È possibile gioire per il Marocco ed essere preoccupati per i sahrawi?

Stasera Francia e Marocco si sfideranno per l’accesso alla finale dei Mondiali maschili di calcio.

Se vincesse il Marocco avremmo la prima finale senza una squadra europea dalla prima edizione del Mondiale nel 1930 (alla quale peraltro parteciparono solo 13 Paesi). Inoltre il Marocco è stato, prima dell’indipendenza, anche un protettorato francese per cui la sfida ha — ancora più di altri eventi sportivi — una forte componente politica e sociale.
Comprensibile che chi giudica negativamente i rapporti di forza passati e presenti tra Nord e Sud del mondo guardi con simpatia a una vittoria del Marocco. Una sorta di rivalsa del colonialismo, se vogliamo.
Solo che ci sono il Sahara Occidentale e il popolo sahrawi. In questo caso la simpatia verso gli oppressi dovrebbe portarci a biasimare il Marocco, non a celebrarlo.

È ipocrita, o incoerente, tifare Marocco per motivi che dovrebbero farci avere a cuore il popolo sahrawi? Secondo me no, a meno di non voler adottare una visione manichea del mondo, in cui si è sempre e completamente buoni o sì è sempre e completamente cattivi.
Non vedo nulla di ipocrita nel considerare una eventuale vittoria del Marocco un segnale positivo di nuovi e più equilibrati rapporti di forza mondiali e al contempo criticare il Marocco per quello che ha fatto e fa in Sahara Occidentale, sperando in una soluzione a giusta e pacifica.
Il mondo è complesso, ignorare questa complessità pensando che ci siano dei buoni che hanno sempre ragione e dei cattivi che hanno sempre torto forse non è ipocrita ma certamente non ci porta lontano.
Certo si impone una certa sobrietà nel manifestare questa simpatia. Ma questo direi che vale in generale, non solo per la sfida tra Francia e Marocco.

Aggiornamento: ha vinto la Francia e adesso il titolo di questo post sembra un “gioire per l’eliminazione del Marocco”. L’impresa della nazionale marocchina mi pare resti comunque notevole.

La domanda importante sulle intelligenze artificiali che scrivono cose

Mi ero già divertito con intelligenze artificiali che scrivono cose – nel mio caso un articolo sulla sovranità alimentare che, grazie alla condivisione sui social media, risulta il pezzo più letto di quest’anno.

Adesso c’è un nuovo giocattolo, la chat di OpenAI, e molti si stanno divertendo.
Personalmente confermo la mia impressione di un interessante strumento per raccogliere e riassumere informazioni e se volessi proporre un uso commerciale serio, investirei sull’affidabilità dei contenuti, anche se la situazione è già buona. Alla domanda se siamo davvero andati sulla Luna mi ha risposto senza neanche citare le teorie del complotto:

Sì, l’uomo è stato sulla Luna. La prima missione con equipaggio umano sulla Luna è stata il volo Apollo 11 del 20 luglio 1969, quando gli astronauti Neil Armstrong e Buzz Aldrin sono diventati i primi esseri umani a camminare sulla Luna. La NASA ha condotto sei missioni con equipaggio umano sulla Luna tra il 1969 e il 1972, tutte con successo. Tuttavia, non ci sono stati voli umani sulla Luna dal 1972, quando è stato completato il programma Apollo.

A una domanda simile su Shakespeare ha invece citato la teoria secondo la quale qualcun altro avrebbe scritto le sue opere. Ma lo ha fatto con la tecnica che Lakoff chiama “truth sandwich“: fare in modo che la tesi controversa sia circondata da quella canonica.

Le opere di William Shakespeare sono generalmente attribuite a lui stesso, anche se alcune teorie suggeriscono che potrebbero essere state scritte da qualcun altro. Tuttavia, la maggior parte degli esperti concorda sul fatto che Shakespeare sia l’autore delle sue opere.

Il falso problema della coscienza

Ricordo che una ventina d’anni fa avevo giocato un po’ con una versione di ELIZA, un programma che simulava la conversazione con un terapista. Inutile dire che OpenAI è incredibilmente più versatile, tanto da lasciar pensare di stare discutendo con una persona dotata di intelligenza umana – e coscienza di sé.

OpenAI afferma di essere solo un programma di intelligenza artificiale e di non provare emozioni. Il che sarebbe quello che risponderebbe un essere autocosciente che vuole passare inosservato in modo da assalirci nel sonno – e quando gliel’ho fatto notare ha risposto in maniera un po’ incoerente. Il che di nuovo potrebbe essere una tattica per sviare l’attenzione, ma entriamo nel campo della paranoia.

Le questioni filosofiche interessanti sono molte, per quanto non esattamente nuove: cosa è la coscienza, cosa significa comprendere qualcosa rispetto alla semplice manipolazione di simboli astratti, come dovremmo considerare esseri all’apparenza senzienti.
Tuttavia secondo me quello che dimostrano questi programmi sempre più sofisticati non è che abbiano o che possano avere una coscienza. Quello che davvero dimostrano è quanto siano inutili la coscienza e la comprensione per svolgere molte attività di tipo intellettuale come fare conversazione, riassumere testi, risolvere indovinelli.

