L’identità tra avere, essere e fare

Avere o essere? di Erich Fromm è uno di quei libri che da adolescente consideri fondamentale, crescendo trovi scontato e stucchevole per poi parzialmente rivalutarlo. Col rischio di risultare, a nostra volta, un po’ scontati e stucchevoli.

Semplificando brutalmente, vi sono due modi di vivere: uno basato sull’avere e uno sull’essere. Nel primo il valore è determinato da quel che si possiede; nel secondo da quelle che potremmo definire “qualità interiori” e che include la crescita personale, l’amore e l’empatia.

Credo che potremmo e forse dovremmo aggiungere una terza modalità di condurre e valutare la propria vita: il fare.

Intendiamoci: l’identità, il modo in cui ci vediamo e valutiamo, è un concetto vago e complesso. Il che è stato, almeno per me, il motivo che mi ha portato a ignorare le riflessioni di Fromm. Ma prendiamoli come modelli, delle astrazioni che non incontreremo mai che che ci aiutano a comprendere noi stessi e gli altri.
Il primo di questi modelli è quello di chi guarda a sé stesso, al proprio carattere e comportamento. Il secondo è di chi guarda a quello che possiede, al controllo che può avere sugli altri. Il terzo, quello che propongo di aggiungere, punta tutto su quello che si fa. O che si tenta di fare, perché non è importante il risultato, non è importante l’effettiva utilità di quello che si fa: quello che conta è il fatto di fare qualcosa anche se inutile, anche se dispersivo, anche se controproducente. Conseguentemente, il non fare nulla – anche se magari è l’unica cosa sensata da fare, visto che non tutto è sotto il nostro controllo – è una cosa negativa o comunque pone in una situazione di inferiorità rispetto a chi fa qualcosa.

Si tratta, lo ribadisco, di modelli astratti. Ma se c’è un campo in cui questo “modello del fare” trova incarnazione, è la politica. Un politico deve fare qualcosa, anche se quel qualcosa è inutile o addirittura dannoso; anche se alla fine è come se non avesse fatto nulla (pensiamo a una legge che risulta inapplicabile o viene dichiarata nulla), almeno ha fatto qualcosa.
Immagino sia una reazione all’accusa, rivolta periodicamente a chi fa politica, di esser bravi a ingannare il prossimo – cioè gli elettori – con le parole. Ma non è un grande progresso e anzi forse è un regresso, se quello che conta è il fatto di fare qualcosa, non il come lo si fa e gli effetti complessivi di quello che si è fatto.

La conclusione del libro di Fromm è che, tutto sommato, è meglio essere che avere.
Non so se mi sento di concludere che è meglio essere che fare. Il carattere e il temperamento sono due caratteristiche poco considerate, in politica – e forse dovremmo valutarle meglio, nello scegliere chi votare –, ma non ha molto senso demonizzare quello che una persona fa (e a pensarci bene neanche quello che una persona possiede).

La disinformazione ai tempi dell’intelligenza artificiale

Circola un video di Bill Gates che dice cose che non ha mai detto: come riporta Facta, molto probabilmente il filmato è stato alterato usando un software di intelligenza artificiale. Parliamo di un deepfake, della creazione di immagini, video e audio praticamente irriconoscibili e relativamente facili da realizzare.
Ai deepfake possiamo aggiungere i modelli linguistici – che qui chiamo “intelligenze artificiali che scrivono cose” – con i quali possiamo in pochi secondi produrre dettagliati articoli di disinformazione sul fatto che la Terra è piatta, non siamo mai andati sulla Luna, l’11 settembre è stata una demolizione controllata, i vaccini hanno rischiato di portare all’estinzione l’umanità eccetera.

Quanta disinformazione!

Le intelligenze artificiali stanno aggravando il problema della disinformazione? Apparentemente sì, anche se forse il problema non è tanto la quantità e qualità delle false informazioni.
Già adesso per verificare una notizia occorre risalire alla fonte e ricostruire il contesto. E non è detto che la qualità delle manipolazioni porti più persone a ritenerle buone. Infatti più della qualità di un contenuto, contano la fiducia verso la fonte e quanto quel contenuto conferma le nostre opinioni. Saremo portati allo scetticismo di fronte a un video perfetto ma presentato da un media che consideriamo inaffidabile e che va contro quello che crediamo. Tenderemo invece a prendere per buono un video imperfetto presentato da fonte che riteniamo credibile e che conferma le nostre idee. Certo non è un atteggiamento ideale, ma ha l’indubbio vantaggio di risparmiarci la fatica di valutare attentamente ogni singola informazione che ci passa davanti, il che sarebbe impossibile.
I modelli linguistici sembrano aggravare la cosiddetta Legge di Brandolini, quella per cui l’energia per smontare una bufale è di un ordine di grandezza superiore a quella necessaria per inventarla. (C’è anche la variante della “montagna di merda, facile da scaricare ma difficile da spalare via”).
Però le intelligenze artificiali possono essere utilizzate anche per riconoscere e smontare le bufale, semplificando quindi anche l’altra parte del lavoro.

