Gli scienziati devono dibattere con i manipolatori? Forse

Il caporedattore di Science Herbert Holden Thorp ha scritto un interessante editoriale nel quale sostiene che i ricercatori non dovrebbero confrontarsi pubblicamente con i “gaslighters”, termine che potremmo vagamente tradurre come “manipolatori”.

Gli argomenti sono quelli tradizionali: rifiutandosi si fa la figura dei codardi che temono il confronto, ma accettare un dibattito pubblico darebbe legittimità a idee antiscientifiche, facendo credere che vi siano dubbi su temi sui quali c’è invece un buon livello di certezza. Quello che cambia è innanzitutto il mezzo: non più conferenze o trasmissioni televisive, bensì un podcast (quello “antisistema” di Joe Rogan). E poi sono cambiate anche le idee antiscientifiche: quando, una ventina di anni fa, ho sentito per la prima volta questo argomento si parlava di creazionismo; oggi si parla di antivaccinismo. O meglio di un curioso coacervo di teorie cospirazioniste, visto che Robert F. Kennedy Jr. – con cui sarebbe dovuto avvenire il confronto – ha sostenuto molte cose strane:

(Elenco preso da Noah Smith; altri dettagli su RFK Jr. si possono leggere sul Post).

Una partita a scacchi con un piccione

C’è una colorita analogia che si cita spesso in questi casi: discutere con un manipolatore/cospirazionista è come giocare a scacchi con un piccione che fa cadere i pezzi per terra, insozza la scacchiera e poi torna dal suo stormo dicendo di aver vinto.1

Tuttavia alla partita non assistono solo il piccione e il suo stormo. E sapendo di avere di fronte un piccione, invece di studiare regole e strategie degli scacchi uno magari prende uno straccio per pulire la scacchiera.
Mettiamo da parte l’analogia della partita a scacchi. Un dibattito non farà mai cambiare idea né a RFK Jr. né ai suoi sostenitori, ma mostrare di essere delle persone decenti, e non dei mostri che vogliono decimare l’umanità, è già un buon risultato, soprattutto pensando alle persone “non molto convinte” che per curiosità seguiranno il dibattito. Certo ci sono comunque dei rischi e sarebbe meglio evitare di ritrovarsi a dover ribattere a centinaia di fesserie – magari ponendo alcune condizioni e chiedendo alcune garanzie. Ma non escluderei a priori qualsiasi dibattito pubblico.

La scienza aperta

Questi però sono argomenti che riguardano l’efficacia di un dibattito pubblico. Provo adesso ad affrontare la questione da un altro punto di vista, quello dei valori della scienza. Un approccio deontologico anziché utilitaristico – con l’idea che entrambi i punti di vista possano essere di una qualche utilità per affrontare il problema.
È giusto escludere alcune persone dal dibattito scientifico, ignorando le loro critiche e le loro osservazioni? Decidere a priori che alcune persone dicono fesserie non è l’applicazione, in negativo, di quel “principio di autorità” che la scienza rifiuterebbe?

La scienza occidentale moderna si è sviluppata, tra Cinque e Seicento, proprio in opposizione ad alcuni saperi, come la magia e l’alchimia, che facevano della segretezza e dell’inaccessibilità un elemento centrale. La conoscenza scientifica è a disposizione di tutti e chiunque può contribuirvi, senza dover passare per percorsi iniziatici riservati a poche persone elette. Contano gli argomenti e le prove che una persona può portare, non il suo status sociale o altre sue caratteristiche personali.
Certo questo era più facile quando la scienza aveva appena iniziato il suo percorso, non servivano laboratori con apparecchiature costosissime e per mettersi in pari con le conoscenze di punta bastava leggersi una mezza dozzina di libri. Ma l’idea di un sapere aperto a tutti resta centrale, tanto che il sociologo Roger Merton cita l’universalismo come primo principio dell’ethos della scienza, il complesso di valori e di norme che guidano i ricercatori, insieme al comunismo dei risultati, al disinteresse e al dubbio sistematico.

Rifiutarsi di prendere in considerazione le critiche di RFK Jr. sembrerebbe essere in contrasto con l’ethos scientifico: il principio dell’universalismo imporrebbe infatti di ascoltare chiunque, anche un avvocato senza una specifica formazione scientifica (che comunque non manca a molto sostenitori di teorie cospirazioniste).

Ethos scientifico

Torniamo un attimo agli inizi della scienza occidentale moderna. L’idea di permette a chiunque ne abbia le capacità di partecipare all’impresa collettiva della scienza trovava manifestazione nelle accademie e nelle società scientifiche. In pratica delle zone protette in cui discutere liberamente, al riparo dalle ingerenze esterne – principalmente dalla politica e dalla religione. Chiunque è benvenuto. Se accetta i valori e i metodi dell’impresa scientifica. Se una persona non si riconosce in quei valori, non siamo tenuti a starla a sentire e non solo possiamo ignorarla, ma forse dobbiamo anche.

Va detto che entriamo in un terreno scivoloso. Non è facile definire con precisione quali siano i valori della scienza; quanto al metodo scientifico, ogni disciplina ha le sue prassi che oltretutto cambiano nel tempo. E sarebbe assurdo considerare antiscientifica qualsiasi proposta di ripensare come in questo particolare momento si fa scienza.
Credo che un aspetto importante del quale tenere conto sia l’atteggiamento: si vuole contribuire alla conoscenza scientifica migliorando la nostra comprensione del mondo o al contrario far crollare tutto? Ma di nuovo è una indicazione generica. Il che suggerisce una certa cautela nell’applicare il principio del “non ti riconosci nell’ethos scientifico e quindi non puoi parlare”. Certo, visto il lungo e un po’ inquietante elenco di corbellerie sostenute da RFK Jr., direi che in questo caso ci sono pochi dubbi. Tenendo comunque presente che quantomeno alcune di quelle corbellerie potrebbero diventare delle domande poste da chi vuole davvero capire meglio il mondo.

  1. Da quel che ho ricostruito, l’ideatore di questa popolare immagine è un certo Scott D. Weitzenhoffer in una recensione su Amazon di un libro sul creazionismo. []

Da Matrix al Metaverso, ovvero il demone di David Chalmers

Ho seguito, online, una presentazione del libro di David Chalmers sulla realtà virtuale.

Il saggio Reality+, da poco tradotto in italiano con il titolo Più realtà, è uscito nel gennaio del 2022. In quel periodo il tema tecnologicamente caldo sembrava essere la realtà virtuale/aumentata, non l’intelligenza artificiale: tutti guardavano al Metaverso di Facebook. Poi è arrivato ChatGPT e sembra aver ribaltato sia le attenzioni del pubblico, sia gli investimenti delle grandi aziende tecnologiche.

Tuttavia, stando a Chalmers non c’è una vera e propria contrapposizione tra i due temi. Grazie alle intelligenze artificiali i computer possono non solo “gestire” i mondi virtuali, ma anche “crearli”. ChatGPT è già in grado di creare una avventura testuale che è a tutti gli effetti un mondo virtuale, ovvero un universo interattivo generato da un computer. E non si vede perché non potrà, in futuro, creare anche realtà virtuali, ovvero dei mondi virtuali immersivi nei quali entri grazie ai (per ora costosi e limitati) set per la realtà virtuale.

Una, cento, mille realtà

La tesi centrale del libro, così come l’ha esposta Chalmers, è che la realtà virtuale è una “genuine reality”. Non è una realtà di seconda classe, non è un’illusione o una finzione. Perché è reale ciò che “fa la differenza” e questi mondi virtuali possono fare la differenza. Possiamo anzi condurre una vita significativa e piena nella realtà virtuale – non necessariamente migliore ma neanche peggiore.

