Credo sia utile dire una cosa sui “Lockdown files” che il quotidiano britannico The Telegraph sta pubblicando. Si tratta di migliaia di messaggi dell’ex ministro della sanità Matt Hancock, quello che si è dovuto dimettere per aver violato le restrizioni sul distanziamento sociale.
Non mi pare ci siano rilevazioni che cambino radicalmente quello che già si sapeva o si poteva sospettare visto il personaggio. Tuttavia uno scambio di messaggi ha dato il via a diverse discussioni online ed è stato anche ripreso dalla BBC.
In quei messaggi Hancock parla del “rilascio” (deploy) di una nuova variante del coronavirus per spaventare la popolazione (frighten the pants of everyone). Siti come BUTAC sono subito intervenuti spiegando che il riferimento è all’annuncio della scoperta della nuova variante, non alla sua diffusione tra la popolazione. Aggiungo anche che Hancock indica chiaramente che la paura ha lo scopo di far rispettare le restrizioni.
Ora, può essere che qualcuno abbia davvero preso quel “deploy” scritto da Hancock come prova del complotto del virus inesistente o creato in laboratorio come parte di un piano per dominare il mondo. Ma sinceramente non ho visto nessuno sostenerlo. La smentita di BUTAC mi pare quindi uno straw man argument. Ho invece visto citare lo scambio di messaggi come conferma del fatto che le decisioni dei governi non erano basate sulla scienza e non erano prese per il bene della popolazione. Al contrario, la scienza si era sottomessa alla politica e alla sua volontà di controllo.
È una interpretazione che non condivido affatto. Ma che non posso pensare di contrastare semplicemente dicendo che Hancock parlava dell’annuncio e non del rilascio. Quella precisazione non tocca il punto più importante di quei messaggi, ovvero l’esistenza di un piano per spaventare la popolazione (come ha titolato la BBC: “Leaked messages suggest plan to frighten public”). Siamo nella situazione in cui un governo, invece di informare in maniera completa e obiettiva la popolazione, punta tutto sulla paura. Invece di spiegare le motivazioni alla base dei vari provvedimenti si spaventano le persone, con un paternalismo che sarebbe inaccettabile anche ad aver a che fare con dei veri bambini – spieghi che le scale per la cantina sono pericolose, non che c’è un mostro nel seminterrato. Il tutto, ovviamente, senza rispettare le restrizioni imposte agli altri.
È un comportamento che era già emerso prima dei messaggi trapelati. Ma non per questo meno grave: agendo così si è ridotta, e a ragione, la fiducia verso le autorità (in questo caso britanniche, ma il discorso è chiaramente più ampio). Ricostruire questa fiducia non sarà semplice, ma il primo passo è certamente denunciare chiaramente le cose che non hanno funzionato, anche se vuol dare un briciolo di ragione a dei complottisti.
Il Corriere della Sera ha deciso di pubblicare una collana di libri di astrologia. Da possessore e lettore più che soddisfatto di una analoga collana dedicata alle parole della filosofia, la cosa mi indispone un po’. Certo, la serietà di quei libri è garantita dagli autori e dai curatori della serie (Corrado Del Bò, Simone Pollo e Paola Rumore). Non immaginavo di ritrovarmi a dire che quei nomi ne garantiscono la qualità nonostante l’editore.
Se il problema fosse solo la perdita di credibilità – almeno da parte di alcuni – del Corriere della Sera, sarebbe solo una preoccupazione loro. Ma c’è anche il discorso di dare dignità all’astrologia. Che per carità, se la cava bene anche senza la Biblioteca di astrologia del Corriere della Sera: dopo un paio di millenni di critiche, l’astrologia continua a esser presente, tra oroscopi e le chiacchiere di chi chiede di che segno sei. Certo non è più considerata una disciplina seria: non la si insegna nelle scuole, non ci si basa su di essa per far previsioni e i già citato oroscopi sono perlopiù confinati nelle pagine di costume. Ma l’astrologia continua a tenerci compagnia.
Questa tenacia è uno dei motivi per cui l’astrologia mi affascina. Insieme molto probabilmente al fatto che ha soffiato il nome che – seguendo il modello di biologia, psicologia, zoologia, archeologia… – spetterebbe all’astronomia. Per questo motivo io una collana di libri dedicati all’astrologia la comprerei. È vero che si tratta di una pseudoscienza priva di fondamento, ma questo non significa che la si possa ignorare. Parliamo infatti di una pseudoscienza che troviamo in molte culture, che per millenni ha rappresentato una forma di sapere legittima tanto da intrecciarsi con la rivoluzione scientifica e che, come accennato, continua ad avere un certo seguito anche in un mondo dominato dalla tecnologia come il nostro. Raccontare la storia dell’astrologia per descriverne la popolarità e la marginalizzazione sarebbe un’iniziativa interessante. E anche spiegare che tipo di prove si possono fare, e sono state fatte, per mettere alla prova la validità dell’astrologia.