Forse sono eccessivamente ottimista, ma credo che alla fine non cambierà molto, per quanto riguarda la facilità (o difficoltà) nel riconoscere le bufale. Il vero problema non riguarderà le monete cattive, ma da quelle buone. Ovvero le notizie autentiche.

Il dividendo del bugiardo

Ho appena scritto che tendiamo a dare per vero quello che conferma le nostre idee e a dare per falso quello che le smentisce. Ma non è solo una questione di vero e falso.
Prima di tutto perché non è detto che una notizia, e più in generale un’affermazione, sia o vera o falsa senza vie di mezzo. Semplificazioni, approssimazioni o imprecisioni introducono tutta una serie di gradazioni. Nella maggior parte delle situazioni dire che la Luna dista 400mila km dalla Terra è un’adeguata approssimazione della distanza media di 384’399 km. Ed è certamente “meno sbagliato” dell’affermare che la Luna si trova a 400 km o a 400 milioni di km.
Soprattutto, può variare la nostra convinzione verso la verità o falsità di un’affermazione, insomma il “quanto ci crediamo”. Sono certo che la Luna non sia a poche centinaia di chilometri dalla Terra e non sia fatta di formaggio; su come si sia formata ho meno sicurezza, sia perché esistono diverse ipotesi sia perché non sono un esperto. Possiamo formularla anche così: sul fatto che la Luna non sia di formaggio sarei pronto ad accettare una scommessa particolarmente rischiosa, diciamo diecimila a uno; per scommettere che la Luna sia nata in seguito a un grande impatto vorrei invece quote più favorevoli. Infine, sulla quantità di acqua presente sulla Luna invece non scommetterei.

La crescente qualità della disinformazione prodotta da intelligenze artificiali forse non alza la credibilità della disinformazione, ma rischia di abbassare quella dell’informazione. Prendiamo – l’esempio è di John Gruber – la registrazione di alcune frasi sessiste di Donald Trump, tra cui il celebre “Grab them by the pussy”, pubblicata a poche settimane dalle elezioni del 2016. Trump alla fine venne eletto, ma la sua popolarità calò. All’epoca non era possibile mettere in dubbio l’autenticità dell’audio; oggi sarebbe una strategia percorribile. E anche un oppositore di Trump dovrebbe ammettere la possibilità di un deepfake e ridurre di conseguenza la propria sicurezza sull’autenticità della registrazione.

Questa erosione dell’affidabilità è un fenomeno noto da alcuni anni; ha anche un nome: “liar’s dividend”, il dividendo del bugiardo. Ne scriveva ad esempio Paul Chadwick sul Guardian nel 2018, sottolineando come gli effetti del dividendo del bugiardo cresceranno con la consapevolezza pubblica dell’esistenza dei deepfake. La popolarità di ChatGPT e dei modelli linguistici è quindi una brutta notizia.

Tutta colpa dell’Intelligenza artificiale?

Riassumendo, c’è il rischio che un audio o un video autentici vengano ritenuti meno attendibili perché c’è la possibilità che siano dei deepfake. O che la grande quantità di articoli di disinformazione ben scritti – da intelligenze artificiali – mi renda più scettico verso articoli ben documentati.

A ben guardare, però, il problema non è dovuto solo alla qualità di falsi. Come detto, molto dipende dal contesto di una notizia per cui, prima ancora che i deepfake e i modelli linguistici, il vero problema è che mass media e autorità hanno perso credibilità.

Quando si è diffusa questa sfiducia? In un articolo su The Conversation, Robert M. Dover indica come punto di svolta l’invasione dell’Iraq e l’utilizzo che i politici hanno fatto delle informazioni fornite dai servizi di intelligence. Non sono sicuro che quello sia stato davvero un momento cruciale; certo la diffidenza non è nata con le intelligenze artificiali e neanche con i social media.

