Le festività natalizie sono oramai un ricordo: l’Epifania, che come tradizione vuole tutte le feste le porta via, è oramai passata da oltre un mese.
È oramai tempo di bilanci: siete stati buoni almeno per Natale? Al di là della vaga ipocrisia di questo invito (due settimane di sorrisi posso emendare un anno di cattiveria?), se uno ha l’impressione di non essere stato abbastanza buono per le feste, può provare rimediare con un po’ di beneficenza.
Le associazioni alle quali donare un po’ di soldi, diciamo trenta denari, sono innumerevoli: da Amnesty International a Emergency a Anlaids, giusto per citare le prime tre che mi vengono in mente (sentitevi liberi di integrare l’elenco nei commenti).
Voi versate i soldi e loro li gestiscono come meglio credono: voi non sapete come vengono davvero spesi i vostri trenta denari.
Non intendo diffondere sospetti che i responsabili di queste associazioni utilizzino i fondi per scommettere alle corse o per pagarsi altri vizi: semplicemente, non sapete in quale progetto verrà utilizzata la vostra donazione. Non sapete se i trenta denari inviati a Emergency verranno utilizzati in Afghanistan, in Cambogia o in Sudan oppure per comprare i francobolli – attività quest’ultima meno nobile, ma sicuramente necessaria. C’è un velo di ignoranza sugli ultimi beneficiari della nostra donazione.
Chiediamoci: perché una persona dona una parte dei propri guadagni in beneficenza? Per dovere, perché è moralmente giusto aiutare chi si trova in difficoltà; ma anche per piacere: il piacere di poter dire “ho fatto del bene”. Questo piacere è sicuramente ridotto dal velo di ignoranza di cui sopra.
È verosimile che poter conoscere, o addirittura decidere, l’esatta destinazione dei nostri soldi aumenterebbe il piacere di donare, e quindi in definitiva il numero di donazioni.
È questo uno degli aspetti filosoficamente interessanti di Kiva: poter decidere, con tanto di foto e una breve descrizione, chi aiutare (tramite un prestito senza interessi: quella di non donare denaro ma pretendere la restituzione dei soldi, seppur senza interessi, è un altro aspetto filosoficamente e moralmente interessante di Kiva).
Tutto bene, dunque?
Non proprio. Affidando la destinazione ultima degli aiuti alle comuni persone, ci si sottopone all’effetto delle distorsioni cognitive. In altre parole, si lascia maggior spazio ai pregiudizi delle persone.
Una vedova con bambini avrà così più opportunità di ricevere prestiti rispetto a un giovane non sposato – ma è giusta una simile disparità? Similmente, un venditore di carbone, tecnologia che noi consideriamo da evitare perché poco ecologica, potrebbe avere meno chance di ottenere un prestito rispetto al suo vicino di casa agricoltore – eppure il commercio di carbone potrebbe essere una attività più importante per l’economia locale. E che dire dei venditori di prodotti cosmetici? Quanti impegnerebbero i propri soldi in una attività che consideriamo superflua? E ancora: una bella e giovane ragazza raccoglierà più fondi rispetto a una anziana e brutterella, almeno dalla parte maschile degli utenti?
Simili pregiudizi intervengono anche nelle modalità tradizionali di beneficenza, ma possiamo immaginare che il loro effetto sia mitigato dall’intervento di esperti, la cui esperienza dovrebbe ridurre l’effetto di queste distorsioni cognitive. Il sistema congegnato da Kiva, in poche parole, rischia di essere iniquo, favorendo alcune persone per motivi che razionalmente non dovrebbero esistere.
Inoltre, se le donazioni tramite Kiva o altri sistemi simili diventeranno sempre più diffuse, c’è il rischio che i pregiudizi del ricco mondo occidentale modifichino in maniera non ottimale le economie locali dei paesi meno ricchi – di fatto allontanandoli da uno sviluppo pienamente autonomo che è uno degli obiettivi di questi prestiti.
Aiutare il prossimo non è un compito semplice.
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