Il problema, insomma, non è che il Corriere della Sera dedichi una serie di libri all’astrologia, ma quello che c’è dentro quella serie di libri. E che, a giudicare dalla presentazione della collana, è quanto di più lontano dall’approccio da me auspicato
L’altra mattina un libro ha attirato la mia attenzione. Un po’ per i colori della copertina e che lo facevano spiccare tra gli altri anonimi volumi nella bibliocabina. Un po’ per il titolo: 4000 cose da sapere.
È un concetto interessante, quello di “cosa da sapere“. Certamente ci sono delle cose che una persona deve sapere per svolgere determinate attività. Chi guida deve conoscere le norme della circolazione stradale, chi vuole preparare la cena deve saper cucinare, chi vuole fare il critico deve conoscere la storia e la tecnica del cinema eccetera. Ma ci sono conoscenze che chiunque deve avere, indipendentemente da uno specifico compito che deve svolgere? Se pensiamo alla quantità di informazione che subiamo giornalmente, direi sarebbe un bel risultato avere anche solo un’idea generale di cosa bisogna conoscere e cosa invece si può ignorare. È un tema di cui avevo scritto a proposito delle notizie, ma certamente si applica anche a quella che potremmo chiamare “cultura generale”.
Ovviamente non mi aspettavo di trovare queste risposte in quello che è semplicemente un libro di curiosità scientifiche – e che alla fine ho preso, appunto, per curiosità. Però qualche indizio su queste “conoscenze essenziali”, dalla scelta degli argomenti inseriti, lo si potrebbe trovate. Insieme ovviamente a cose bizzarre come il fatto che in ogni istante nel mondo si scatenano 2000 temporali. Interessante, ma non esattamente una cosa che si deve sapere.
Ora, non so se è un problema dell’autore, John Farndon, o se è un casino fatto con l’edizione italiana, ma l’ordine non ha molto senso. Per dire: la scheda – ce ne sono 400, ognuna con 10 punti – sulle Lune galileiane (che sono satelliti di Giove) è insieme a quella su Urano, la scheda sulle eruzioni solari è invece a una decina di pagine da quella sul Sole. Che, ci viene detto, “pesa circa 300’000 volte più della Terra”. E si può forse tollerare confondere il peso con la massa, ma cosa significa che il Sole “contiene circa 1,3 milioni di volte la materia del nostro pianeta“? Guardando i dati su Wikipedia, probabilmente si riferisce alla differenza di volume: 1,4×1027 m3 il Sole, 1,1×1021 m3 la Terra. Ma come il volume diventi “la materia contenuta” è un mistero che non sono in grado di risolvere.
Ma anche così, non ha molto senso: quei numeri non aiutano a comprendere le proporzioni. Più interessante immaginare un pallone da pallacanestro: se fosse la Terra, il Sole sarebbe un palazzo di nove piani situato a tre km di distanza. E invece immaginiamo che il pallone sia il Sole, la Terra sarebbe un chicco di riso a 25 metri. (Questi dati arrivano dal primo capitolo di Dove sono tutti quanti?di Amedeo Balbi). Questa è un’informazione che penso ognuno dovrebbe sapere, almeno a grandi linee.
Un lungo articolo nel quale, partendo dagli scritti di Hans Kelsen, ragiono sull’origine comune delle norme sociali e delle leggi di natura e sul dualismo tra società e natura.
Premessa
Capita di scrivere di Antigone e, immersi in un contesto di norme giuridiche e morali, neanche ci si rende conto dell’ambiguità dell’espressione “legge naturale” che può indicare – come era il caso per Antigone – sia leggi che sono valide e giuste per natura (come la cosiddetta “regola aurea” del non fare agli altri quel che non vorresti venisse fatto a te) sia leggi che riguardano i fenomeni naturali (come “la velocità di caduta di un corpo non dipende dalla sua massa”).
Così il titolo “Le leggi naturali sono in realtà molto umane” è stato frainteso e l’equivoco si è concluso con un invito, da parte di Choam Goldberg, a riflettere se anche le leggi naturali – nel secondo significato, quello scientifico – possono essere costrutti sociali.
