Da Matrix al Metaverso, ovvero il demone di David Chalmers

Ho seguito, online, una presentazione del libro di David Chalmers sulla realtà virtuale.

Il saggio Reality+, da poco tradotto in italiano con il titolo Più realtà, è uscito nel gennaio del 2022. In quel periodo il tema tecnologicamente caldo sembrava essere la realtà virtuale/aumentata, non l’intelligenza artificiale: tutti guardavano al Metaverso di Facebook. Poi è arrivato ChatGPT e sembra aver ribaltato sia le attenzioni del pubblico, sia gli investimenti delle grandi aziende tecnologiche.

Tuttavia, stando a Chalmers non c’è una vera e propria contrapposizione tra i due temi. Grazie alle intelligenze artificiali i computer possono non solo “gestire” i mondi virtuali, ma anche “crearli”. ChatGPT è già in grado di creare una avventura testuale che è a tutti gli effetti un mondo virtuale, ovvero un universo interattivo generato da un computer. E non si vede perché non potrà, in futuro, creare anche realtà virtuali, ovvero dei mondi virtuali immersivi nei quali entri grazie ai (per ora costosi e limitati) set per la realtà virtuale.

Una, cento, mille realtà

La tesi centrale del libro, così come l’ha esposta Chalmers, è che la realtà virtuale è una “genuine reality”. Non è una realtà di seconda classe, non è un’illusione o una finzione. Perché è reale ciò che “fa la differenza” e questi mondi virtuali possono fare la differenza. Possiamo anzi condurre una vita significativa e piena nella realtà virtuale – non necessariamente migliore ma neanche peggiore.

Questa parte mi pare molto convincente e, a dispetto dell’atteggiamento da rivoluzionario di Chalmers, coerente con una tendenza quantomeno secolare in filosofia. Mi riferisco al non limitare la categoria del “reale” alla sola realtà fisica, ma estenderla includendovi anche altri enti. Insieme ai muri, che sono oggetti fisici, esistono anche i confini, che sono oggetti sociali come le multe, le promesse, i campionati di calcio e molte altre cose che spesso per noi contano più degli oggetti fisici. (Sul blog ho scritto diverse cose sull’ontologia sociale). E a suo modo è reale anche la finzione. È infatti vero che Sherlock Holmes abita al 221b di Baker Street mentre è falso che Frodo Baggins abbia vinto l’unico anello giocando a carte.
Solo che tutte queste realtà esistono in modi diversi. Per costruire un muro basta prendere un po’ di mattoni, per costruire un confine serve una comunità che lo riconosca come tale. La casa di Sherlock Holmes la trovo nei racconti di Arthur Conan Doyle, non per le vie di Londra (dove fino al 1930 Baker Street terminava al civico 85).

Solo che Chalmers sembra affermare che le realtà virtuali – o almeno alcune realtà virtuali – esistono allo stesso modo della realtà non virtuale. E qui ho qualche difficoltà a seguirlo, ad esempio quando afferma che le “menti virtuali sono menti genuine”.
Se con “genuino” Chalmers intende contrastare l’idea che tutto quel che è virtuale è un surrogato privo di valore, concordo con lui: i mondi e le realtà virtuali giocano e verosimilmente giocheranno sempre più un ruolo importante nelle nostre vite. Il problema è che da questa “tesi debole” sembra passare a una “tesi forte”: non ci sono differenze significative, tra realtà virtuale e realtà fisica. Mi sembra una tesi insostenibile a meno di non limitarsi a scenari – che è difficile considerare rappresentatiti del fenomeno dei mondi e realtà virtuali –, tipo un essere digitale senziente e una realtà virtuale completamente indistinguibile dalla realtà fisica. Ma ha senso costruire una filosofia della realtà virtuale che si adatta solo a uno scenario fantascientifico, tralasciando tutto il resto?

La grande simulazione

Questo scenario “alla Matrix” sembra tuttavia essere un punto centrale della riflessione di Chalmers.