I messaggini di Hancock tra paura e fiducia

Credo sia utile dire una cosa sui “Lockdown files” che il quotidiano britannico The Telegraph sta pubblicando. Si tratta di migliaia di messaggi dell’ex ministro della sanità Matt Hancock, quello che si è dovuto dimettere per aver violato le restrizioni sul distanziamento sociale.

Non mi pare ci siano rilevazioni che cambino radicalmente quello che già si sapeva o si poteva sospettare visto il personaggio. Tuttavia uno scambio di messaggi ha dato il via a diverse discussioni online ed è stato anche ripreso dalla BBC.

In quei messaggi Hancock parla del “rilascio” (deploy) di una nuova variante del coronavirus per spaventare la popolazione (frighten the pants of everyone). Siti come BUTAC sono subito intervenuti spiegando che il riferimento è all’annuncio della scoperta della nuova variante, non alla sua diffusione tra la popolazione. Aggiungo anche che Hancock indica chiaramente che la paura ha lo scopo di far rispettare le restrizioni.

Ora, può essere che qualcuno abbia davvero preso quel “deploy” scritto da Hancock come prova del complotto del virus inesistente o creato in laboratorio come parte di un piano per dominare il mondo. Ma sinceramente non ho visto nessuno sostenerlo. La smentita di BUTAC mi pare quindi uno straw man argument.
Ho invece visto citare lo scambio di messaggi come conferma del fatto che le decisioni dei governi non erano basate sulla scienza e non erano prese per il bene della popolazione. Al contrario, la scienza si era sottomessa alla politica e alla sua volontà di controllo.

È una interpretazione che non condivido affatto. Ma che non posso pensare di contrastare semplicemente dicendo che Hancock parlava dell’annuncio e non del rilascio. Quella precisazione non tocca il punto più importante di quei messaggi, ovvero l’esistenza di un piano per spaventare la popolazione (come ha titolato la BBC: “Leaked messages suggest plan to frighten public”).
Siamo nella situazione in cui un governo, invece di informare in maniera completa e obiettiva la popolazione, punta tutto sulla paura. Invece di spiegare le motivazioni alla base dei vari provvedimenti si spaventano le persone, con un paternalismo che sarebbe inaccettabile anche ad aver a che fare con dei veri bambini – spieghi che le scale per la cantina sono pericolose, non che c’è un mostro nel seminterrato. Il tutto, ovviamente, senza rispettare le restrizioni imposte agli altri.

È un comportamento che era già emerso prima dei messaggi trapelati. Ma non per questo meno grave: agendo così si è ridotta, e a ragione, la fiducia verso le autorità (in questo caso britanniche, ma il discorso è chiaramente più ampio). Ricostruire questa fiducia non sarà semplice, ma il primo passo è certamente denunciare chiaramente le cose che non hanno funzionato, anche se vuol dare un briciolo di ragione a dei complottisti.

E se ci fosse stato un Giorgio Fidenato degli insetti?

La cosa del mangiare insetti mi ha sempre incuriosito – a livello intellettuale, perlomeno. Non ne ho mai mangiati, almeno consapevolmente, nonostante in Svizzera siano in commercio da qualche anno. A incuriosirmi è come mai, a livello individuale e collettivo, alcune cose le mangiamo e altre no.

Grilli fritti visti in fotografia grazie a qualche parente andato in vacanza in Asia. E poi, quando lessi per intero i Vangeli, un accenno al fatto che Giovanni mangiasse cavallette e miele selvatico. E adesso le discussioni perché a livello europeo si sono autorizzati alcuni prodotti a base di insetti.

Credo che, guardando alla storia evolutiva della nostra specie, sia più “naturale“ mangiare insetti che bistecche di manzo. Ma questo non significa molto: pensare che è una cosa naturale sia necessariamente buona è una fallacia e del resto facciamo molte cose contro natura. Ho forti dubbi che mangiare insetti possa essere la chiave per garantire la sicurezza alimentare con la crisi climatica. La retorica del “mangiamo insetti e risolviamo la fame nel mondo” non mi piace per niente. Ma è una possibilità in più. E meno restrizioni – sociali o legali – ci sono e più libertà abbiamo.