Società e natura: una ricerca sociologica
La stesura di questo articolo si è intersecata con la notizia della morte del filosofo e sociologo Bruno Latour che sosteneva proprio questo: la scienza è una costruzione sociale (ovviamente in una forma più raffinata di questo semplice riassunto). Ma non pensavo di scrivere di Latour, bensì del filosofo e giurista Hans Kelsen. E questo perché volevo approcciare il tema da un altro punto di vista: non tanto capire se le leggi di natura siano socialmente costruite ma da dove nasce l’idea di una legge di natura.
Ora, Hans Kelsen è il padre della dottrina pura del diritto, dove quel “pura” significa studiare il diritto lasciando perdere cose come l’etica, la politica, la storia, la sociologia e ragionare su cosa è, in generale, una norma giuridica. Il che comunque non significa etica, politica, storia o sociologia siano perdite di tempo. Infatti nel 1943 – dopo aver lasciato l’Europa per sfuggire al nazismo; per i dettagli consiglio caldamente di recuperare i suoi Scritti autobiografici (Diabasis 2008) – pubblicò un libro che di sottotitolo ha proprio Ricerca sociologica. Il titolo è invece Società e natura ed è un’opera che alcuni studiosi non sanno bene come inquadrare, all’interno del pensiero di Kelsen, e viene spesso ignorata, per quanto la tesi di fondo del libro trovi spazio anche nelle opere successive. È ad esempio riassunta nell’articolo Causalità e imputazione del 1950, pubblicato in appendice ai Lineamenti di dottrina pure del diritto. La traduzione italiana di Società e natura, fatta da Laura Fuá, temo sia esaurita; io ho una copia dell’edizione del 1992 pubblicata da Bollati Boringhieri.
Oggi è una lettura un po’ imbarazzante, per come descrive – peraltro senza indagini sul campo ma basandosi su resoconti – dei “popoli primitivi” caratterizzati fondamentalmente da uno scarso sviluppo mentale. Vero che siamo negli anni Quaranta (e le idee fondamentali del libro risalgono ad almeno un decennio prima, stando alla prefazione di Renato Treves), ben prima che studiosi come Claude Lévi-Strauss ci mostrassero la razionalità dei “selvaggi”, ma il punto non è accusare o assolvere Kelsen dall’accusa di occidentalismo, bensì chiederci se vale la pena, oggi, leggere un testo dall’impostazione così datata. La risposta è sì, ne vale la pena perché il ragionamento di Kelsen, al di là dei pregiudizi sui “popoli primitivi”, riguarda il dualismo tra società e natura.
Questo dualismo, nella forma dell’opposizione tra “essere” (natura) e “dover essere” (società) è uno degli elementi alla base della dottrina pura del diritto. Kelsen la presenta proprio con la differenza da cui siamo partiti, quella tra “le leggi naturali [che] sono proposizioni sul corso effettivo degli eventi” e “le regole giuridiche [che] sono prescrizioni per il comportamento degli uomini” (la citazione è da Teoria generale del diritto e dello Stato, ma il concetto lo si trova anche in altri testi). È bene precisare che il “dover essere” non caratterizza la società in generale ma solo quelle scienze normative – come la morale, il diritto e, almeno secondo Kelsen, anche la teologia – che non descrivono quello che le persone fanno, e che rientra nella dimensione dell’essere, ma quello che le persone dovrebbero fare: “non uccidere” non significa che le persone non uccidano, ma che non dovrebbero farlo (morale) o che quando lo fanno dovrebbero essere punite (diritto).
Le origini del dualismo tra natura e società
Da dove arriva questo dualismo tra natura e società, tra essere e dover essere?
“La differenza fra essere e dover essere non può essere ulteriormente spiegata: è un dato immediato della nostra coscienza” si legge nella Dottrina pura del diritto, ma questo non impedisce di indagare la genesi di questo concetto. Norme sociali e leggi di natura hanno infatti un’origine comune che Kelsen identifica nel principio del contrappasso (mantengo la traduzione usata in Società e natura, anche in omaggio agli studi di Kelsen sul pensiero politico di Dante, per quanto credo che oggi sarebbe più opportuno parlare di retribuzione).
Il contrappasso è la lex talionis, la legge del taglione, quella che vede una corrispondenza tra azione (illecita) e punizione, come se la seconda dovesse ristabilire un equilibrio rotto dalla prima. Il contrappasso non è la semplice reazione a una minaccia dovuta all’istinto di autoconservazione e neanche il pretendere di tornare alla situazione di partenza tramite una qualche riparazione del danno: è l’infliggere al colpevole un danno paragonabile a quello che lui ha inflitto a noi, fondamentalmente una vendetta regolata.