Non possiamo escludere di vivere in una simulazione. Non solo: i progressi tecnologici nel campo della realtà virtuale e dell’intelligenza artificiale renderebbero questa ipotesi verosimile. Personalmente mi pare un’esagerazione: anche ammettendo di avere già una tecnologia in grado di inviare al cervello segnali indistinguibili da quelli prodotti da un oggetto fisico, l’ipotesi Matrix resta comunque nel regno dell’inverosimile. Voglio dire: qualcuno dovrebbe avermi rapito e messo in un complicatissimo (e costosissimo) macchinario per farmi credere di condurre la mia vita di tutti i giorni? Oppure è tutta l’umanità a vivere in una simulazione realizzata per misteriosi motivi da una specie aliena?

Direi che i progressi tecnologici hanno al massimo fatto passare questa ipotesi da “praticamente impossibile” a “altamente improbabile”. Non possiamo escludere che sia così, ma non possiamo neanche escludere che io domani trovi un miliardo di dollari in contanti dimenticati per strada da Bill Gates. Non vedo motivi sufficienti per “prendere in considerazione” questa ipotesi. Per tornare al film ‘Matrix’, la celebre scena in cui il protagonista Neo prende la pillola rossa e scopre che tutto è una simulazione arriva dopo una serie di indizi che rendono l’ipotesi simulazione più probabile. Inutile dire che al momento non abbiamo nessuno di questi indizi.

Una superflua risposta allo scetticismo radicale

Chalmers probabilmente insiste su questa “ipotesi Matrix” perché è la versione tecnologica di un classico argomento filosofico, quello che oggi chiameremmo esperimento mentale. La versione più celebre è quella del demone di Cartesio: non possiamo fidarci dei nostri sensi perché un demone potrebbe ingannarci. (Peraltro sospetto che, almeno in alcuni periodi storici, l’idea di un demone ingannatore fosse più credibile di quanto adesso lo è l’ipotesi di una simulazione al computer). Dal momento che non possiamo escludere con certezza assoluta questo scenario, non è possibile dare un fondamento ultimo alla conoscenza della realtà.

Schematizzando:

  1. Non possiamo sapere se viviamo in una simulazione.
  2. Se siamo in una simulazione non possiamo conoscere nulla di vero.
  3. Quindi la conoscenza della realtà è impossibile.

Chalmers accetta il punto 1 e anzi trasforma il “non possiamo escludere che” in un “è probabile che”. Ma esclude lo scetticismo radicale della conclusione 3 rifiutando il punto 2: anche la simulazione è reale.

Il fatto è che lo sforzo mi pare inutile. Prima di tutto perché finché restiamo all’interno della simulazione la nostra conoscenza della realtà resterà incompleta. Ma soprattutto perché la conclusione 3 non è poi così grave: d’accordo, non c’è un fondamento ultimo alla conoscenza della realtà; e con ciò? Possiamo benissimo andare avanti con un assenso provvisorio, tanto più forte quanto solide sono le prove di cui disponiamo (o deboli le obiezioni). Come consigliava il filosofo David Hume, “un uomo saggio proporziona la sua credenza all’evidenza”.

Il punto 1, quello che non possiamo escludere di vivere in una simulazione, è come la tesi del solipsismo in un celebre passaggio del Mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer. Non lo si potrà mai confutare con prove, ma rimane un argomento pretestuoso. “Come convinzione seria esso potrebbe trovarsi solo in un manicomio: come tale, occorrerebbe poi, contro di esso, non tanto una prova quanto una cura. In tanto anche non ci dilungheremo su di esso, ma ci limiteremo all’ultima fortezza dello scetticismo, che è sempre polemico”. Questo argomento è “come una piccola fortezza di frontiera, che rimarrà qui sempre inespugnabile, ma la cui guarnigione anche non ne potrà uscire mai e poi mai, sicché le si può passar davanti e lasciarsela alle spalle senza pericolo”.

Le statistiche possono mentire. E anche lo scetticismo

Non ricordo chi, anni fa, mi consigliò di leggere How to Lie with Statistics di Darrell Huff, però gli o le sono molto riconoscente perché quel libro lo adorai fin da subito. Pubblicato nel 1954 ma tradotto in italiano mi pare solo nel 2007, il libro spiega come le statistiche possono essere usare per nascondere una verità oppure per dimostrare, con l’apparente solidità di numeri e percentuali, praticamente qualsiasi cosa. Nell’esporre queste tecniche Duff spiega ovviamente alcuni aspetti importanti come la selezione del dati o la differenza tra media, mediana e moda, ma il libro è impostato tutto sull’inganno delle statistiche e sull’importanza di dubitare.