Mi sorprende un po’, quindi, l’ostilità verso questa iniziativa che vedo in ambienti libertari. Certo, se il tuo obiettivo è uno stato che interviene il meno possibile (o non interviene del tutto), siamo sempre di fronte a scenari subottimali, visto che tutto il sistema di regolamentazione alimentare rimane in piedi. Ma è un sistema che adesso garantisce qualche libertà in più. Sospetto che se ci fosse stato un “Fidenato delle cavallette”, staremmo tutti a gioire per la vittoria contro i burocrati dell’Unione europea.

P.S. Il riferimento è a Giorgio Fidenato, l’agricoltore che ha sfidato il divieto italiano piantando mais geneticamente modificato. Qui un articolo del Foglio per capire chi è e soprattutto cosa ha rappresentato.

Aggiornamento 16 gennaio 2023

Ho scritto una fesseria: alcuni prodotti a base di insetti sono già in commercio da tempo e la cagnara di questi giorni è perché se ne è aggiunto uno nuovo, una specifica farina di grilli. Infatti a livello europeo non viene autorizzato l’animale di provenienza, ma il singolo prodotto, come spiegato in questa puntata del podcast Ci vuole una scienza. Una procedura un po’ debole, per imporre a tutti di mangiare insetti.

È possibile gioire per il Marocco ed essere preoccupati per i sahrawi?

Stasera Francia e Marocco si sfideranno per l’accesso alla finale dei Mondiali maschili di calcio.

Se vincesse il Marocco avremmo la prima finale senza una squadra europea dalla prima edizione del Mondiale nel 1930 (alla quale peraltro parteciparono solo 13 Paesi). Inoltre il Marocco è stato, prima dell’indipendenza, anche un protettorato francese per cui la sfida ha — ancora più di altri eventi sportivi — una forte componente politica e sociale.
Comprensibile che chi giudica negativamente i rapporti di forza passati e presenti tra Nord e Sud del mondo guardi con simpatia a una vittoria del Marocco. Una sorta di rivalsa del colonialismo, se vogliamo.
Solo che ci sono il Sahara Occidentale e il popolo sahrawi. In questo caso la simpatia verso gli oppressi dovrebbe portarci a biasimare il Marocco, non a celebrarlo.

È ipocrita, o incoerente, tifare Marocco per motivi che dovrebbero farci avere a cuore il popolo sahrawi? Secondo me no, a meno di non voler adottare una visione manichea del mondo, in cui si è sempre e completamente buoni o sì è sempre e completamente cattivi.
Non vedo nulla di ipocrita nel considerare una eventuale vittoria del Marocco un segnale positivo di nuovi e più equilibrati rapporti di forza mondiali e al contempo criticare il Marocco per quello che ha fatto e fa in Sahara Occidentale, sperando in una soluzione a giusta e pacifica.
Il mondo è complesso, ignorare questa complessità pensando che ci siano dei buoni che hanno sempre ragione e dei cattivi che hanno sempre torto forse non è ipocrita ma certamente non ci porta lontano.
Certo si impone una certa sobrietà nel manifestare questa simpatia. Ma questo direi che vale in generale, non solo per la sfida tra Francia e Marocco.

Aggiornamento: ha vinto la Francia e adesso il titolo di questo post sembra un “gioire per l’eliminazione del Marocco”. L’impresa della nazionale marocchina mi pare resti comunque notevole.

Il significato simbolico della vittoria di Giorgia Meloni

Sul significato politico delle elezioni mi pare non ci sia molto da discutere: abbiamo un governo è un parlamento di destra, conservatori se non reazionari. Se va bene, in Italia si starà fermi una legislatura su temi come i diritti sociali, la tutela dell’ambiente e anche le liberalizzazioni; se va male ci aspettano pure dei passi indietro.

Non so se è per cercare una qualche consolazione o se per dovere di obiettività, c’è chi sottolinea che per la prima volta c’è una donna alla presidenza del consiglio. Anzi, “una donna con un curriculum di partito e di origini familiari modeste che a 45 anni arriva a Palazzo Chigi” come ha scritto un’esponente politica.

Penso che si tratti di aspetti sociali, e anche simbolici, importanti che certo non diminuiscono le preoccupazioni politiche ma che allo stesso tempo non liquiderei con un “è una donna ma è contro le donne” (questa non è una citazione, ma un riassunto).

Solo che sulla questione “valore sociale della nomina di Giorgia Meloni” distinguerei due livelli, e lo faccio riferendomi non solo al genere ma in generale a gruppi che hanno il potere (chiamateli pure classe dominante o élite a seconda delle preferenze) e gruppi che invece lo subiscono.