Per i “primitivi”, scrive Kelsen, il principio del contrappasso regola tutto, senza distinzioni tra realtà naturale e realtà sociale. Ogni evento si spiega in quanto ricompensa o punizione di un altro evento e non c’è punizione senza colpa o ricompensa senza merito. Non so se davvero non vi fosse alcuna differenza tra una frana e il vicino che ti tira una bastonata, ma l’idea di base mi sembra compatibile con gli studi sul pensiero magico e la psicologia popolare (quella che intuitivamente ci fa attribuire stati mentali alle altre persone e talvolta anche a oggetti). Cosa, che ovviamente non riguardano solo i “popoli primitivi” ma l’umanità in generale.
I primi filosofi e i primi sovrani
Poi nel mondo greco arrivarono i primi filosofi, non a caso oggi conosciuti come “naturalisti” perché appunto cercarono una spiegazione unitaria dei fenomeni naturali, qualcosa che andava quindi al di là del singolo evento. Ma – e questa è un aspetto molto interessante – tutto questo non accadde perché si stava capendo che le cose si comportano diversamente dalle persone. Per i primi naturalisti, scrive Kelsen, il carattere normativo della spiegazione era lo stesso di prima, la realtà sociale continuava a essere il modello dal quale partire per comprendere tutta la realtà:
Le piú antiche scuole filosofiche greche, a simiglianza del pensiero mitico dell’uomo primitivo, spiegarono la natura in base all’analogia con la società.
Che cosa era cambiato quindi tra il pensiero mitico e quello filosofico? A essere cambiata era la società, con un sovrano che accentrava il potere inclusa la giustizia, regolando il gioco di ricompense e vendette con delle norme generali.
La comunità che detiene il comando, lo Stato, offre il modello di quell’ordine che la filosofia trasferirà nell’universo.
Il singolo evento non viene ricondotto a un precedente evento del quale sarebbe la reazione (di ricompensa o di punizione), ma a una legge generale. È a questo punto, in cui abbiamo leggi e non più singoli contrappassi, che è possibile separare le leggi degli uomini da quelle di natura:
L’idea di una legge universale della natura, che in principio era semplice proiezione della legge dello Stato nel cosmo, si emancipa dal suo prototipo e acquista un significato del tutto indipendente. La legge dello Stato, o norma, da un canto, e la legge della natura, o legge di causalità, dall’altro, diventano due principi completamente diversi.
Si tratta ovviamente di un processo lento: il carattere normativo delle leggi di natura rimane determinante ancora per qualche secolo. Kelsen indica nell’atomismo di Leucippo e Democrito la nascita di un principio causale che non sia espressione di una volontà più o meno personale. Parliamo del passaggio da una legge naturale inviolabile perché “non è assolutamente possibile evitare la reazione a una eventuale disobbedienza” a una legge che diventa “l’espressione di una necessità obbiettiva impersonale”.
Una trasformazione simile avviene anche in ambito sociale. Qui il grande innovatore è Protagora che propose un’idea che ancora adesso si fatica ad accettare: non puniamo per ristabilire un equilibrio che il colpevole ha infranto, la pena non è retribuzione ma prevenzione:
La punizione non è inflitta per motivi misteriosi, bensì per scopi assai chiari. Nessuno punisce pel fatto e pel motivo della colpa, salvo chi lo fa irragionevolmente a sfogo di vendetta, come le bestie. Chi punisce ragionevolmente non punisce per il fatto passato – ciò che è avvenuto non si può fare che non sia avvenuto – ma per l’avvenire, affinché non pecchi piú né il colpevole né altri che lo veda punito. Con questo pensiero ammette che la virtú si possa insegnare; egli punisce per prevenire.
La scienza moderna e le sue cause
Possiamo concludere con Leucippo e Democrito la storia della separazione tra natura e società? Verrebbe da rispondere di sì: con la scienza moderna si capisce come studiare meglio la natura, ma l’idea di base resta quella di una causalità non determinata da una qualche forma di volontà.
Eppure Kelsen vede ancora un’ombra della vecchia concezione, un residuo del contrappasso: il concetto di causalità. In natura, osserva Kelsen, non esistono cause ed effetti ma quelle che lui chiama “dipendenze funzionali“, come quella che lega temperatura e pressione di un gas. Pensare che l’aumento di temperatura sia la causa dell’aumento della pressione significa applicare alla natura i concetti di colpa e punizione.