Questa parte mi pare molto convincente e, a dispetto dell’atteggiamento da rivoluzionario di Chalmers, coerente con una tendenza quantomeno secolare in filosofia. Mi riferisco al non limitare la categoria del “reale” alla sola realtà fisica, ma estenderla includendovi anche altri enti. Insieme ai muri, che sono oggetti fisici, esistono anche i confini, che sono oggetti sociali come le multe, le promesse, i campionati di calcio e molte altre cose che spesso per noi contano più degli oggetti fisici. (Sul blog ho scritto diverse cose sull’ontologia sociale). E a suo modo è reale anche la finzione. È infatti vero che Sherlock Holmes abita al 221b di Baker Street mentre è falso che Frodo Baggins abbia vinto l’unico anello giocando a carte.
Solo che tutte queste realtà esistono in modi diversi. Per costruire un muro basta prendere un po’ di mattoni, per costruire un confine serve una comunità che lo riconosca come tale. La casa di Sherlock Holmes la trovo nei racconti di Arthur Conan Doyle, non per le vie di Londra (dove fino al 1930 Baker Street terminava al civico 85).

Solo che Chalmers sembra affermare che le realtà virtuali – o almeno alcune realtà virtuali – esistono allo stesso modo della realtà non virtuale. E qui ho qualche difficoltà a seguirlo, ad esempio quando afferma che le “menti virtuali sono menti genuine”.
Se con “genuino” Chalmers intende contrastare l’idea che tutto quel che è virtuale è un surrogato privo di valore, concordo con lui: i mondi e le realtà virtuali giocano e verosimilmente giocheranno sempre più un ruolo importante nelle nostre vite. Il problema è che da questa “tesi debole” sembra passare a una “tesi forte”: non ci sono differenze significative, tra realtà virtuale e realtà fisica. Mi sembra una tesi insostenibile a meno di non limitarsi a scenari – che è difficile considerare rappresentatiti del fenomeno dei mondi e realtà virtuali –, tipo un essere digitale senziente e una realtà virtuale completamente indistinguibile dalla realtà fisica. Ma ha senso costruire una filosofia della realtà virtuale che si adatta solo a uno scenario fantascientifico, tralasciando tutto il resto?

La grande simulazione

Questo scenario “alla Matrix” sembra tuttavia essere un punto centrale della riflessione di Chalmers.

Non possiamo escludere di vivere in una simulazione. Non solo: i progressi tecnologici nel campo della realtà virtuale e dell’intelligenza artificiale renderebbero questa ipotesi verosimile. Personalmente mi pare un’esagerazione: anche ammettendo di avere già una tecnologia in grado di inviare al cervello segnali indistinguibili da quelli prodotti da un oggetto fisico, l’ipotesi Matrix resta comunque nel regno dell’inverosimile. Voglio dire: qualcuno dovrebbe avermi rapito e messo in un complicatissimo (e costosissimo) macchinario per farmi credere di condurre la mia vita di tutti i giorni? Oppure è tutta l’umanità a vivere in una simulazione realizzata per misteriosi motivi da una specie aliena?

Direi che i progressi tecnologici hanno al massimo fatto passare questa ipotesi da “praticamente impossibile” a “altamente improbabile”. Non possiamo escludere che sia così, ma non possiamo neanche escludere che io domani trovi un miliardo di dollari in contanti dimenticati per strada da Bill Gates. Non vedo motivi sufficienti per “prendere in considerazione” questa ipotesi. Per tornare al film ‘Matrix’, la celebre scena in cui il protagonista Neo prende la pillola rossa e scopre che tutto è una simulazione arriva dopo una serie di indizi che rendono l’ipotesi simulazione più probabile. Inutile dire che al momento non abbiamo nessuno di questi indizi.

Una superflua risposta allo scetticismo radicale

Chalmers probabilmente insiste su questa “ipotesi Matrix” perché è la versione tecnologica di un classico argomento filosofico, quello che oggi chiameremmo esperimento mentale. La versione più celebre è quella del demone di Cartesio: non possiamo fidarci dei nostri sensi perché un demone potrebbe ingannarci. (Peraltro sospetto che, almeno in alcuni periodi storici, l’idea di un demone ingannatore fosse più credibile di quanto adesso lo è l’ipotesi di una simulazione al computer). Dal momento che non possiamo escludere con certezza assoluta questo scenario, non è possibile dare un fondamento ultimo alla conoscenza della realtà.

Schematizzando:

  1. Non possiamo sapere se viviamo in una simulazione.
  2. Se siamo in una simulazione non possiamo conoscere nulla di vero.
  3. Quindi la conoscenza della realtà è impossibile.

Chalmers accetta il punto 1 e anzi trasforma il “non possiamo escludere che” in un “è probabile che”. Ma esclude lo scetticismo radicale della conclusione 3 rifiutando il punto 2: anche la simulazione è reale.

Il fatto è che lo sforzo mi pare inutile. Prima di tutto perché finché restiamo all’interno della simulazione la nostra conoscenza della realtà resterà incompleta. Ma soprattutto perché la conclusione 3 non è poi così grave: d’accordo, non c’è un fondamento ultimo alla conoscenza della realtà; e con ciò? Possiamo benissimo andare avanti con un assenso provvisorio, tanto più forte quanto solide sono le prove di cui disponiamo (o deboli le obiezioni). Come consigliava il filosofo David Hume, “un uomo saggio proporziona la sua credenza all’evidenza”.

Il punto 1, quello che non possiamo escludere di vivere in una simulazione, è come la tesi del solipsismo in un celebre passaggio del Mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer. Non lo si potrà mai confutare con prove, ma rimane un argomento pretestuoso. “Come convinzione seria esso potrebbe trovarsi solo in un manicomio: come tale, occorrerebbe poi, contro di esso, non tanto una prova quanto una cura. In tanto anche non ci dilungheremo su di esso, ma ci limiteremo all’ultima fortezza dello scetticismo, che è sempre polemico”. Questo argomento è “come una piccola fortezza di frontiera, che rimarrà qui sempre inespugnabile, ma la cui guarnigione anche non ne potrà uscire mai e poi mai, sicché le si può passar davanti e lasciarsela alle spalle senza pericolo”.

ChatGPT e la verità come coerenza

Ormai anche chi ha seguito distrattamente il dibattito avrà capito che di ChatGPT – e analoghi servizi di generazione testi basati su modelli linguistici – ci si può fidare fino a un certo punto.

Il problema sta nelle cosiddette allucinazioni che, nel caso delle intelligenze artificiali, non sono dovute a strane sostanze ma al modo in cui funzionano questi modelli linguistici di grandi dimensioni. Semplificando – e accetto suggerimenti per descrizioni migliori –, l’algoritmo reagisce agli input dell’utente in base alle parole che risultano più probabili in base all’immensa base dati utilizzata per l’addestramento. Solo che le frasi generate in base agli abbinamenti più verosimili possono contenere affermazioni non vere, pur basandosi su informazioni corrette. Allucinazioni, appunto.
Il campionario di queste allucinazioni è abbastanza vario, da errori matematici a fatti mai avvenuti. Certo non è che ChatGPT sia un mentitore seriale: gli errori sono anzi relativamente rari, il che rende ancora più difficile per noi umani identificare gli errori. Ma di questo ho già scritto.

Qui vorrei analizzare brevemente la solidità filosofica di una delle spiegazioni di queste allucinazioni. I modelli linguistici sono fatti per produrre testi coerenti, non testi veri. E questo perché si basano su come le parole si relazionano tra di loro, non su come le parole si relazionano con il mondo.

Due modelli di verità

Questa spiegazione presuppone che la verità sia “adaequatio rei et intellectus”, insomma che una frase sia vera se corrisponde alla realtà. È una tesi filosofica con una lunga storia e che ha anche il pregio di accordarsi con la nostra intuizione. Se Tizio dice “piove” e Caio invece dice “c’è il sole”, per sapere chi dice il vero e chi il falso guardo fuori dalla finestra. Confrontando le due affermazioni con la realtà.

