Niente schwa nei testi giuridici

Mi è stata segnalato che “La Crusca dice basta asterischi e schwa perché ideologici“.

Il riferimento è a un documento che ha uno di quei titoli che mi piacciono tanto perché non dovrebbero lasciare spazio a fraintendimenti: L’Accademia risponde a un quesito sulla parità di genere negli atti giudiziari posto dal Comitato Pari opportunità del Consiglio direttivo della Corte di Cassazione.

Parliamo insomma di un parere – la Crusca non ha del resto poteri prescrittivi sulla lingua, se non la sua autorevolezza – e che riguarda un contesto ben particolare, ovvero il linguaggio giuridico. Non è un divieto generale all’utilizzo di soluzioni come il “carə tuttə” anche in altri contesti ai quali, si legge, «occorre per contro garantire la massima libertà».

Detto questo: sì, il documento è decisamente ostile verso quelli che definisce “segni eterodossi”. Ed è anche vero che, nella lunga premessa, si criticano i presupposti teorici del linguaggio inclusivo.

Non condivido appieno queste critiche, che mi paiono forzate soprattutto con l’accostamento alla cancel culture, ma condivido o comunque a considero ragionevoli le raccomandazioni pratiche.

  • Evitare le reduplicazioni come “cittadine e cittadini” (soluzione peraltro criticata anche dai sostenitori del linguaggio inclusivo in quanto escluderebbe le persone non binarie).
  • Evitare l’articolo davanti ai cognomi di donne.
  • Evitare asterischi e schwa.
  • Declinare al femminile i nomi di cariche e professioni, come “ingegnera”, “la giudice istruttrice” o “la presidente”.
  • Usare forme neutre o generiche come “le persone” o “il personale”.
  • Accettabilità del maschile “inclusivo” plurale (ma non di quello singolare) come “i dipendenti”.

Questo, come detto, in un contesto di linguaggio sorvegliato come quello giuridico. Sul quale peraltro la Crusca fa un paio di affermazioni che appaiono temerarie, viste le oscurità di alcuni testi giuridici. Mi riferisco al timore di arrivare “alla disomogeneità e all’idioletto”: intento nobile, ma direi che da quel punto di vista il linguaggio inclusivo è l’ultimo dei problemi.

Chiudo con una considerazione. Questa è una presa di posizione conservativa eppure sostiene con convinzione – si parla di «uso largo e senza esitazioni» – i femminili professionali. Penso che, dei tanti aspetti del linguaggio inclusivo, quello di “ingegnera” lo si possa ormai dare per assodato.

Indovinelli sarcastici e pregiudizi di genere

Sto leggendo insieme a mio figlio Indovinelli sarcastici per bambini svegli di Jax Bell. Il libro è divertente, anche se la traduzione italiana (di Giuditta Spassini) ogni tanto arranca con i giochi di parole in inglese e ci sono alcune sviste che lasciano perplessi (tipo i cinque sensi che sarebbero “vista, tatto, olfatto, gusto e tatto”).

Nella versione italiana due indovinelli giocano sui pregiudizi di genere.

Dopo che un treno si è schiantato, ogni passeggero muore. Chi sopravvive?

La risposta è: le passeggere. Nell’originale inglese l’indovinello si basa su un altro meccanismo perché abbiamo “every single person” e la risposta è “the couples”.

Il secondo caso, invece, è questo:

Una ragazza e suo padre hanno un incidente d’auto, Quando arrivano all’ospedale il chirurgo vede la ragazza e grida con disperazione: “quella è mia figlia!”. Com’è possibile?

La risposta è che si tratta della madre. In inglese, dove c’è un generico “the doctor”, l’indovinello funziona meglio, ma regge anche in italiano vista l’abitudine a usare nomi di professione al maschile anche per le donne. E infatti una variante di questo indovinello è presente anche nel bel libro di Vera Gheno Femminili singolari.

Come ha reagito mio figlio a questi indovinelli? Nel primo caso ha tentato la risposta “il macchinista e il capotreno” (solitamente esclusi dal novero dei passeggeri), ma una volta rivelata la risposta corretta l’ha accettata, riconoscendo l’ambiguità di “ogni passeggero”. Nel secondo caso no: “Se è la mamma avrebbe dovuto dire chirurga“. Nessuna obiezione, invece, alla possibilità che i genitori della ragazza potrebbero essere due padri.

Biancaneve e lo straw man

Foto di Aline Dassel da Pixabay 

“Il MeToo ha rotto i coglioni”. È un commento che ho sentito a proposito della fintroversia sul bacio non consensuale del principe azzurro a Biancaneve. Dico fintroversia perché il caso è in buona parte artefatto: non riguarda il film della Disney ma il rifacimento di un’attrazione di Disneyland e in una recensione sostanzialmente positiva si faceva notare che quel bacio, messo a conclusione del percorso, potrebbe essere un po’ problematico visto che lei è incosciente. Poi è arrivata Fox News e ha deciso di trasformare la recensione in una crociata dell’estrema sinistra nel nome della cancel culture e del politicamente corretto.

Ora, sarebbe bello discutere sul ruolo delle fiabe nella costruzione del nostro immaginario collettivo e sul fatto che sono storie che vengono continuamente riadattate alla sensibilità attuale – e lo ha fatto lo stesso Walt Disney, ad esempio togliendo la tortura della regina cattiva costretta a indossare delle scarpe di metallo arroventato. E anche su cosa dovremmo fare con le opere che presentano aspetti adesso controversi, per quanto non sia la cosa direttamente in discussione (non si parla del film del 1937, ma di un’attrazione di Disneyland rifatta negli scorsi mesi).

Ma credo sia più importante quel “il MeToo ha rotto i coglioni” al quale credo potremmo aggiungere “le menate sul consenso hanno rotto i coglioni”, “il femminismo ha rotto i coglioni” e “le rivendicazioni dei diritti hanno rotto i coglioni” (sì, lo so, è un po’ l’argomento del piano inclinato, ma il passo direi che è breve). E capisco che una discussione sul bacio del principe azzurro possa venire a noia – ma evidentemente non è così, vista la marea di commenti –, ma appunto: nella mente mi si è insinuato il tarlo che la strategia sia appunto quella, non affrontare il problema seriamente, discutendo e portando argomenti, ma facendo deragliare qualsiasi dibattito con casi montati ad arte per far indignare e stancare le persone. Uno sorta di straw man argument condito con fake news che porta, appunto, a “i diritti ci hanno rotto i coglioni”.