L’ascesa di Giorgia Meloni è la storia di una persona che è passata dal secondo al primo gruppo e che esista una certa permeabilità è molto importante. Va ovviamente ricordato che c’è il bias del sopravvissuto: quante persone altrettanto e forse più capaci non sono riuscite a fare il salto?

Però c’è anche un altro tema, quello delle caratteristiche di questi gruppi, delle qualità che i membri devono possedere e mostrare, qualità spesso funzionali a far restare in una situazione di minorità l’altro gruppo. L’ascesa di Giorgia Meloni non cambia, e anzi forse rafforza, queste qualità. Il che ovviamente non significa che Giorgia meloni non sia una vera donna, non abbia vere origini modeste eccetera: quello è un discorso sull’autenticità che di solito appartiene alla retorica dei gruppi di potere e che mi pare stupido riprendere se l’obiettivo è, come io ritengo giusto che sia, modificare lo stato delle cose.

La strana storia della parola ‘woke’

Io sono uno di quelli convinti che le parole sono importanti. Tanto che un po’ mi spiace che questa espressione, “le parole sono importanti”, faccia subito pensare alla celebre scena di Palombella rossa di Nanni Moretti, associando questa attenzione all’uso delle parole alla sinistra radicale e a un personaggio un po’ nevrotico. Peraltro Le parole sono importanti è anche il titolo di un bel libro di Marco Balzano.

Le parole sono importanti, dicevo, non solo per quello che significano ma anche e spesso soprattutto per quello che evocano. Rubo un classico esempio da Non pensare all’elefante di George Lakoff: gli sgravi fiscali. Di fronte alla proposta di ridurre tasse e imposte, uno può chiedersi chi ci guadagnerà di più e chi di meno, da questa riduzione, e come verranno finanziate le minori entrate fiscali; ma parlare di sgravi fiscali si evoca un carico pesante che si fatica a gestire e un salvatore che ci toglie parte del peso, e con questa immagine in mente di spazio per quelle domande ne resta poco.

C’è però un ulteriore livello: le parole sono importanti per quello che significano, per quello che evocano ma anche per quello che le circonda, il contesto sociale nel quale vengono usate. Me ne sono resto conto ragionando sul termine “woke”, variante del participio di wake nata nell’inglese afro-americano vernacolare. Come sintetizza Wikipedia, «Woke, letteralmente “sveglio”, è un aggettivo della lingua inglese con il quale ci si riferisce allo “stare all’erta”, “stare svegli” nei confronti di presunte ingiustizie sociali o razziali».

Ora, lasciamo da parte le ingiustizie e anche le discriminazioni sistemiche – quelle implicite e incorporate in prassi e norme – e proviamo a ragionare sulla parola woke come se indicasse una generica consapevolezza, come peraltro capitava prima del movimento Black Lives Matter. Proviamo quindi a valutare la parola come se si riferisse al fatto che la carbonara si fa col guanciale e non con la pancetta.
Personalmente trovo che woke sia una parola molto interessante. Innanzitutto non presuppone la superiorità o la perfezione in chi si riconosce “woke”: di per sé non c’è nulla di eroico nell’essere svegli e nulla di riprovevole nel dormire, semplicemente una volta che ci si è svegliati, che si è diventati consapevoli sulla ricetta della carbonara, si notano cose che prima sfuggivano. Inoltre chiunque può svegliarsi: magari la cosa non è immediata ma è alla portata di chiunque, non serve essere cuochi provetti o attenti buongustai per capire che c’è differenza tra la pancetta e il guanciale. Infine woke è un concetto che riguarda innanzitutto noi stessi: certo possiamo impegnarci a svegliare gli altri, a combattere chi usa la pancetta al posto del guanciale ma quella è più una cosa da “social justice warrior” e mi immagino che una persona che si è svegliata sia innanzitutto attenta a quello che cucina e mangia.

Certo l’immagine di alcune persone vigili e attente e di altre addormentate o disattente può indispettire e implicitamente aderisce al “deficit model” secondo cui la diffidenza verso certi temi è dovuta a ignoranza, il che riduce drasticamente le possibilità di avere un vero dialogo alla pari con chi non condivide le nostre idee, ma nonostante tutto questo mi pare restare un termine interessante.
Eppure qualcosa è andato storto perché oggi “woke” è usato anche in modo spregiativo o sarcastico, indicando non una attenzione a certi temi ma un pericoloso fondamentalismo ideologico. E a questo punto quelle caratteristiche di apertura viste all’inizio sono bruciate: anche a voler usare “woke” con il significato originario di “essere vigili”, ci si confronterà con la diffidenza di alcuni e la complicità di altri; impossibile portare avanti un discorso condiviso con la parola “woke”.