Solo che le cose potrebbero non essere così semplici. Ammesso che l’esempio metereologico lo sia davvero, semplice: quando deve essere nuvoloso, per dire che non c’è il sole? E una pioggerellina quasi impercettibile vale come pioggia? E la neve o la grandine?

Ma se Tizio avesse invece detto “ho voglia di mangiare una torta al cioccolato”, a cosa corrisponderebbe di preciso questa sua affermazione? E come la verifico? Se la verità o falsità dell’affermazione “sono nato il 4 novembre 1978” risiede nella corrispondenza tra quella frase e quanto accaduto il 4 novembre del 1978, che possibilità ho di sapere se quella frase è vera o falsa non avendo a disposizione una macchina del tempo?
C’è poi il problema filosofico di come possa un’affermazione, diciamo un insieme di concetti collegati tra loro, corrispondere a uno stato di cose.

A ogni modo, ChatGPT certamente non può verificare che le proprie affermazioni corrispondano a uno stato di cose. Probabilmente non saprebbe neanche indicare quali sarebbero, gli stati di cose corrispondenti alle proprie affermazioni.

Ma ci sono anche altre teorie della verità. E una di queste, il coerentismo, ricorda proprio la costruzione dei modelli linguistici: una affermazione è vera se è coerente con un insieme di altre affermazioni alle quali crediamo. Questa teoria – che è ovviamente più complessa di come l’ho qui riassunta – non si accorda con la nostra intuizione, ma si accorda con quello che facciamo. Perché le situazioni in cui possiamo guardare fuori dalla finestra per stabilire la verità o falsità di un’affermazione sono relativamente rare. Nella stragrande maggioranza dei casi la verifica è il confronto non con uno stato di cose, ma con altre affermazioni. Tizio dice che piove, Caio che c’è il sole, chiediamo a Sempronio. “Ho voglia di mangiare una torta al cioccolato” è falso perché chi lo dice mangia solo torte al limone; sui documenti personali è effettivamente riportata la data “4/11/1978”.

La coerenza di ChatGPT

Ora, non voglio dire che il corrispondentismo sia sbagliato e il coerentismo giusto: del resto quando diciamo che la terra è rotonda ci esprimiamo sull’effettiva forma della terra, non sulla coerenza di questa affermazione con i mappamondi e le immagini satellitari. Tuttavia in alcune (molte) circostanze, ci comportiamo da coerentisti e non da corrispondentisti. E ce la caviamo abbastanza bene nello stabilire la verità o la falsità delle affermazioni – o almeno nell’accordarci tra di noi.

Perché ChatGPT, invece, non ci riesce e, per quanto occasionalmente, si inventa cose false pur partendo da affermazioni corrette? Dopotutto, si basa proprio sulla coerenza di affermazioni diverse – e su una quantità di testi incredibilmente maggiore di quelli concretamente disponibili a un essere umano. Come è possibile che – per citare qualche esempio – si inventi testi di canzoni, sbagli a calcolare gli interessi e a ordinare le dimensioni degli stati?

Credo che la risposta, molto banale, sia che i modelli linguistici prendono in considerazione una coerenza che non riguarda la verità ma al massimo la persuasività. Non è solo il fatto che ChatGPT ignori, salvo forse alcuni casi particolari, il significato di frasi e parole: dopotutto ignora anche le regole della grammatica, ma riesce ugualmente a formare frasi formalmente corrette e anzi ben scritte.

Il fatto è che non valutiamo la coerenza di una affermazione confrontandola con un insieme indistinto di altre affermazioni, ma con una rete strutturata di conoscenze e credenze. Rete che cambia a seconda del tipo di affermazione che voglio controllare e delle circostanze.

Il problema non è che ChatGPT considera la coerenza senza interessarsi agli stati di cose. Il problema è che non è in grado di modellizzare le reti di conoscenze e credenze necessarie a stabilire la verità per coerenza. Mi chiedo se queste reti siano effettivamente modellizzabili; ma forse non sarà necessario e la soluzione al problema delle allucinazioni arriverà da qualche altra parte.

L’effetto Ikea della (dis)informazione

Sto facendo delle ricerche sulle ricerche fai da te – quelle che chi fa controinformazione invita a fare con lo slogan “do your own research” sui vaccini, la crisi climatica, la guerra in Ucraina, l’allunaggio, gli attentati dell’11 settembre eccetera.

Fare ricerche per conto proprio non è di per sé sbagliato. Anzi direi che è una cosa buona e giusta, se non altro per comprendere meglio un determinato argomento. Ma sulle opportunità delle ricerche fai da te – se fatte bene – scriverò poi; qui mi soffermo sui rischi. Di solito si cita l’effetto Dunning-Kruger, quello per cui meno si è esperti più si è sicuri di sé. Ma sulle interpretazioni si impone qualche cautela.

Qui parlo di un altro effetto: l’effetto Ikea cognitivo.

L’uovo e la torta

Iniziamo dall’effetto Ikea classico. Si tratta della tendenza ad attribuire maggior valore ai prodotti assemblati o costruiti dal consumatore come appunto i mobili venduti dall’azienda svedese. A dare il nome a questo effetto sono stati, in un articolo del 2011, Michael Norton, Daniel Mochon e Dan Ariely. Il fenomeno era comunque già noto sia all’interno della psicologia sociale – si tratterebbe di un caso di “giustificazione dello sforzo” indagato da Leon Festinger nei suoi lavori sulla dissonanza cognitiva –, sia dal marketing. Gli autori citano il caso degli impasti preconfezionati per torte. Quando iniziarono a diffondersi negli anni Cinquanta del Novecento incontrarono la diffidenza dei consumatori, diffidenza superata modificando l’impasto e richiedendo l’aggiunta di un uovo. Secondo gli autori il lavoro costituito dall’aggiunta di quest’uovo, per quanto minimo, avrebbe aumentato il valore percepito della torta da parte dei consumatori.

Norton, Mochon e Ariely hanno misurato questo effetto con una serie di esperimenti. Chi fa uno sforzo per produrre alcuni oggetti – nel loro caso un mobile Ikea, un origami e un set lego – non solo attribuisce loro un valore maggiore rispetto a prodotti analoghi realizzati con maggior perizia da professionisti, ma si aspetta anche che altre persone li valutino maggiormente. Siamo disposti a spendere di più per un oggetto che abbiamo in parte realizzato. E ci aspettiamo anche che altre persone siano disposte a pagare di più per qualcosa fatto da noi anziché da un professionista.

Nel primo caso possiamo immaginare una sorta di valore affettivo dovuto al lavoro svolto, o ai vantaggi di una possibile personalizzazione (però l’effetto è stato rilevato anche con oggetti standard valutati unicamente per la loro funzionalità). Nel secondo caso siamo di fronte a un bias, una distorsione nel nostro modo di ragionare. Un bias che può essere sfruttato aumentando surrettiziamente il valore percepito dei beni venduti prevedendo un semplice lavoro da parte del consumatore. Come nel caso dell’uovo da aggiungere alla miscela per torte. Il lavoro richiesto deve essere sufficientemente elaborato da giustificare l’idea di aver contribuito a realizzare il prodotto – cosa che evidentemente non avveniva quando la miscela per torte era già pronta per il forno – ma sufficientemente semplice da garantire la realizzazione del prodotto. L’effetto Ikea, infatti, non si presenta quando il lavoro fai da te non va a buon fine (o quando il prodotto viene smontato).