“Può sembrare un manuale per gli imbroglioni” scrive Huff nell’introduzione, ma ”i furfanti conoscono già questi trucchi, le persone oneste devono impararli per difendersi”. In questo Huff si paragona al ”ladro in pensione i cui insegnamenti in un corso universitario su come scassinare una serratura o disattivare un allarme” solo che ho scoperto che non era affatto in pensione, anzi era passato di livello.

Lo spiega il giornalista economico Tim Harford in un libro che riprende e approfondisce i temi del libro di Huff ma capovolgendone l’impostazione: in Dare i numeri si parte da quello che le statistiche ci permettono di vedere, non dagli inganni. Perché questo cambiamento di prospettiva è importante? Perché l’approccio di Huff rischia di portarci a uno scetticismo indiscriminato, al dubbio verso ogni tipo di statistica. E qualcuno può sfruttare questo dubbio, come l’industria del tabacco quando – proprio negli anni in cui venne pubblicato How to Lie with Statistics – emersero le prime conferme sui danni del fumo, conferme supportate da statistiche. E chi, nel 1965, venne chiamato per screditare quelle statistiche in un’audizione al Senato degli Stati Uniti? Esatto, Darrell Huff. Come scrive Harford:

Darrell Huff era stato pagato dall’industria del tabacco per fare ciò che sapeva fare meglio: mettere assieme qualche astuto aneddoto e poi aggiungere un pizzico di sagacia statistica e una buona dose di cinismo per instillare il dubbio sulla pericolosità delle sigarette. All’epoca stava persino lavorando al seguito del suo libro, che però non fu mai pubblicato: si sarebbe intitolato How To Lie With Smoking Statistics.

Huff ha spiegato come è possibile usare le statistiche per ingannare. E poi ha usato proprio il dubbio da lui creato per ingannare, per far capire che non abbiamo certezze e che in assenza di certezze è meglio non fare nulla.
Tuttavia limitarsi a denunciare la pericolosità del dubbio non avrebbe molto senso: vorrebbe dire applicare allo scetticismo lo stesso metodo che Huff ha applicato alla statistica. Seguendo l’approccio di Harford, dobbiamo sottolineare le virtù del dubbio e imparare a dubitare bene. Perché, come ha scritto Hume, l’uomo saggio non è quello che dubita di tutto, ma che proporziona le proprie credenze in base alle prove di cui dispone.

Gullibility is Bad for You

Per chi conosce l’inglese, consiglio Gullibility is Bad for You, il nuovo blog di Massimo Pigliucci.
Gullibility1 indica la tendenza a credere a qualsiasi cosa ci venga detto o riferito.
È, secondo Pigliucci, l’atteggiamento opposto allo scetticismo, che considera una virtù.

  1. Alcuni siti mi danno come traduzione credulità o ingenuità, me nessuno dei due termini mi pare rendere l’idea del termine originale []

Contro il relativismo

Nello scompartimento di un treno, due persone sono sedute una di fronte all’altra.

Giovannitra sé e sé, leggendo il giornale: Tutta colpa del relativismo!

Ludovico: Mi scusi, posso chiederle quale terribile evento sarebbe causato dal relativismo?

Giovannisorpreso: Come scusi?

Ludovico: Ho sentito la sua esclamazione, probabilmente legata a qualche notizia riportata dal giornale, e le chiedevo quale increscioso fatto lei riconduceva al relativismo. Continua a leggere “Contro il relativismo”

Non ci credo, non ti credo

Cartesio invita a compiere un gesto all’apparenza semplice, in realtà terribilmente complesso: dubitare di tutto. La vera conoscenza non può che iniziare dal dubbio radicale e totale: immaginare che tutte le nostre conoscenze siano sbagliate, una mera illusione, un inganno.
La realtà potrebbe essere radicalmente diversa da quella che, intuitivamente, ci appare: il mondo potrebbe non esistere, il nostro corpo potrebbe essere molto diverso o, addirittura, potrebbe non esserci affatto.
Per quanto assurde possano sembrare queste ipotesi, occorre prenderle in considerazione, valutarle. Continua a leggere “Non ci credo, non ti credo”