Perché è successo tutto questo? Una prima risposta da prendere in considerazione è che semplicemente è capitato così: è normale che le parole cambino di significato, tutto dipende dalle scelte spontanee dei parlanti. Così da un generico “essere vigili sulle ingiustizie sociali” si è passati a indicare posizioni maggiormente profilate sui temi razziali e infine chi non si riconosce in quei valori ha ripreso il termine per criticare un attivismo giudicato sbagliato. In italiano l’analogo “sveglia” – diffuso, mi pare, in ambienti di controinformazione vicini al complottismo – è ad esempio stato subito parodiato.

Tuttavia c’è anche un’altra possibilità. Ne parla la sociologa Francesca Bolla Tripodi nel suo saggio The Propagandists’ Playbook: il cambiamento di significato non sarebbe del tutto spontaneo in quanto guidato dai movimenti conservatori con lo scopo di “dirottare le parole”. Che cosa significa rendere“woke” un insulto? Significa togliere di mezzo, almeno per quanto riguarda i discorsi condivisi, una parola concisa ed efficace con cui esprimere le proprie idee. Significa che chi cercherà online “woke” si imbatterà anche, e forse soprattutto, nelle accuse e nelle contestazioni di questa presunta pericolosa ideologia (una parte della ricerca di Tripodi riguarda appunto l’uso di parole chiave progressiste da parte dei conservatori). Significa che dizionari ed enciclopedie daranno uno spazio rilevante a quelle accuse e contestazioni, visto che fanno parte del significato della parola.

Le parole sono importanti. Perché è importante quello che facciamo con le parole.

Due cose sulle cose che diciamo delle elezioni

Non sono in grado di fare analisi politiche sulle elezioni italiane, tantomeno dare consigli ai vari partiti. Ma tanto di analisi e consigli così ce n’è in abbondanza.

Tra quelle che ho letto ho trovato due argomentazioni ricorrenti che mi hanno incuriosito.

La prima riguarda la legge elettorale, il “Rosatellum”. Non metto in dubbio che sia una brutta legge e che sarebbe importante cambiarla, innanzitutto perché è molto complicata, ma la legge è quella e tutti i partiti hanno avuto il tempo di adattare le proprie strategie. Le regole del gioco sono quelle, non sono state cambiate all’ultimo e certo possiamo prendere questo risultato come ennesima prova che la legge elettorale è da cambiare, ma pensare che con una legge diversa avremmo avuto un risultato migliore – ad esempio perché la coalizione guidata da Giorgia Meloni avrebbe una maggioranza parlamentare meno marcata – non ha molto senso: regole diverse comportano strategie diverse e non vedo perché chi (vedi il Partito democratico) non è riuscito ad attuare una strategia efficace in questa situazione di sarebbe dovuto riuscire in un’altra.

Poi c’è il tema del voto utile, dell’opportunità di scegliere il male minore. Su questo punto il filosofo Massimo Pigliucci ha scritto un interessante articolo a proposito delle presidenziali statunitensi partendo da una prospettiva stoica nella quale mi riconosco abbastanza.
“Ma perché in politica pretendi la perfezione quando in amore o sul lavoro sei disposto a venire a compromessi?” è un’obiezione che ho sentito spesso. Ed è un curioso argomento. Intanto perché scegliere per quale partito votare dipende esclusivamente da me, mentre per relazioni affettive e lavoro ci deve essere l’accordo di partner e datore di lavoro, ma poi quantomeno in amore gli astenuti non mancano: si chiamano single ed è perfettamente normale non avere una relazione se non si trova la persona giusta. Anzi, scegliere “il meno peggio” in amore fa ancora più strano che in politica. Sul lavoro è più comune ritrovarsi a fare qualcosa di indesiderato perché non si trova di meglio ma la consideriamo una situazione molto spiacevole che, nei casi più estremi, diventa addirittura una forma di lavoro forzato. Senza dimenticare che comunque non mancano quelli che lasciano un lavoro perché insostenibile.
Direi che in tutti e tre i contesti, politica, amore e lavoro, non si pretende la perfezione ma c’è comunque un livello minimo di qualità al di sotto del quale ci si dovrebbe seriamente chiedere se vale la pena andare avanti.