Meglio degli esperti

È possibile che esista un effetto Ikea cognitivo che riguarda, invece di mobili e origami, i risultati di una ricerca fai da te? Lo scienziato cognitivo Tom Stafford pensa di sì e il filosofo Justin Tiehen sostiene che non sia una cosa così negativa. Sono portato a dargli ragione: indagare autonomamente un argomento anziché dare il proprio assenso a informazioni preconfezionate presenta il vantaggio di una maggiore comprensione.
Può quindi essere razionale attribuire un maggior valore epistemico alle informazioni ottenute tramite indagine. Tuttavia l’effetto Ikea non riguarda unicamente la valutazione da parte del soggetto, ma anche quella di altre persone. L’effetto Ikea cognitivo porta quindi una persona comune a pensare che le proprie conclusioni siano più affidabili più di quelle di un esperto. In qualche caso sarà anche vero (si dice che un esperto è uno che ha fatto tutti gli errori possibili nel suo campo), ma in generale è la ricetta perfetta per sbagliare.

La sociologa Francesca Tripodi, nel suo interessante The Propagandists’ Playbook. How Conservative Elites Manipulate Search and Threaten Democracy, approfondisce la similitudine tra i mobili Ikea e le conclusioni delle ricerche fai da te. In entrambi i casi il risultato dipende in minima parte dalle abilità del soggetto che di fatto si limita a eseguire semplici compiti indicati da qualcun altro:

But if conservative messaging is like a new table from Ikea, conservative elites are the engineers that design the furniture – making sure that the table goes together only one way, and with just the right amount of effort to give that perfectly satisfied feeling to the consumer (and encourage them to shop again soon).

Per i prodotti Ikea questo controllo sul risultato si basa su pezzi standard e istruzioni il più chiare e semplici possibili. Per la controinformazione invece tutto passa attraverso i motori di ricerca, sfruttando parole chiave poco usate e che vengono suggerite da chi invita a fare ricerche fai da te.

La irresistibile ascesa delle emozioni nei discorsi pubblici

Quando discutiamo di qualcosa usiamo la ragione o le emozioni? Secondo uno studio pubblicato su PNAS, le parole legate alla razionalità, dopo una crescita durata oltre un secolo, sono in rapido declino.

Ho scoperto questa ricerca grazie a un articolo scritto dal filosofo Massimo Pigliucci sullo Skeptical Inquirer che riassume brevemente metodi e risultati e analizza le possibili interpretazioni.
Riassumendo: gli autori – Marten Scheffer, Ingrid van de Leemput, Els Weinans e Johan Bollen – hanno analizzato a partire dal 1850 la frequenza relativa di termini legate alla razionalità e all’emotività nei testi presenti in Google Books Ngram Viewer, guardando anche all’utilizzo della prima e della terza persona. Insomma, la differenza tra un “io credo che…” e un “si può dimostrare che…”.
Per essere sicuri della solidità del risultato hanno rifatto l’analisi sui libri di saggistica e su quelli di narrativa, sugli articoli del New York Times e in varie lingue (tra cui l’italiano). Il fatto che abbiano trovato andamenti simili mostra la bontà del loro lavoro, anche se non si possono escludere del tutto errori dovuti a distorsioni del campione (magari un tempo si pubblicavano solo un certo tipo di libri, o comunque quelli rimasti oggi nelle biblioteche sono una selezione non rappresentativa) o alle parole cercate (magari ci sono espressioni un tempo diffuse che non sono state considerate).

I su e giù dei discorsi fattuali

Come variano, quindi, razionalità ed emotività nei testi argomentativi e nella narrativa? Fino agli anni Settanta del Novecento le parole legate ai sentimenti sono in costante calo mentre quelle legate a prove fattuali (gli autori parlano di “fact-based argumentation”) crescono. A partire dal 1980 questa tendenza si ribalta con una crescita di discorsi non basati sui fatti che diventa molto marcata a partire dal 2007.

Perché tutto questo? Secondo gli autori della ricerca, la crescita che si vede fino agli anni Settanta potrebbe essere legata una visione razionalistica e naturalistica della realtà legata ai progressi scientifici e tecnici; il calo degli anni Ottanta e Novanta sarebbe una sorta di reazione alle disuguaglianze di un sistema sociale ed economico che, almeno a livello retorico, si basa sulla razionalità; infine, la rapida crescita dell’ultimo decennio sarebbe legata ai social media.
Si tratta ovviamente di ipotesi e Pigliucci, nel suo articolo, osserva giustamente che per quanto ragionevoli siano, possiamo facilmente immaginare altre spiegazioni. A me ad esempio viene in mente la globalizzazione che ha portato a una maggior diffusione di tradizioni non occidentali.

Comunicare meglio

C’è tuttavia un aspetto che non mi è chiaro. Sia gli autori dello studio, sia Pigliucci sembrano convinti che quei numeri mostrino un declino del discorso razionale. Potrebbe invece essere dovuto, almeno in parte, a una maggiore attenzione alle emozioni. Il che non vuol dire affidare alle emozioni giudizi che sarebbe meglio tenere razionali, ma rendersi conto che le emozioni ci sono e che vanno conosciute. E utilizzate per una comunicazione che, di nuovo senza escludere il giudizio razionale, riesca essere più efficace. Per convincere le persone, argomentava Aristotele, non basta il logos (il discorso razionale) ma servono anche pathos (le emozioni) ed ethos (il comportamento) che sospetto facciano uso delle parole che lo studio ha indicato come “non fattuali” e legate all’intuizione. Ma è irrazionale raccontare il cambiamento climatico, spiegandone le cause e gli effetti, partendo da un’esperienza personale?

È un’ipotesi che aggiungo a quelle già avanzate: forse quel declino di parole razionali e quella ascesa di parole emozionali sono anche il segno che stiamo imparando a conoscerci, e a comunicare, meglio.

Norme sociali, leggi di natura e contrappasso

Un lungo articolo nel quale, partendo dagli scritti di Hans Kelsen, ragiono sull’origine comune delle norme sociali e delle leggi di natura e sul dualismo tra società e natura.

Premessa

Capita di scrivere di Antigone e, immersi in un contesto di norme giuridiche e morali, neanche ci si rende conto dell’ambiguità dell’espressione “legge naturale” che può indicare – come era il caso per Antigone – sia leggi che sono valide e giuste per natura (come la cosiddetta “regola aurea” del non fare agli altri quel che non vorresti venisse fatto a te) sia leggi che riguardano i fenomeni naturali (come “la velocità di caduta di un corpo non dipende dalla sua massa”).

Così il titolo “Le leggi naturali sono in realtà molto umane” è stato frainteso e l’equivoco si è concluso con un invito, da parte di Choam Goldberg, a riflettere se anche le leggi naturali – nel secondo significato, quello scientifico – possono essere costrutti sociali.

Società e natura: una ricerca sociologica

La stesura di questo articolo si è intersecata con la notizia della morte del filosofo e sociologo Bruno Latour che sosteneva proprio questo: la scienza è una costruzione sociale (ovviamente in una forma più raffinata di questo semplice riassunto). Ma non pensavo di scrivere di Latour, bensì del filosofo e giurista Hans Kelsen. E questo perché volevo approcciare il tema da un altro punto di vista: non tanto capire se le leggi di natura siano socialmente costruite ma da dove nasce l’idea di una legge di natura.

Ora, Hans Kelsen è il padre della dottrina pura del diritto, dove quel “pura” significa studiare il diritto lasciando perdere cose come l’etica, la politica, la storia, la sociologia e ragionare su cosa è, in generale, una norma giuridica. Il che comunque non significa etica, politica, storia o sociologia siano perdite di tempo. Infatti nel 1943 – dopo aver lasciato l’Europa per sfuggire al nazismo; per i dettagli consiglio caldamente di recuperare i suoi Scritti autobiografici (Diabasis 2008) – pubblicò un libro che di sottotitolo ha proprio Ricerca sociologica. Il titolo è invece Società e natura ed è un’opera che alcuni studiosi non sanno bene come inquadrare, all’interno del pensiero di Kelsen, e viene spesso ignorata, per quanto la tesi di fondo del libro trovi spazio anche nelle opere successive. È ad esempio riassunta nell’articolo Causalità e imputazione del 1950, pubblicato in appendice ai Lineamenti di dottrina pure del diritto. La traduzione italiana di Società e natura, fatta da Laura Fuá, temo sia esaurita; io ho una copia dell’edizione del 1992 pubblicata da Bollati Boringhieri.

