche schede perforate che ogni tanto compaiono con dei file caricati in rete?
Quanto è importante tenere pubblicamente traccia delle modifiche e mantenere accessibili le opere originali? Lasciare in nota i passaggi originali andrebbe bene? Come deve comportarsi chi traduce i testi di fronte a termini problematici o non più attuali? E cosa accadrebbe se fosse l’autore stesso a chiedere di aggiornare le sue opere affinché restino al passo con i tempi?

Lo scontro finale

Queste sono alcune delle domande che mi sono posto e sulle quali sarebbe interessante (e forse anche urgente) ragionare. A queste domande possiamo poi aggiungere tutte le riflessioni sugli effetti del linguaggio dispregiativo, giusto per mettere in contesto alcune delle modifiche apportare ai testi di Dahl. Questo non per condannare o assolvere l’operazione, ma per capire di preciso quali sono i problemi e quanto sono gravi.
Solo che per ragionare e discutere serve un ambiente adatto: nulla di troppo complicato, diciamo un posto dove chi dice la sua opinione non si sente come l’eroe che da solo affronta il nemico – e non una divisione che è lì per occupare una via di comunicazione, ma l’intero esercito arrivato per sterminare l’intera popolazione e spargere sale sulle macerie.

Questa metafora bellica merita un chiarimento, perché vi vedo due difficoltà. Il primo è proprio l’idea di concepire una divergenza di opinioni come uno scontro, invece di un’occasione per chiarirsi le idee e stabilire un terreno comune di discussione – il che non vuol dire arrivare a un compromesso, il terreno comune può semplicemente essere il fatto di pensarla diversamente. La seconda difficoltà riguarda il tipo di conflitto al quale si pensa. È un semplice diverbio, un duello mortale, uno scontro di poco conto, la battaglia dalla quale dipendono le sorti della guerra e forse della civiltà? A seconda di quale situazione immaginiamo cambiano le strategie.

Molte cose che ho letto su questa vicenda dei libri di Roald Dahl avevano lo spirito dello scontro finale. Aragorn che con pochi uomini affronta l’esercito di Mordor sperando che Frodo riesca a distruggere l’unico anello; il protagonista di Le streghe trasformato in topo che per eliminare le streghe inglesi deve versare la pozione magica nella minestra che tra poco mangeranno; Poirot che si taglia i baffi per sconfiggere i temibili Quattro e sventare il loro diabolico piano di impadronirsi del mondo.
Certo, restiamo nell’ambito di una guerra figurata in cui le armi sono perlopiù reboanti post sui social media, articoli indignati e che attirano l’indignazione, accuse di ipocrisia per mostrarsi i più puri e intransigenti. Se qualcuno dovesse davvero ricorrere alla violenza fisica, la cosa sarà solo in parte riconducibile agli eccessi retorici di questi giorni.

Va anche detto che non tutti hanno denunciato la più grande catastrofe culturale dall’incendio della biblioteca di Alessandria, sollecitato indignazione generale, invitato al boicottaggio eccetera. C’è chi ha provato a ragionare e a discutere, ma direi con scarsi risultati, almeno in questi primi giorni. Forse più avanti – quando sarà calata un po’ l’attenzione – ci saranno le condizioni per discussioni più lucide.

Un possibile manifesto: disinnescare le bombe culturali

Da quanto ho ripreso in mano questo sito, aggiornandolo più o meno regolarmente, mi sono chiesto se dovessi seguire una qualche “linea editoriale”. Insomma se scegliere un tema specifico invece di scrivere semplicemente quello che mi passa per la testa – come si poteva ancora fare all’epoca d’oro dei blog.
La risposta finora è sempre stata negativa. Del resto scrivo perché mi aiuta a chiarire le idee e a riordinare i pensieri. Che quello che scrivo possa essere utile ad altri è una speranza (probabilmente un’illusione), non un obiettivo. Eppure questa vicenda dei libri di Dahl – e soprattutto delle discussioni che ne sono seguite – mi convince della bontà dell’idea di un progetto di comunicazione. Disinnescare le bombe culturali, riflettere su come creare spazi di discussione in cui si costruisce qualcosa, evitando la facile indignazione.