E se invece che per dei politici votassimo per un’intelligenza artificiale?

La campagna elettorale italiana prosegue tra slogan, manifesti, discorsi, comizi, programmi, interviste e altro che probabilmente – e forse fortunatamente – mi sfugge.

Nel complesso sono abbastanza scorato e non tanto, o comunque non solo, perché il partito e lo schieramento dati per vincitori – il centrodestra con Fratelli d’Italia – sono molto lontani dalla mia visione del mondo: rientra tra le regole del gioco democratico, che si possa perdere. No, il punto per me un altro: il disorientamento nel capire cosa faranno, o proveranno a fare, le persone una volta elette, in parlamento o eventualmente al governo.

In teoria per quello dovremmo avere i programmi elettorali, ma sono una versione diluita degli slogan che troviamo sui manifesti e nei discorsi: affermazioni generiche che è difficile capire come si potrebbero tradurre in proposte concrete (sulle quali comunque si dovrebbe arrivare a compromessi con altre forze politiche oltre che a fare i conti con la realtà di accordi internazionali e coperture finanziarie).
Quella che abbiamo è una visione del mondo che non necessariamente è quella dei candidati: più facile che sia quella che i candidati reputano essere la visione del mondo del loto elettorato o meglio di quella parte del loro elettorato sulla quale è importante puntare.

Certo, di novizi della politica non ce ne sono per cui, se si è seguita un po’ la cronaca degli ultimi anni, c’è un lungo elenco di precedenti sui quali basarsi ma è proprio la cronaca politica mostrare notevoli mutamenti di – chiamiamolo così – “temperamento politico”.

Avete presente quei test che, in base alle risposte a domande tipo “sei favorevole alla legalizzazione delle droghe leggere?” o “vuoi la flat tax?”, indicano quali sono i partiti più vicini? Ecco, forse collocano bene, nell’ipotetico spazio politico, chi fa il test; il problema è la posizione dei partiti che è molto indicativa.

Da qui l’idea di una modesta proposta, sulla scia di quella ben più illustre di Jonathan Swift. Come noto, la sua proposta – contenuta in un libretto satirico del 1729 – prevedeva di risolvere il problema della sovrappopolazione mettendo all’ingrasso i bambini dei poveri irlandesi per venderli ai ricchi inglesi. Io propongo invece di votare non per dei politici, ma per delle intelligenze artificiali.

Una modesta proposta per impedire che i politici siano di peso per i loro elettori o per il Paese

Primo passaggio: si investono dei soldi per la realizzazione di un sistema esperto che scriva leggi e decreti. Questa intelligenza artificiale deve non solo tenere conto di come è fatto un testo giuridico, ma anche di quali sono le conseguenze economiche e sociali. Soprattutto, deve essere in grado di valutare ogni decisione in base ad alcuni valori di riferimento (alla sua creazione dovranno quindi lavorare anche esperti di scienze sociali), cose tipo la tutela dell’ambiente, la libertà individuale, la distribuzione della ricchezza, l’autonomia delle regioni eccetera.

Secondo passaggio: istituire una commissione di esperti che vagli le decisioni dell’intelligenza artificiale. Una sorta di corte costituzionale che verifichi ad esempio il rispetto di diritti fondamentali: magari incarcerare tutte le persone dai capelli rossi – chissà perché si prende sempre questo esempio? – aumenta di dieci volte il benessere collettivo e riduce l’inquinamento, ma non è comunque il caso di farlo.

Terzo passaggio: sostituire le elezioni con un questionario sui valori di riferimento identificati al punto 1. Come quei test che ti dicono che sei all’80% del partito X e al 68% del partito Y, ma più dettagliato, eventualmente proponendo anche qualche scenario ipotetico per valutare le priorità.

Quarto e ultimo passaggio. I risultati vengono poi aggregati e forniti all’intelligenza artificiale che, in base alle priorità e alla sua conoscenza, decide quali leggi cambiare, dove servono più risorse eccetera. Se ad esempio risulta che le disuguaglianze di genere sono un tema da affrontare, l’intelligenza artificiale potrebbe ad esempio decidere di imporre procedure di assunzione “al buio”, in cui fino alla fine non si conosce il genere dell’aspirante dipendente – sempre che la misura risulti efficace e la libertà economica non sia risultata prioritaria.