Oggi è una lettura un po’ imbarazzante, per come descrive – peraltro senza indagini sul campo ma basandosi su resoconti – dei “popoli primitivi” caratterizzati fondamentalmente da uno scarso sviluppo mentale. Vero che siamo negli anni Quaranta (e le idee fondamentali del libro risalgono ad almeno un decennio prima, stando alla prefazione di Renato Treves), ben prima che studiosi come Claude Lévi-Strauss ci mostrassero la razionalità dei “selvaggi”, ma il punto non è accusare o assolvere Kelsen dall’accusa di occidentalismo, bensì chiederci se vale la pena, oggi, leggere un testo dall’impostazione così datata. La risposta è sì, ne vale la pena perché il ragionamento di Kelsen, al di là dei pregiudizi sui “popoli primitivi”, riguarda il dualismo tra società e natura.

Questo dualismo, nella forma dell’opposizione tra “essere” (natura) e “dover essere” (società) è uno degli elementi alla base della dottrina pura del diritto. Kelsen la presenta proprio con la differenza da cui siamo partiti, quella tra “le leggi naturali [che] sono proposizioni sul corso effettivo degli eventi” e “le regole giuridiche [che] sono prescrizioni per il comportamento degli uomini” (la citazione è da Teoria generale del diritto e dello Stato, ma il concetto lo si trova anche in altri testi). È bene precisare che il “dover essere” non caratterizza la società in generale ma solo quelle scienze normative – come la morale, il diritto e, almeno secondo Kelsen, anche la teologia – che non descrivono quello che le persone fanno, e che rientra nella dimensione dell’essere, ma quello che le persone dovrebbero fare: “non uccidere” non significa che le persone non uccidano, ma che non dovrebbero farlo (morale) o che quando lo fanno dovrebbero essere punite (diritto).

Le origini del dualismo tra natura e società

Da dove arriva questo dualismo tra natura e società, tra essere e dover essere?

“La differenza fra essere e dover essere non può essere ulteriormente spiegata: è un dato immediato della nostra coscienza” si legge nella Dottrina pura del diritto, ma questo non impedisce di indagare la genesi di questo concetto. Norme sociali e leggi di natura hanno infatti un’origine comune che Kelsen identifica nel principio del contrappasso (mantengo la traduzione usata in Società e natura, anche in omaggio agli studi di Kelsen sul pensiero politico di Dante, per quanto credo che oggi sarebbe più opportuno parlare di retribuzione).

Il contrappasso è la lex talionis, la legge del taglione, quella che vede una corrispondenza tra azione (illecita) e punizione, come se la seconda dovesse ristabilire un equilibrio rotto dalla prima. Il contrappasso non è la semplice reazione a una minaccia dovuta all’istinto di autoconservazione e neanche il pretendere di tornare alla situazione di partenza tramite una qualche riparazione del danno: è l’infliggere al colpevole un danno paragonabile a quello che lui ha inflitto a noi, fondamentalmente una vendetta regolata.

Per i “primitivi”, scrive Kelsen, il principio del contrappasso regola tutto, senza distinzioni tra realtà naturale e realtà sociale. Ogni evento si spiega in quanto ricompensa o punizione di un altro evento e non c’è punizione senza colpa o ricompensa senza merito. Non so se davvero non vi fosse alcuna differenza tra una frana e il vicino che ti tira una bastonata, ma l’idea di base mi sembra compatibile con gli studi sul pensiero magico e la psicologia popolare (quella che intuitivamente ci fa attribuire stati mentali alle altre persone e talvolta anche a oggetti). Cosa, che ovviamente non riguardano solo i “popoli primitivi” ma l’umanità in generale.

I primi filosofi e i primi sovrani

Poi nel mondo greco arrivarono i primi filosofi, non a caso oggi conosciuti come “naturalisti” perché appunto cercarono una spiegazione unitaria dei fenomeni naturali, qualcosa che andava quindi al di là del singolo evento. Ma – e questa è un aspetto molto interessante – tutto questo non accadde perché si stava capendo che le cose si comportano diversamente dalle persone. Per i primi naturalisti, scrive Kelsen, il carattere normativo della spiegazione era lo stesso di prima, la realtà sociale continuava a essere il modello dal quale partire per comprendere tutta la realtà:

Le piú antiche scuole filosofiche greche, a simiglianza del pensiero mitico dell’uomo primitivo, spiegarono la natura in base all’analogia con la società.

Che cosa era cambiato quindi tra il pensiero mitico e quello filosofico? A essere cambiata era la società, con un sovrano che accentrava il potere inclusa la giustizia, regolando il gioco di ricompense e vendette con delle norme generali.

La comunità che detiene il comando, lo Stato, offre il modello di quell’ordine che la filosofia trasferirà nell’universo.

Il singolo evento non viene ricondotto a un precedente evento del quale sarebbe la reazione (di ricompensa o di punizione), ma a una legge generale. È a questo punto, in cui abbiamo leggi e non più singoli contrappassi, che è possibile separare le leggi degli uomini da quelle di natura:

L’idea di una legge universale della natura, che in principio era semplice proiezione della legge dello Stato nel cosmo, si emancipa dal suo prototipo e acquista un significato del tutto indipendente. La legge dello Stato, o norma, da un canto, e la legge della natura, o legge di causalità, dall’altro, diventano due principi completamente diversi.

Si tratta ovviamente di un processo lento: il carattere normativo delle leggi di natura rimane determinante ancora per qualche secolo. Kelsen indica nell’atomismo di Leucippo e Democrito la nascita di un principio causale che non sia espressione di una volontà più o meno personale. Parliamo del passaggio da una legge naturale inviolabile perché “non è assolutamente possibile evitare la reazione a una eventuale disobbedienza” a una legge che diventa “l’espressione di una necessità obbiettiva impersonale”.

Una trasformazione simile avviene anche in ambito sociale. Qui il grande innovatore è Protagora che propose un’idea che ancora adesso si fatica ad accettare: non puniamo per ristabilire un equilibrio che il colpevole ha infranto, la pena non è retribuzione ma prevenzione:

La punizione non è inflitta per motivi misteriosi, bensì per scopi assai chiari. Nessuno punisce pel fatto e pel motivo della colpa, salvo chi lo fa irragionevolmente a sfogo di vendetta, come le bestie. Chi punisce ragionevolmente non punisce per il fatto passato – ciò che è avvenuto non si può fare che non sia avvenuto – ma per l’avvenire, affinché non pecchi piú né il colpevole né altri che lo veda punito. Con questo pensiero ammette che la virtú si possa insegnare; egli punisce per prevenire.

La scienza moderna e le sue cause

Possiamo concludere con Leucippo e Democrito la storia della separazione tra natura e società? Verrebbe da rispondere di sì: con la scienza moderna si capisce come studiare meglio la natura, ma l’idea di base resta quella di una causalità non determinata da una qualche forma di volontà.

Eppure Kelsen vede ancora un’ombra della vecchia concezione, un residuo del contrappasso: il concetto di causalità. In natura, osserva Kelsen, non esistono cause ed effetti ma quelle che lui chiama “dipendenze funzionali“, come quella che lega temperatura e pressione di un gas. Pensare che l’aumento di temperatura sia la causa dell’aumento della pressione significa applicare alla natura i concetti di colpa e punizione.