Non ignoriamo l’astrologia

Il Corriere della Sera ha deciso di pubblicare una collana di libri di astrologia. Da possessore e lettore più che soddisfatto di una analoga collana dedicata alle parole della filosofia, la cosa mi indispone un po’. Certo, la serietà di quei libri è garantita dagli autori e dai curatori della serie (Corrado Del Bò, Simone Pollo e Paola Rumore). Non immaginavo di ritrovarmi a dire che quei nomi ne garantiscono la qualità nonostante l’editore.

Se il problema fosse solo la perdita di credibilità – almeno da parte di alcuni – del Corriere della Sera, sarebbe solo una preoccupazione loro. Ma c’è anche il discorso di dare dignità all’astrologia. Che per carità, se la cava bene anche senza la Biblioteca di astrologia del Corriere della Sera: dopo un paio di millenni di critiche, l’astrologia continua a esser presente, tra oroscopi e le chiacchiere di chi chiede di che segno sei. Certo non è più considerata una disciplina seria: non la si insegna nelle scuole, non ci si basa su di essa per far previsioni e i già citato oroscopi sono perlopiù confinati nelle pagine di costume. Ma l’astrologia continua a tenerci compagnia.

Questa tenacia è uno dei motivi per cui l’astrologia mi affascina. Insieme molto probabilmente al fatto che ha soffiato il nome che – seguendo il modello di biologia, psicologia, zoologia, archeologia… – spetterebbe all’astronomia. Per questo motivo io una collana di libri dedicati all’astrologia la comprerei. È vero che si tratta di una pseudoscienza priva di fondamento, ma questo non significa che la si possa ignorare. Parliamo infatti di una pseudoscienza che troviamo in molte culture, che per millenni ha rappresentato una forma di sapere legittima tanto da intrecciarsi con la rivoluzione scientifica e che, come accennato, continua ad avere un certo seguito anche in un mondo dominato dalla tecnologia come il nostro.
Raccontare la storia dell’astrologia per descriverne la popolarità e la marginalizzazione sarebbe un’iniziativa interessante. E anche spiegare che tipo di prove si possono fare, e sono state fatte, per mettere alla prova la validità dell’astrologia.

Il problema, insomma, non è che il Corriere della Sera dedichi una serie di libri all’astrologia, ma quello che c’è dentro quella serie di libri. E che, a giudicare dalla presentazione della collana, è quanto di più lontano dall’approccio da me auspicato

Avvenne due giorni fa. Per un giornalismo in ritardo

C’è questo bel film degli anni Quaranta, ‘Avvenne domani’ di René Clair, in cui il protagonista entra in possesso del giornale di domani – nel senso di quello che sarà pubblicato domani e che contiene il resoconto di quanto accadrà oggi.
Questo scenario, per quanto affascinante – o inquietante, se come il protagonista si legge la notizia della propria morte – è irrealistico, a meno di non avere un qualche fenomeno paranormale o fantascientifico.
Non avendo a disposizione viaggi nel tempo, ci si deve accontenrare dei giornali di oggi che riportano quanto accaduto ieri. Un ritardo di 12-24 che già negli anni Quaranta – e infatti il film è ambientato nel 1890 – si poteva colmare con la radio. Adesso con tv e internet possiamo avere oggi le notizie di quanto accade oggi, in tempo reale o quasi.

E se invece provassimo ad ampliare questo ritardo?

Facciamo un esperimento mentale. Un giornale non riporta nessun evento accaduto da meno di 24 ore. Una sorta di moratoria sull’attualità. Lunedì c’è un terremoto, un colpo di stato, un uragano, uno scandalo politico, una proposta di legge? Web, radio e tv danno subito la notizia. La carta stampata la lascia riposare: non se ne scrive sull’edizione di martedì, ma si aspetta quella di mercoledì, così da avere più informazioni e di avere il tempo per capire quanto era davvero importante quella notizia. Non si tratta semplicemente di leggere il giornale pubblicato il giorno prima, ma di pubblicare il giornale di oggi con informazioni che hanno dimostrato di poter sopravvivere dopo un giorno.

L’idea è simile a quello dello “slow journalism”. Ma non si basa su un elenco di virtù o buone pratiche che oltretutto spingono verso approfondimenti. La moratoria di 24 ore è molto più semplice: niente notizie su eventi accaduti meno nell’ultimo giorno.