Il primo a intuirlo fu Hume, attribuendo l’impressione che un fenomeno ne causi un altro all’abitudine dell’osservatore (e Kelsen ipotizza di nuovo un’analogia con le leggi umane, in particolare il diritto consuetudinario). Poi arrivarono Kant, Ernst Mach e Werner Heisenberg ma il concetto di base è che non c’è una cosa che possa essere definita “causa” e una cosa “effetto” – a meno che non ci mettiamo di mezzo la volontà umana che desidera aumentare la pressione e quindi scalda il gas o, al contrario, desidera scaldare un gas e allora lo comprime.
Quando la causalità si emancipa dal contrappasso, e la legge di natura dalla norma sociale, la natura e la società appaiono come due sistemi completamente diversi. È possibile immaginare un sistema di norme che regolino la condotta umana e organizzino la società in un ordine completamente diverso dalle leggi della natura, senza ricorrere alla finzione del libero arbitrio e senza contraddire quindi al principio di causalità.
Sul significato politico delle elezioni mi pare non ci sia molto da discutere: abbiamo un governo è un parlamento di destra, conservatori se non reazionari. Se va bene, in Italia si starà fermi una legislatura su temi come i diritti sociali, la tutela dell’ambiente e anche le liberalizzazioni; se va male ci aspettano pure dei passi indietro.
Non so se è per cercare una qualche consolazione o se per dovere di obiettività, c’è chi sottolinea che per la prima volta c’è una donna alla presidenza del consiglio. Anzi, “una donna con un curriculum di partito e di origini familiari modeste che a 45 anni arriva a Palazzo Chigi” come ha scritto un’esponente politica.
Penso che si tratti di aspetti sociali, e anche simbolici, importanti che certo non diminuiscono le preoccupazioni politiche ma che allo stesso tempo non liquiderei con un “è una donna ma è contro le donne” (questa non è una citazione, ma un riassunto).
Solo che sulla questione “valore sociale della nomina di Giorgia Meloni” distinguerei due livelli, e lo faccio riferendomi non solo al genere ma in generale a gruppi che hanno il potere (chiamateli pure classe dominante o élite a seconda delle preferenze) e gruppi che invece lo subiscono.
L’ascesa di Giorgia Meloni è la storia di una persona che è passata dal secondo al primo gruppo e che esista una certa permeabilità è molto importante. Va ovviamente ricordato che c’è il bias del sopravvissuto: quante persone altrettanto e forse più capaci non sono riuscite a fare il salto?
Però c’è anche un altro tema, quello delle caratteristiche di questi gruppi, delle qualità che i membri devono possedere e mostrare, qualità spesso funzionali a far restare in una situazione di minorità l’altro gruppo. L’ascesa di Giorgia Meloni non cambia, e anzi forse rafforza, queste qualità. Il che ovviamente non significa che Giorgia meloni non sia una vera donna, non abbia vere origini modeste eccetera: quello è un discorso sull’autenticità che di solito appartiene alla retorica dei gruppi di potere e che mi pare stupido riprendere se l’obiettivo è, come io ritengo giusto che sia, modificare lo stato delle cose.
Ho avuto il piacere di intervistare il filosofo della biologia Telmo Pievani in occasione di una sua conferenza che si terrà sabato 1º ottobre a Bellinzona.
L’intervista ruotava intorno al suo nuovo libro, di cui ho già scritto, e un paio di domande le ho dovute tagliare per motivi di spazio. La prima riguardava gli errori di comunicazione della scienza fatti durante la pandemia; la seconda, partendo da una sua precedente risposta sull’ecologismo che deve ampliare lo sguardo e proteggere la natura non solo con parchi e riserve naturali, chiedeva dei Jova Beach Party su cui tanto si è discusso la scorsa estate.
Gli errori della comunicazione della scienza
Faccio un po’ il bastiancontrario. Molti miei colleghi dicono che sì, ci sono stati errori perché non eravamo preparati… secondo me occorre essere più critici perché c’è un problema di fondo nel modo in cui comunichiamo la scienza. La comunichiamo sempre partendo dai risultati, dai prodotti e quindi raccontiamo i numeri, i fatti, le evidenze. Il che va benissimo: non dico che non sia giusto però non basta, non è sufficiente, bisogna spiegare il metodo scientifico, devi spiegare il modo con cui arrivi a quei risultati.
Alcuni lo fanno, alcuni lo fanno benissimo, altri diciamo un po’ meno. Bisogna evitare una modalità di comunicazione paternalista del tipo “adesso ti spiego le cose perché tu non le sai” “ma tu stai zitto perché non sei laureato in medicina”, “ma la scienza non è democratica”. Sono tutte espressioni che rendono antipatica e poco amichevole la comunicazione della scienza.