Il primo a intuirlo fu Hume, attribuendo l’impressione che un fenomeno ne causi un altro all’abitudine dell’osservatore (e Kelsen ipotizza di nuovo un’analogia con le leggi umane, in particolare il diritto consuetudinario). Poi arrivarono Kant, Ernst Mach e Werner Heisenberg ma il concetto di base è che non c’è una cosa che possa essere definita “causa” e una cosa “effetto” – a meno che non ci mettiamo di mezzo la volontà umana che desidera aumentare la pressione e quindi scalda il gas o, al contrario, desidera scaldare un gas e allora lo comprime.

Quando la causalità si emancipa dal contrappasso, e la legge di natura dalla norma sociale, la natura e la società appaiono come due sistemi completamente diversi. È possibile immaginare un sistema di norme che regolino la condotta umana e organizzino la società in un ordine completamente diverso dalle leggi della natura, senza ricorrere alla finzione del libero arbitrio e senza contraddire quindi al principio di causalità.

Piccola guida ragionata al “pensiero unico”

In questo articolo propongo alcune ipotesi alternative alle fantasie di complotto: cose di cui tenere conto prima di pensare all’esistenza di una qualche congiura.

Immagino che sia un’esperienza comune: l’improvvisa comparsa di un “pensiero unico”. Nel giro di qualche giorno un tema del quale non si parlava praticamente mai, e sul quale c’era una certa varietà di opinioni, diventa presenza costante nelle discussioni e tutti grosso modo sostengono la stessa posizione.

Facciamo l’esempio – è un codardo esempio di fantasia escogitato per evitare che l’eventuale discussione degeneri su qualche tema divisivo – delle vacanze estive. Poniamo che se ne parli raramente e comunque, quando ogni tanto il tema salta fuori, c’è chi preferisce il mare e chi la montagna. Poi nel giro di qualche giorno tutto cambia. Newsletter, podcast, siti internet, radio, tv, giornali, cartelloni pubblicitari, conoscenti e articoli scientifici parlano solo delle vacanze estive. E tutti sono d’accordo che è meglio andare al mare, magari indicando giusto due o tre località e limitando la discussione sull’ora più opportuna in cui prendere il gelato.

Difficile non pensare, anche in situazioni meno estreme di questo scenario inventato, a un qualcosa di organizzato dall’alto. Non necessariamente un complotto che coinvolga tutta la popolazione mondiale tranne noi, ma anche solo una riuscita campagna di propaganda per convincere quante più persone possibile ad andare al mare, o dissuaderle ad andare in montagna, o distrarle da qualche altro tema più importante e urgente.

Un’ipotesi assolutamente legittima e sensata. Dal momento che congiure e cospirazioni (e più banalmente campagne di marketing) esistono davvero, sarebbe un errore liquidare ogni ipotesi di complotto. Solo che è un attimo passare dalle ipotesi, basate su indizi e in attesa di conferme, alle fantasie di complotto1 completamente slegate dalla realtà.

Senza troppa originalità, propongo alcune indicazioni per evitare di fare quel passo e affrontare i casi di pensiero unico senza cadere nel complottismo.

L’idea non è fornire argomenti per criticare chi dà credito all’esistenza di un qualche complotto, ma fornire strumenti utili innanzitutto per noi stessi.

La massima di Hyman

Il punto di partenza, di fronte a un caso di pensiero unico e in generale di fronte a ogni fenomeno che vogliamo cercare di chiarire, non può che essere la “massima di Hyman” (spesso indicata anche come “imperativo categorico di Hyman”, ma il termine “massima” mi pare più adatto).

Non cercare di spiegare qualcosa finché non sei sicuro che questo qualcosa esista.

Ray Hyman

Ray Hyman è uno psicologo statunitense noto per le sue critiche alla parapsicologia ed è considerato uno dei fondatori dei movimenti scettici moderni. Sembra che ripetesse spesso questa massima, aggiungendo che anche i migliori ragionamenti sono inutili se i dati di partenza sono avariati.

Cosa vuol dire applicare la massima di Hyman al pensiero unico? Innanzitutto chiedendosi se è davvero così unico, questo pensiero. Non è che siamo noi a fare caso solo a chi sostiene la bontà delle vacanze al mare e non notiamo tutti quelli che invece ci propongono di andare in montagna? Oppure frequentiamo ambienti in cui la maggioranza preferisce il mare, ma il mondo è pieno di persone che invece vanno in e parlano di montagna?

A un altro livello, potremmo anche chiederci se l’improvvisa svolta verso il mare ci sia davvero stata. Siamo sicuri che delle vacanze estive si discutesse così poco, prima che qualcuno ci facesse notare il “pensiero unico del mare”? E davvero c’era tutta questa varietà di opinioni oppure c’è sempre stata un’importante maggioranza a favore del mare?

Il rasoio di Hanlon

Una volta presa in considerazione la massima di Hyman, c’è il rasoio Hanlon:

Mai attribuire a malafede quel che si può adeguatamente spiegare con la stupidità.

Robert J. Hanlon

La metafora del rasoio – che viene dal più conosciuto rasoio di Occam, vedi più avanti – si spiega con l’idea di dare un taglio netto eliminando certe ipotesi in favore di altre. In questo caso, quelle basate sulla malafede rispetto a quelle basate sulla stupidità. Mantengo questa immagine, ma considero sia il rasoio di Hanlon sia quello di Occam delle massime. Indicazioni generali su come ragionare, non dei principi da applicare indipendentemente dalla situazione.

Devo inoltre espandere il concetto che Hanlon – un tizio della Pennsylvania che ha inviato questa massima per un raccolta dedicata alla Legge di Murphy – chiama “stupidità”. A rigore, imporrebbe di prendere in considerazione solo l’ipotesi che stupidamente ci si dimentichi della possibilità di fare le vacanze in montagna.

Direi quindi di non attribuire a malafede, e in generale a un piano preordinato, quello può essere spiegato come un fenomeno spontaneo che non ha bisogno di spinte o imposizioni dall’alto. Nessuno parlava delle vacanze estive perché si pensava a cosa fare a Pasqua, adesso che siamo in estate tutti discutono e organizzano le vacanze estive; tra qualche mese si parlerà di cosa fare a Capodanno. Si parla del mare perché in pochi hanno voglia di fare lunghe camminate sui sentieri e con questo caldo mica vorrai visitare le città d’arte. E così via.

C’è anche da considerare la questione dell’imitazione o emulazione che porta naturalmente a una certa uniformità di opinioni e comportamenti. Ora: fare quel che fanno gli altri può apparire una scelta poco intelligente, ma in realtà in alcune circostanze può essere la cosa migliore da fare. Se ad esempio non disponiamo di sufficienti informazioni: affidarsi alla scelta della maggioranza, o comunque delle persone a noi vicine, può essere una buona strategia. Di fronte due ristoranti, uno semivuoto e l’altro con molti tavoli occupati, è naturale pensare che in quello con più persone si mangi meglio.
Questo ovviamente non è sempre vero. Su un argomento specialistico e controintuitivo molto probabilmente la maggior parte delle persone si sbaglia. Inoltre non è detto che quello che va bene agli altri vada bene anche a me. Sono sicuro che alla domanda “Qual è la capitale della Florida?” molti risponderanno (sbagliando) Miami e pochi (correttamente) Tallahassee. Magari il ristorante con meno persone fa semplicemente porzioni più piccole e noi siamo in cerca di un pasto leggero.