Possibili obiezioni

Ce ne sono tantissime, a iniziare dalla concreta possibilità che l’intelligenza artificiale venga sviata con informazioni di parte. Se le forniamo studi farlocchi sul clima, potrebbe imporre di aumentare le emissioni di gas serra per far fronte a un’imminente era glaciale.
C’è poi il rischio che la propaganda politica semplicemente si sposti sul questionario.

Ma la situazione sarebbe davvero peggiore di quella attuale?

Aggiornamento del 25 settembre 2022

Mi ero dimenticato di aver già ragionato, nel 2008, su questi test

Da qui l’idea: eliminare le schede elettorali attualmente in uso e sostituirle con un veloce questionario di un ventina di domande, dividendo il proprio voto tra i partiti in base alla distanza ottenuta.

Democrazia e poteri contromaggioritari

Che cosa è la democrazia? Ok, quando si inizia con una domanda così di solito va a finire male – o almeno così capita nei dialogi socratici, e la filosofia ci ha messo un bel po’ di tempo per smettere di cercare l’essenza delle cose.

A ogni modo, diciamo che possiamo definire la democrazia come semplice criterio maggioritario: siamo d’accordo di mettere questa decisione ai voti e che tutti si adeguano al risultato, anche se non lo condividono. Oppure possiamo pensare di riempire l’idea di democrazia con altro, fondamentalmente con delle garanzie per i diritti e le libertà delle persone.

Al filosofo del diritto Mauro Barberis piace questa seconda ipotesi – e anzi la considera l’unica valida – e nel 2019 ha scritto un libro sul tema, Come internet sta uccidendo la democrazia, dedicato ad analizzare un fenomeno secondo lui nuovo, il populismo digitale che definisce “una democrazia presa alla lettera”, un’interpretazione testuale che ne stravolge il significato profondo.

Propongo qui una lunga citazione dal libro, che trovo particolarmente interessante, a proposito di una di queste garanzie: le istituzioni contromaggioritarie la cui difesa è indicata da Barberis come uno dei possibili rimedi al populismo digitale.

Oggi sia il Movimento 5 stelle, sia la Lega di Salvini – i due partiti al centro dell’analisi di Barberis – sono politicamente meno importanti di quando il libro è stato scritto e pubblicato, ma credo che la riflessione sul populismo rimanga attuale visto che quel modo di ragionare mi pare ancora presente.

Uso qui «contromaggioritario» nel senso della letteratura nordamericana sul judicial review, quel controllo di costituzionalità statunitense spesso accusato di essere antidemocratico. Se mai i suoi critici anglofoni si degnassero di studiare i sistemi costituzionali continentali, però, si accorgerebbero di questa differenza: in alcuni Stati degli Usa i giudici sono eletti dal popolo, mentre in Europa si pensa che una magistratura indipendente dal governo non possa essere eletta dalla stessa maggioranza che elegge quest’ultimo.

Sono contromaggioritari, in questo senso, non solo il potere giudiziario, corti costituzionali comprese, ma tutte le istituzioni oggetto del livore populista: presidente della Repubblica, agenzie indipendenti, organi sovranazionali… Bisognerebbe spiegare al popolo che sono proprio gli organi contromaggioritari a fare i suoi interessi, non i governi populisti che, come tutti i governi, fanno i propri interessi. Le istituzioni contromaggioritarie sono contro i governi, non contro il popolo.

Il primo rimedio alla politica populista, di tipo istituzionale o costituzionale, è appunto difendere le istituzioni contromaggioritarie distintive della liberaldemocrazia. Non tutti sanno che, nella storia, la democrazia è sempre durata poco. Nata nelle città antiche, trapiantata negli stati nazionali, oggi rischia di estinguersi dopo l’ulteriore trapianto sul web. Il primo rimedio, puramente negativo, è allora mettere in sicurezza le istituzioni contromaggioritarie: magistratura, stampa indipendente, gli stessi media

[…] Qui userò «costituzionalismo» [nel senso di] governo del diritto, e sosterrò che per garantirlo occorre difendere, contro istituzioni maggioritarie come parlamenti e governi nazionali, tre tipi di istituzioni. Intanto, istituzioni non politiche: scienza, università, ong. Poi, istituzioni contro-maggioritarie in senso stretto: magistratura, presidente della Repubblica, autorità indipendenti. Infine, istituzioni sovranazionali: Onu, Ue, grandi corti internazionali.