La scienza deve essere trasparente, devi raccontare quello che non sappiamo, gli errori, le incertezze, senza nasconderle. La mia proposta è una comunicazione della scienza più onesta e più autocritica e soprattutto raccontare il metodo, cioè come tu arrivi a un risultato, perché così condividi col pubblico la bellezza del metodo scientifico che è fatto di dubbio, di ipotesi a confronto, di nuovi dati che arrivano, di incertezza e di tanta ignoranza, perché poi noi non sappiamo tantissime cose a proposito della natura. È evidente che stiamo studiando un sistema con la natura che ancora ci sfugge.
Solo un esempio che non ho messo nel libro perché è uscito dopo: due mesi fa è stata fatta finalmente una mappatura di tutti i coronavirus che ci sono in Asia, attraverso i dati genetici. Ed è saltato fuori che ce ne sono solo in Cina 5000. E ne conoscevamo una manciata prima della pandemia. Questo ti fa capire quanto eravamo ignoranti e quanto continuiamo a essere ignoranti, in questo caso su questi virus e sulla loro biodiversità.
I Jova Beach Party accusati di greenwashing
Secondo me il tema più che il greenwashing è la logica delle compensazioni.
Tra l’altro io ho partecipato ai Jova Beach Party, c’è anche un mio video. La filosofia di fondo li qual è? Io faccio un concerto con 40mila persone su una spiaggia, il che ha evidentemente un impatto ambientale, ma lo compenso perché finanzio il progetto lì vicino di un’oasi, perché trasmetto a mezzo milione di giovani italiani un messaggio ecologista e ambientalista eccetera. Quindi compenso quell’impatto con altre attività.
Io comincio ad avere un po’ di dubbi anche su questa strategia della compensazione, secondo me non funziona più tanto bene. Lo fanno anche le aziende e gli Stati: io inquino, emetto CO2 però compro dei crediti di CO2 oppure compenso le mie attività inquinanti. Io penso che non sia più tanto adeguata perché la situazione è talmente grave oggi dal punto di vista del deterioramento ambientale e del cambiamento climatico che più che compensare bisogna davvero ridurre sostanzialmente ogni tipo di impatto che noi abbiamo sull’ambiente: invece di farlo e poi compensarlo, non farlo direttamente.
Questa è la riflessione che io farei se fossi tra gli organizzatori. Le polemiche non fanno bene ed è chiaro che c’è stata una reazione anche eccessiva in certe parti dell’ecologismo e io non tollero la violenza verbale che è stata usata, un altro deterioramento del dibattito. Però farei una riflessione seria su quanto sia adeguata oggi questa logica della compensazione che secondo me va superata.
Alberto Fraccacreta ha intervistato il Premio Nobel per la fisica James Peebles ed è una bella intervista, sia per quello che dice il fisico americano sia per come è scritto il pezzo.
Tra le cose che ho apprezzato: il voler tenere insieme cultura umanistica e cultura scientifica, per quanto le citazioni di Borges e McCarthy risultino un po’ posticce; l’atteggiamento cautamente sperimentale di Peebles («L’obiettivo reale della scienza, della fisica, dell’astronomia è l’interazione tra teoria e osservazione»); alcuni dettagli come l’aver specificato che l’intervista è stata fatta via mail.
Il problema è il titolo che, almeno nella versione online, il quotidiano Avvenire ha voluto dare all’intervista.
Fisica. Il Nobel Peebles: «Il Big Bang c’è stato, ma prima cosa c’era?»
Cosa non va in questo titolo? Innanzitutto Peebles non ha mai detto le parole che sono riportate tra virgolette. Quello delle citazioni inventate è una fastidiosa abitudine del giornalismo italiano che si può tollerare quando il virgolettato, per quanto non originale, è una sintesi fedele. Ma ovviamente non è questo il caso: Peebles si lamenta – e del resto non è il primo fisico a farlo – del nome Big Bang che «connota un evento in un determinato momento e luogo» e questo quando «l’ipotesi dimostrabile non ha nulla a che fare con momenti o luoghi specifici».
C’è un accenno al “prima”, ma è strano che il titolista di un quotidiano con una forte identità cristiana se ne esca con una domanda – cosa c’era prima della creazione? – che fa parte della storia del pensiero cristiano. Mentre il Demiurgo platonico ha dato origine al cosmo ordinando un caos precedente, il Dio cristiano ha creato tutto dal nulla e questo è un bel grattacapo al quale Agostino d’Ippona (che immagino Avvenire preferisca citare come Sant’Agostino) ha dedicato molta attenzione per una serie di obiezioni tra cui, appunto, cosa c’era prima della creazione? La risposta di Agostino è che non c’è un prima perché – la formulazione è mi pare in La Città di Dio – la creazione non è avvenuta nel tempo, ma con il tempo; visto che prima della creazione il tempo non esisteva, non ha senso chiedersi cosa c’era prima.