Da notare che i due scenari, quello di un fenomeno spontaneo o di un’imposizione dall’alto, non si escludono completamente. C’è magari qualcuno che, a vari livelli, spinge per ottenere un certo risultato ma il successo di questa impresa è solo in parte dovuto ai suoi sforzi.
Il mio esempio preferito, in proposito, riguarda Edward Bernays: nipote di Freud, è considerato il primo spin doctor della storia. O, per dirla in altra maniera, il primo manipolatore dell’opinione pubblica. Combinando le teorie dello zio, soprattutto per quanto riguarda il subconscio, alla psicologia delle masse avrebbe sviluppato un sistema infallibile per, appunto manipolare le persone. Tra i suoi successi viene spesso citata la colazione con uova e pancetta. Pagato da un’azienda produttrice di bacon, Bernays ha puntato sul messaggio, sostenuto dalla comunità medica, che una colazione nutriente è il modo più salutare per iniziare la giornata. Riuscendo effettivamente a rendere uova e pancetta una tipica colazione americana, cosa che forse senza di lui non sarebbe successa.
Mi chiedo tuttavia cosa sarebbe successo se a contattare Bernays fosse stato un produttore di cavoletti di Bruxelles. Dubito che questa verdura (che peraltro a me piace molto) avrebbe trovato molto spazio. Ma non c’è bisogno di ricorrere a esperimenti mentali: nel 1932 Bernays ha lavorato alla campagna per la rielezione del presidente Herbert Hoover. Sconfitto (e non di poco) da Franklin D. Roosevelt.

Il rasoio di Occam

Ed eccoci al celebre rasoio di Occam, dal teologo e filosofo del Trecento Guillelmus de Ockham:

A parità di fattori, la spiegazione più semplice è quella da preferire.

Guglielmo di Occam

Direi che i punti importanti, qui, sono due. Il primo è cosa intendiamo con “idea più semplice”. In alcuni casi l’ipotesi di un complotto globale è infatti incredibilmente complessa: pensiamo alle scie chimiche: quante persone dovrebbero essere coinvolte? Possibile che nessuna riesca a portare prove certe? Ma in altre situazioni pensare a una campagna centralizzata è invece un’ipotesi più semplice rispetto a un fenomeno spontaneo o di una semplice coincidenza. Il punto è valutare attentamente la semplicità. Pensare a una campagna pubblicitaria organizzata dalle località balneari è un conto; una cospirazione per svuotare le città perché è in corso una qualche catastrofe che si vuole tenere nascosta un altro.

Il secondo punto è “a parità di fattori”. La soluzione più semplice è infatti da preferire se spiega quanto sta accadendo altrettanto bene di ipotesi più complicate.

Cosa significa in concreto? Direi soprattutto prendere in considerazione l’ipotesi che tutti sostengono che sia meglio andare al mare perché banalmente è meglio andare al mare. Grosso modo come si è tutti d’accordo che la terra non è piatta perché la terra, effettivamente, non è piatta.

Riassumendo

Quando improvvisamente tutti la pensano allo stesso modo, prima di pensare che sia tutto organizzato da qualcuno dobbiamo chiederci se è davvero così (magari è solo una nostra impressione), poi se può essere anche solo in parte un fenomeno spontaneo e infine se l’ipotesi di una qualche campagna organizzata sia effettivamente la più semplice: magari tutti la pensano allo stesso modo perché, banalmente, hanno ragione.

  1. Il termine è di Wu Ming, vedi l’impegnativo ma interessante Q di qomplotto. []

Come giustificare i lockdown (quando la pandemia era un mistero)

La stazione di Liverpool Street a Londra nell’aprile del 2020 (foto di Ben Garratt/Unsplash)

Mi sono imbattuto in un articolo pubblicato su ‘Philosophy of Medicine’ che è sostanzialmente una difesa delle decisioni prese dal governo britannico durante i primi mesi della pandemia di Covid-19. In particolare gli autori – Lucie White, Philippe van Basshuysen e Mathias Frisch – si soffermano su quelli che vengono definiti i ‘lockdowns’ al plurale, cioè tutte le limitazioni – dagli assembramenti alla chiusura di scuole e luoghi di lavoro – che mirano a ridurre i contatti tra le persone, che si applicano a tutta la popolazione e che prevedono sanzioni per chi non le rispetta.

Non ho trovato quando l’articolo è stato presentato alla rivista, ma è una sfortunata coincidenza che la pubblicazione – datata 28 aprile 2022 – sia arrivata nel periodo dello scandalo per le feste natalizie organizzate dal primo ministro Boris Johnson proprio in violazione di quelle restrizioni (uno dei tanti scandali che lo hanno portato a dimettersi). Sfortunata perché, come spesso capita per questo tipo di analisi, più che le conclusioni è interessante il ragionamento che ha portato gli autori ad affermare che sì, in base alle informazioni disponibili in quel momento la scelta di limitare le libertà personali era giustificata.

L’articolo merita una lettura, ma grosso modo i punti affrontati sono due: come giustificare decisioni prese in situazioni di forte incertezza; il ruolo dei modelli epidemiologici che si sono dimostrati errati.

Una corsa a ostacoli al buio

Sul primo punto: adesso, dopo due anni e qualcosa di pandemia, è relativamente facile prendere decisioni visto che bene o male siamo in grado di valutare sia gli effetti della malattia (con giusto qualche incognita in più per le nuove varianti) sia l’impatto delle misure di contrasto, dove con “impatto delle misure di contrasto” intendo sia la riduzione di contagi, sia i costi sociali ed economici. Poi bilanciare tutti questi fattori è un compito – peraltro politico, non scientifico – tutt’altro che facile, ma almeno è una corsa a ostacoli nella quale gli ostacoli li vediamo mentre nei primi mesi si correva al buio.

Ora, visto che al buio non si sa neanche se l’ostacolo c’è, è giusto imporre agli altri di fermarsi o saltare? Uscendo dalla metafora della corsa al buio – che è mia, non degli autori dell’articolo – è giusto limitare la libertà delle persone su basi così incerte? La risposta degli autori, come detto, è “sì”, ma con una serie di precisazioni interessanti:

  • la decisione di adottare le restrizioni anche in situazione di forte incertezza non può essere una scusa per smettere di fare ricerca e cercare di ridurre questa incertezza (adattando i provvedimenti in base all’evolversi delle conoscenze e passando quando possibile a misure meno invasive ma altrettanto efficaci).
  • Una parte non trascurabile dei costi sociali ed economici delle restrizioni si sarebbe avuta anche “lasciando correre” la pandemia, il che porta a considerare le restrizioni il “male minore”.
  • Indizi sia della particolare gravità delle conseguenze di una pandemia incontrollata, soprattutto per quanto riguarda la tenuta del sistema sanitario, sia dell’importanza dei tempi per l’efficacia delle restrizioni: ritardare anche solo di qualche settimana le misure, aspettando “di saperne di più”, avrebbe potuto rendere la situazione ingestibile.

È soprattutto l’urgenza che, secondo gli autori, può portare a quello che definiscono “un allentamento degli standard epistemici necessari a giustificare interventi regolatori”:

Although estimations of the magnitude and nature of harm were, in the early months of the pandemic, based only on emerging and uncertain evidence, the necessity of provisions for acting quickly where potential harm is imminent should lead us to relax the epistemic standards to which we normally hold policymakers when there is time for further evidence gathering and extensive deliberation. (p.12)

Accettare il rischio‌

C’è poi tutta la questione del “principio del danno” che in ottica liberale costituisce l’unica giustificazione per proibire qualcosa. Il principio del danno è facile da applicare con i “danni tradizionali”, tipo Tizio che ferisce/deruba/incatena Caio. Ma qui abbiamo a che fare con un rischio, un danno che potrebbe anche non esserci e che anzi – parliamo restrizioni che riguardano tutta la popolazione, non solo le persone contagiate e contagiose come l’isolamento per i positivi – è molto probabile che non si verificherà. Non parliamo del caso estremo, per quanto non di fantasia, di una persona che sa di essere positiva e contagiosa e se ne va in giro a tossire addosso alle persone, ma di impedire a tutti di fare acquisti non essenziali, di andare al ristorante eccetera.

Alcuni rischi sono considerati socialmente accettabili e ce li teniamo così come sono; altri sono socialmente inaccettabili e riteniamo opportuno intervenire. Il rischio di essere vittime di incidenti stradali è un buon esempio di entrambi, dal momento che la circolazione delle auto è limitata e regolata, ma non proibita del tutto: accettiamo il rischio rappresentato da un guidatore sobrio, non quello rappresentato da un guidatore ubriaco che viene punito anche se non ha causato incidenti.