Se un giornale si prendesse l’impegno di lasciar trascorrere 24 ore prima di scrivere qualcosa, io prenderei in seria considerazione di abbonarmi.

Il problema delle intelligenze artificiali è che funzionano troppo bene

Ho conosciuto Roberto Cingolani prima che diventasse ministro della transizione ecologica. In qualità di direttore scientifico dell’Istituto italiano di tecnologia di Genova aveva tenuto alcune conferenze in cui raccontava un po’ di cose sulla robotica. Affrontando anche il problema delle conseguenze sul mercato del lavoro.

La sua tesi, brutalmente riassunta, è che forse i computer potranno sostituire in molte cose gli esseri umani, ma in molti casi non ne vale la pena. Che senso ha usare un robot che, anche prodotto in serie, costa uno sproposito e consuma un bel po’ di energia se con una frazione di quei costi posso assumere una persona? Robot e intelligenze artificiali saranno competitivi per i lavori pericolosi – ma anche qui potrebbero convenire esoscheletri comandati da remoto da esseri umani – e soprattutto per quelli ripetitivi. Con la distinzione tra lavori manuali e intellettuali che diventa sempre meno importante.

Lasciamo da parte le preoccupazioni economiche, per le quali si dovrebbe fare un discorso serio su un vero reddito di cittadinanze. Questa divisione del lavoro potrebbe essere vista come una liberazione: i lavori ripetitivi annoiano e quelli pericolosi sono, appunto, pericolosi. Sarebbe bello lasciare alle macchine queste incombenze e occuparci delle cose più interessanti e stimolanti.

Solo che non è detto che agli esseri umani restino questi compiti interessanti e stimolanti. Lo spiega Gary Marcus commentando l’incidente avvenuto a CNET. In poche parole, l’azienda si è avvalsa di un’intelligenza artificiale per la scrittura degli articoli, con degli umani a coordinare e supervisionare il lavoro. Il risultato è stata una serie di imprecisioni ed errori.

Da dove arrivano queste allucinazioni, con l’intelligenza artificiale che si inventa fatti credibili ma falsi, è presto detto. Parliamo in questo caso di modelli linguistici, in pratica dei sofisticati pappagalli che imparano come le parole si relazionano tra di loro, non come le parole si relazionano con il mondo che conosciamo (come afferma sempre Marcus riprendendo Noam Chomsky).

Più interessante come queste allucinazioni siamo sfuggite ai revisori. L’attenzione umana è limitata, soprattutto quando gli interventi sono rari e limitati. Se i testi prodotti dall’intelligenza artificiale fossero stati scritti male, richiedendo correzioni e integrazioni, quelle allucinazioni sarebbero state identificate insieme agli altri errori. Ma di fronte a testi scritti bene e che non richiedono di correggere neanche una virgola, è normale che dopo un po’ l’attenzione cali. E così sfugga che, se investo 10’000 dollari con una rendita del 3%, arrivo a guadagnare 300 dollari, non 10’300.

Come osserva Marcus, lo stesso problema si presenta con le auto a guida autonoma. O l’intervento umano è completamente superfluo, oppure non puoi pretendere che un essere umano presti attenzione alla strada se per la maggior parte del tempo non deve fare niente. Certo, potremmo dire che alla fine si tratta di un errore umano, come afferma HAL 9000 in 2001: Odissea nello spazio. E come afferma la stessa ChatGPT quando le ho chiesto se può affermare cose false:

No, come modello di lingua artificiale AI sviluppato da OpenAI, non ho emozioni né personalità e fornisco risposte basate sui dati a cui sono stato addestrato. Tuttavia, i miei risultati possono essere imprecisi o incompleti a causa dei limiti del mio addestramento e dei dati disponibili.

Ammettiamo pure che il problema sia come gli esseri umani addestrano e verificano l’operato dell’intelligenza artificiale. Rimane il fatto che la tecnologia dovrebbe aiutarci a superare i limiti umani, non renderli più pericolosi.

Magari è solo questione di ripensare le strategie di revisione. Può essere che l’errore di CNET sia stato quello di rivedere il testo come se fosse stato scritto da un essere umano, senza rendersi conto che un testo scritto da un’intelligenza artificiale richiede procedure diverse. O forse è proprio sbagliato l’approccio e conviene usare l’intelligenza artificiale per la revisione e non per la scrittura dei contenuti. Chissà: la tecnologia deve ancora trovare un posto nelle nostre vite.