C’è anche un altro problema: Avvenire ha usato la foto di Jim Peebles presente su Wikicommons citandola come semplice “archivio”, quando invece sarebbe necessario citare il nome dell’autore, Juan Diego Soler, insieme alla licenza CC BY 2.0.
“Nel bene o nel male purché se ne parli“: a me questa frase, più che una strategia di comunicazione, è sempre sembrata una comoda giustificazione da usare quando qualcosa è andato storto. Ma non son un esperto di marketing e immagino che in determinati contesti – ad esempio quando quello che ti interessa è togliere spazio mediatico ai concorrenti – spararla grossa e raccogliere critiche possa avere qualche vantaggio.
Non credo che questo sia il caso per chi fa comunicazione della scienza: qui la fiducia e l’autorevolezza – quello che nel marketing dovrebbe essere la brand image – sono molto importanti ed essere conosciuti come quello che dice cavolate o difende una determinata tesi a priori potrebbe non essere una bella cosa, quantomeno se si vuole raggiungere un pubblico che la pensa differentemente. Forse può essere una strategia interessante se l’idea è “predicare ai convertiti”, parlare a chi è già convinto di un certo argomento. Il problema è che il controllo sul pubblico è molto limitato e anche quello che viene detto in una conferenza per gli addetti ai lavori può sfuggire di mano ed essere oggetto di discussione, e distorsione, pubblica.
Ora, la comunicazione si gioca molto sul concetto di frame o cornice: quando acquisiamo una nuova informazione, la inseriamo in una rete di idee e concetti che già abbiamo e ad avere la priorità è questa cornice concettuale. In altre parole: se Tizio è convinto che le auto elettriche siano il futuro della mobilità sostenibile mentre Caio pensa che siano una moda pseudoecologista, l’informazione che la tal casa automobilistica produrrà più auto elettriche viene inserita nelle due cornici e assume significati molto diversi, mentre se un’informazione non può essere inserita nella cornice concettuale, è facile che venga ignorata o ridimensionata.
Il classico consiglio che ne segue è di non limitarsi a fornire informazioni ma, se vogliamo convincere una persona che non ha ancora un’opinione netta, anche un frame concettuale nel quale inserire quelle informazioni. Mi chiedo in quali condizioni valga la pena fare il ragionamento opposto e chiedersi in quali frame potrebbero finire le nostre informazioni. Perché anche un’informazione chiara e oggettiva può fare una brutta fine, nel frame sbagliato.
Mi spiego con due esempi. Il primo riguarda il WEF, il Forum di Davos che, in quanto importante organizzazione di lobbying, si merita molte critiche, ma non tutte visto che è al centro di diverse fantasie di complotto. Ha senso che in questo contesto si inventino, come nome per un progetto di ripresa – che peraltro nessuno ha chiesto loro di elaborare, ma questo è un altro discorso – “The Great Reset”? O che nel raccontarci un possibile futuro in cui sempre più spesso si farà ricorso a forme di noleggio e affitto o a servizi offerti gratuitamente, si intitoli che “nel 2030 non possederai nulla e sarai felice” dando il via a fantasie sull’abolizione della proprietà privata? Vista la scarsa stima che ho verso istituzioni come il WEF, per me la soluzione migliore sarebbe smettere di dire e scrivere qualsiasi cosa, ma mi accontenterei di una maggiore attenzione alle parole utilizzate, per evitare di dare materiale così pregiati ai complottisti.
Il secondo esempio riguarda una review sugli antinfiammatori e il COVID firmata da Giuseppe Remuzzi e altri ricercatori dell’Istituto Mario Negri. Per come l’ho ricostruita: gli antinfiammatori erano, insieme ad altri farmaci inutili o pericolosi, inseriti in protocolli non ufficiali di cure domiciliari e adesso che un lavoro scientifico indica che gli antinfiammatori potrebbero essere efficaci nel ridurre le ospedalizzazioni è tutto un “avevano ragione loro” e “il COVID si può curare ma non lo dicono perché si vuole spingere il vaccino”. La storia è spiegata bene da Beatrice Mautino ed Emanuele Menietti nel podcast Ci vuole una scienza. Qui l’opzione silenzio non è ovviamente percorribile: non ha molto senso pensare di non pubblicare una ricerca perché potrebbe essere manipolata o fraintesa e su un articolo parla di antinfiammatori, è difficile pensare di non citarli nel titolo… Tuttavia qualche cautela in più a livello di comunicazione dei risultati forse la si poteva auspicare se non dai ricercatori stessi, quantomeno dai giornalisti.