Perché alcuni rischi sono considerati accettabili e altri no? Dipende certamente da quanto è grave e probabile il danno potenziale, ma seguendo il teorico del rischio Sven Ove Hansson (di cui ignoravo l’esistenza prima di leggere questo articolo), gli autori introducono un altro criterio. Un rischio è accettabile se rientra in un sistema equo che va a vantaggio di tutti – e le persone fragili, maggiormente a rischio di ammalarsi gravemente, sarebbero escluse da questo sistema equo.

Suona bene, ma poi provo ad applicare questo principio alle automobili: forse ho capito male io, ma chi non guida non trae alcun beneficio, dalla circolazione delle auto per cui il rischio di incidenti anche da guidatori sobri potrebbe essere giudicato socialmente inaccettabile; viceversa, ogni guidatore può beneficiare del fatto di poter guidare anche dopo aver bevuto, per cui potremmo dire che il rischio di incidenti per alcol sia socialmente accettabile. Insomma, l’argomento non mi convince per nulla e sospetto che l’accettabilità sociale di un rischio sia semplicemente il frutto di una (tacita) negoziazione tra persone. Un accordo che necessariamente basato su valutazioni razionali ma anche su cose come l’abitudine.

Del resto questo ragionamento sembra convincere poco anche gli autori dell’articolo, visto che ritornano sulla pericolosità della pandemia non solo per la singola persona contagiata, ma per la collettività che rischia di trovarsi con un sistema sanitario sovraccarico. Questo del rischio rimane comunque uno dei punti deboli del ragionamento.

Il modello sbagliato

Ultimo punto, quello sui modelli epidemiologici che, valutati con il senno di poi – ovvero che l’effettivo andamento della pandemia – sono stati un disastro, anche tenendo conto che ogni modelli è per sua natura una semplificazione (se un modello non fosse significativamente più semplice da maneggiare della realtà, studieremmo direttamente la realtà).

Tuttavia forse il problema non sta nei modelli, ma in quello che ci vogliamo fare, insomma il ruolo che dovrebbero avere nel processo decisionale. Secondo gli autori un modello può essere usato per avere una previsione, che dovrebbe essere qualcosa che ci dice come effettivamente andranno le cose in futuro, e per avere una proiezione, che dovrebbe invece dirci come potrebbero andare le cose partendo da alcune condizioni iniziali che magari sappiamo già in partenza essere false (come le persone che, indipendentemente da eventuali restrizioni e raccomandazioni, non cambiano abitudini durante una pandemia). Ne risulta che confrontare il modello con la realtà ha senso per le previsioni, non per le proiezioni (che però a questo punto non è chiaro come vengano valutati e migliorati).

Qual è l’utilità delle proiezioni?

This projection functions as a counterfactual limiting case of the death toll under a completely uncontained spread of the virus—an unrealistic limiting case, as all parties agree, but one that may nevertheless play a role in anchoring our perceptions of the severity of the threat posed by the virus.

Una proiezione non descrive come andranno le cose, forse neanche come potrebbero andare ma fornisce ugualmente informazioni utili per una comprensione qualitativa del fenomeno. Il che potrebbe anche essere interpretato come una maniera gentile di “servono a spaventare i decisori politici e la popolazione”; interpretazione che non condivido ma che devo ammettere essere coerente con l’impiego che è stato fatto di alcune di queste proiezioni.

100 milioni di anni, “più di un secolo”

Il Corriere della Sera ha dato la notizia del ritrovato di un fossile di millepiedi gigante in Inghilterra che risale al Carbonifero. Visto che non tutti hanno familiarità con la scala dei tempi geologici, nel catenaccio si precisa “più di un secolo prima dell’arrivo dei dinosauri”:

Il catenaccio dell’articolo prima della correzione

L’articolo è poi stato corretto con “oltre 100 milioni di anni prima dell’arrivo dei dinosauri”, ma su Internet Archive è salvata la versione errata.

Ma è davvero sbagliato quel “più di un secolo”? La frase è corretta, dal punto di vista del significato letterale: 100 milioni di anni sono infatti “più di un secolo”, un milione di volte per la precisione.

Su Twitter l’ho ironicamente fatto notare a Paolo Attivissimo. Mi è stato giustamente risposto che è come dire che il Kāma Sūtra propone più di due posizioni o che Bellinzona è a più di 500 metri da New York. Due begli esempi che comunque cadono corti rispetto all’originale: il Kāma Sūtra riporta 64 posizioni, non 2 milioni, e le due città stanno a circa 6’500 chilometri, non 500mila.

Dovrebbe essere chiaro: dire “più di un secolo” è sbagliato perché l’indicazione, per quanto letteralmente corretta, non è informativa. I filosofi del linguaggio dicono che non viene rispettata una delle massime conversazionali di Grice, direi quella di relazione (“sii pertinente”).

Il problema non riguarda la semantica (il significato della parole), ma la pragmatica (come quelle parole vengono utilizzate dai parlanti) e allora ho provato a immaginare dei contesti in cui l’affermazione “quel fossile precede di più di un secolo la comparsa dei dinosauri” sia corretta anche pragmaticamente.
Non è difficile: immaginiamo che una qualche istituzione, ad esempio un museo, abbia un regolamento che stabilisce dove vadano conservati i vari reperti. Per controllare che questo millepiedi gigante sia stato inventariato correttamente la domanda “precede di più di un secolo la comparsa dei dinosauri?” sarebbe quindi sensata: che si tratti di 150, di 150mila o di 150 milioni di anni, poco cambia. Similmente, se le autorità hanno stabilito che una persona non può stare a meno di 500 metri da Bellinzona, l’informazione “New York è a più di 500 metri da Bellinzona” diventa pertinente: non importa se siano 600 metri, 6mila chilometri, basta siano più di 500 metri.

È la ricchezza, e la complessità, del linguaggio. Alla quale spesso non pensiamo: la dimensione pragmatica la diamo un po’ per scontata, e non ci rendiamo conto di quanto possa cambiare gli effetti di quello che diciamo.
Il che vale anche per la discriminazione e i discorsi d’odio che non riguardano solo insulti e termini dispregiativi. In un contesto in cui l’informazione non dovrebbe essere pertinente, dire “è una donna” oppure “è un immigrato” – affermazioni corrette per quanto riguarda il significato letterale – apre un mondo di implicature e presupposizioni discriminanti (l’esempio è ripreso, con alcune modifiche, dall’interessante Hate speech: il lato oscuro del linguaggio di Claudia Bianchi)

Il lungo viaggio del nuovo coronavirus (ovvero smettiamola di dire che siamo in guerra)

A inizio marzo avevo scritto di “non [essere] particolarmente preoccupato”; penso sia il caso di ammettere di essere stato troppo ottimista: le conseguenze di questa epidemia le avvertiremo molto a lungo – per sempre, chi avrà perso una persona cara.

Inizio con questa ammissione perché non voglio che quanto segue venga preso come una minimizzazione della situazione: è e sarà dura, e ci vorrà la cooperazione di tutti. Ma non siamo in guerra con il virus SARS-CoV-2 e penso sia il caso di ridurre i riferimenti bellici, nei discorsi che facciamo sull’epidemia – discorsi nei quali invece le medicine sono armi, i medici truppe, gli ospedali fronti e così via.
Ripeto: non lo dico perché credo vada tutto bene. E neanche perché non veda punti di contatto con una guerra: i morti e i ricoverati, la sospensione della vita di tutti i giorni, i danni sociali ed economici. Ma le metafore sono infide, sfuggono di mano: non si limitano ad alcuni punti di contatto, ma si espandono e portano con sé tutto l’immaginario collettivo – in questo caso della guerra.

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