Nel frattempo, mi sento di riassumere così la questione: in attesa di un’intelligenza artificiale perfetta, meglio una che funziona male di una che funziona troppo bene.

Il Principe Harry, il gossip e la felicità

Dubito che leggerò Spare, l’autobiografia del Principe Harry.
Mi sono divertito a leggere alcune recensioni, come quella di Sean Coughlan sul sito della BBC, che definisce il libro “part confession, part rant and part love letter”, in pratica “the longest angry drunk text ever sent”. Ho trovato interessante la spiegazione del titolo originale e del perché quello italiano, Il minore, sia una buona soluzione. E mi ha sorpreso sapere che il ghostwriter del libro, J. R. Moehringer, è un autore affermato nonché vincitore di un Pulitzer. Ma la vita dei reali non rientra tra i miei interessi, almeno non fino al punto di prendermi il tempo per leggere le oltre quattrocento pagine di Spare.

Eppure so alcune cose, di quel libro; molte delle quali le ho apprese mio malgrado, ritrovandomele condivise sui social media o presenti nei titoli di varie testate. È un bene o un male? Cioè, sono informazioni che una persona deve conoscere (o quantomeno è bene che conosca) in quanto parte del bagaglio di conoscenze che è bene avere per capire un po’ il mondo, oppure è quella che Agostino d’Ippona chiamava vana curiositas e che oggi potremmo semplicemente definire gossip?

Alcuni dettagli appartengono certamente alla vana curiositas, tipo il primo rapporto sessuale di Harry. Altri aspetti credo siano di “interesse generale”, almeno in un senso abbastanza debole del termine. Certo la famiglia reale britannica non è più a capo di un vasto impero, ma in ogni caso non parliamo né dei litigi dei vicini di casa o di qualche celebrità tutto sommato ininfluente.

Insomma, direi che l’interesse pubblico verso le confessioni di Harry non è solo gossip. E anche per la parte più di gossip, forse c’è qualche elemento positivo. La vana curiositas potrebbe non essere del tutto vana e indurci a riflettere su che cosa è, o può essere, la felicità. E in particolare il rapporto tra ricchezza e felicità. Perché Harry è ricco ed è nato in una famiglia potente e agiata. È scontato fare dell’ironia sulle difficoltà che può aver incontrato, ma non credo che farsi beffe delle (vere o presunte) sofferenze altrui sia una bella cosa.

Intuitivamente pensiamo che più di è ricchi e più si è felici. Certo, una persona ricca e malata è forse meno felice di una con reddito inferiore ma in salute, ma in generale la relazione è quella. Ed è confermata da uno studio condotto negli Stati Uniti dallo psicologo Daniel Kahneman e dall’economista Angus Deaton, Solo che i due hanno suddiviso il concetto di felicità in due elementi distinti. Il primo è il benessere emotivo, se proviamo più spesso gioia e serenità oppure tristezza e rabbia. Il secondo è invece la valutazione della propria vita. Entrambi i fattori crescono fino a 75mila dollari annui di reddito, poi la felicità rimane grosso modo costante e aumenta solo l’autovalutazione della propria vita. Insomma, non sono più felice ma mi considero tale perché guadagno tanto.

Grazie a Marco Annoni e al suo interessante libro La felicità è un dono ho scoperto che uno studio successivo, condotto da Matthew Killingsworth, ha ridimensionato questo risultato.  Una ulteriore conferma a non dare mai per scontati i risultati delle singole ricerche, soprattutto nelle scienze sociali.
Non c’è una soglia oltre la quale la felicità cessa di crescere, anche se superati gli 80mila dollari le emozioni positive superano quelle negative. E a essere correlato con la felicità è non solo il reddito, ma anche – e soprattutto – quanto importante si considera il denaro.
In ogni caso, più soldi si hanno e meno felicità porta averne un po’ di più. E questo in maniera molto marcata. 10mila dollari in più all’anno aumentano sensibilmente la felicità di chi guadagna poco, un po’ meno in chi ha un reddito medio. E praticamente non cambiano nulla per chi è molto ricco.

Cosa significa tutto questo? Come conclusione provvisoria, direi che la felicità dipende da diversi fattori, alcuni dei quali sono sotto il nostro controllo.