Certo, pretendere di considerare tutte le possibili cornici concettuali è praticamente impossibile, ma se uno conosce un tema conosce anche le principali narrazioni di scettici e contrari. Ed è vero che, come si dice in questi casi, uno è responsabile di quello che dice, non di quello che gli altri capiscono, ma qui non si vuol dare la colpa a nessuno – a parte forse il WEF, ma di nuovo è un altro discorso –, ma solo cercare le pratiche comunicative migliori.
Con un’autorevolezza ben diversa dalla mia, quasi un anno fa Nature ha pubblicato un commento di Cecília Tomori dal titolo inequivocabile: “Scientists: don’t feed the doubt machine”. Secondo l’autrice è necessaria una maggiore comprensione delle strategie utilizzate per creare dubbi e diffondere ignoranza, non solo conoscendo quali istituzioni sono in realtà agenzie di lobbying, ma anche guardando al contesto politico e commerciale della ricerca ed evitando di fare da inconsapevoli megafoni di informazioni fuorvianti.
La prima volta che ho sentito parlare di nudge o spinta gentile era il 2009; si tratta di uno strumento che, grosso modo, prende gli studi di psicologia cognitiva e li applica per sviluppare dei “suggerimenti” (dai piatti più piccoli per mangiare meno a come vengono presentate le informazioni) che indirizzano le persone verso la scelta più razionale.
Una bella idea, che almeno sulla carta permette di influenzare il comportamento delle persone lasciando loro la libertà di scegliere, e infatti in questi anni i nudge hanno avuto larga diffusione, sia a livello di ricerca accademica sia di applicazione.
Tuttavia il gigante rischia di avere i piedi di argilla e curiosamente per un problema legato proprio ai bias cognitivi che i nudge vorrebbero sfruttare: negli studi c’è infatti un forte publication bias, in pratica la tendenza a privilegiare i risultati positivi e scartare quelli negativi. Se fai una ricerca e scopri che un nudge non funziona, il tuo lavoro resta nel cassetto; se invece scopri che il nudge funziona, l’articolo viene pubblicato e quando si passano in rassegna le varie ricerche pubblicate, i risultati positivi superano quelli negativi.
Questo publication bias c’è; meno chiaro quanto sia importante. Gli autori di una meta-analisi pubblicata su PNAS concludono che anche tenendone conto gli effetti positivi ci sono. Di diverso avviso gli autori di una lettera, pubblicata sempre su PNAS, secondo i quali se si tiene conto del bias di pubblicazione non ci sono prove che i nudge siano effettivamente in grado di influenzare il comportamento delle persone (“After correcting for this bias, no evidence remains that nudges are effective as tools for behaviour change”), anche se con importanti differenze nei vari campi di applicazione, lasciando pensare che per alcune cose i nudge funzionino bene, per altre meno bene e per altre ancora non funzionino affatto.
La discussione prosegue; altri hanno sollevatocritiche e gli autori della meta-analisi hanno risposto. Dubito che alla fine tutta la teoria dei nudge si rivelerà essere pseudoscientifica, ma non mi stupirebbe scoprire che una parte importante è da ignorare.
Al di là di come andrà a finire, mi sento di concludere che fanno bene i filosofi della scienza fallibilisti a considerare ogni teoria scientifica “provvisoriamente vera”.
Del resto, come nell’articolo spiega il biologo Sam Van Wassenbergh dell’Università di Antwerp, se il tuo obiettivo è colpire il legno con forza, dissipare l’energia cinetica non ha molto senso: sarebbe come mettere un cuscino sopra un martello.
Yong è un ottimo giornalista e non si limita a smentire questo mito scientifico (o, come li definisce lui, “fattoide”) e citarne altri sul regno animale e va più in dettaglio. Come è nato il mito della testa del picchio che assorbe i colpi? Due spiegazioni: si sono fatte molte supposizioni ma pochi test; si è ragionato da umani la cui prima preoccupazione, in una situazione del genere, sarebbe indossare un casco che eviti commozioni cerebrali (un bel caso di antropocentrismo). Solo che i picchi evitano la commozione cerebrale grazie a un sistema molto semplice: hanno un cervello piccolo.