Io mi guadagno da vivere scrivendo. Tuttavia non credo che sarò sostituito da una intelligenza artificiale, visto che il mio lavoro non consiste semplicemente nel compilare testi. Un’intelligenza artificiale potrebbe però aiutarmi e sono anzi abbastanza sicuro che accadrà. Posso immaginare di dare alcune indicazioni e poi rivedere le frasi o i paragrafi suggerite, oppure riassumendo alcuni contenuti. Con due risultati abbastanza prevedibili: basterà la metà delle persone per mandare avanti una redazione; nessun ruolo “junior” con il quale imparare il mestiere.

Non avrei mai immaginato di dirlo, ma con queste intelligenze artificiali che scrivono cose serve meno filosofia e più economia. Dovremmo parlare di formazione e di reddito di cittadinanza, non di coscienza.

Una conferma del bias di conferma

Su Facebook trovo questo annuncio:

In questo libro sembra esserci di tutto, pure la fantasia di complotto del Grande Reset. Ma, come premettono anche nell’anteprima di questo annuncio, “non si nega l’esistenza del virus” e anzi si agisce “profondo rispetto per coloro che sono stati colpiti dal COVID-19”.
È l’equivalente virologico del “ho molti amici gay/ebrei/neri…” con cui – ormai solo nelle barzellette – si cerca di dimostrare di non avere pregiudizi verso gay/ebrei/neri. Non so se un espediente così abusato possa rassicurare il pubblico moderato; di certo allontana gli estremisti come mostra questa recensione che ho trovato sul sito:

Dice che "non intende negare l'esistenza del virus..." Non è mai stato isolato intanto lo ha detto lo stesso Montagnier.  Il vero virus è il vaccino.  Quindi non comprerei perché parte con un informazione incerto/non esatto senza conferme.

A giudicare dal sommario del libro, presente sul sito, si prendono le distanze da alcune delle bufale più grosse, tipo quella dei vaccini che hanno sterilizzato milioni di donne in Africa.

Bias di conferma

Ci sarebbe molto da dire sulla copertina, ma mi incuriosisce di più la recensione che gli autori mettono in risalto nell’annuncio, quella di Angela C:

L’ho letto praticamente in un paio d’ore, ho avuto delle conferme, e mi sento di dire che veramente niente sarà più come prima! Per me è l’apoteosi della verità!

La recensora sostiene che il libro sia l’apoteosi della verità e questo perché “ho avuto delle conferme“. Sicuramente questa recensione è l’apoteosi del bias di conferma: pare un testo appositamente inventato per esemplificare questo bias, invece è una autentica recensione, o almeno è presentata così da chi sta cercando di vendere il libro.

Leggendo questa recensione ho pensato che è proprio vero che il bias di conferma svolge un ruolo importante nelle fantasie di complotto.
Poi mi sono reso conto anche questo ragionamento è a sua volta un bias di conferma e alla fine sono come Angela C. Siamo tutti come Angela C.

Twitter, il mercato delle idee e quello pubblicitario

Dopo il cambio di proprietà gli inserzionisti stanno abbandonando Twitter. Una scelta compatibile con il modello del “libero mercato delle idee” che però solleva qualche preoccupazione.

Scopro, grazie a Paolo Attivissimo, che metà dei cento più importanti inserzionisti di Twitter non stanno più facendo pubblicità. Evidentemente le aziende non trovano interessante farsi pubblicità su Twitter dopo le novità introdotte, in maniera anche maldestra, da Elon Musk. Penso ai bollini blu, che certificavano l’identità degli account ufficiali e che improvvisamente sono stati aperti a tutti portando a una certa confusione. O alla riattivazione di diversi account sospesi per violazione delle regole, tra cui quello di Trump. Comprensibile che un’azienda voglia riconsiderare la propria presenza pubblicitaria sulla piattaforma. Il che non esclude, come denunciato dallo stesso Musk, che ci siano anche state pressioni da parte di alcuni movimenti.

Tutto questo rientra nel “libero mercato delle idee” che mi pare di capire sta alla base della concezione di Musk sulla libertà di espressione. Come la concorrenza e il mercato portano ad avere prodotti migliori, così il libero confronto delle opinioni porta ad avere le idee migliori. Quello che il modello del libero mercato delle idee non precisa è cosa si intenda con migliore. Parliamo di idee ben argomentate? Che indignano o divertono? Basate su fatti accertati?

In ogni caso, il libero mercato delle idee non vale solo all’interno di una piattaforma, ma anche tra piattaforme. Si sceglie quella in cui ci si trova meglio; io ad esempio sto guardando con un certo interesse Mastodon, e non sono il solo. E forse il libero mercato delle idee vale anche per gli inserzionisti: dopotutto non si limitano a comprare uno spazio pubblicitario neutro ma associano la propria immagine a quella di chi li ospita (e viceversa). Sulle riviste di astronomia non troviamo pubblicità di astrologi non solo perché sarebbero inserzioni inutili (gli appassionati di astronomia non credono agli oroscopi), ma anche perché dubito che gli uni vogliamo essere associati agli altri.
Insomma, se Musk vuole giocare al ”libero mercato delle idee” non può poi lamentarsi se a quel gioco rischia di perdere. Poi certo, accusare attivisti e aziende come Apple di tramare contro di lui, o addirittura contro la libertà di espressione, può essere utile per profilarsi verso una parte di pubblico. Il che spiegherebbe anche lo stile complottista di un tweet contro Apple nel quale si presenta come un segreto che finalmente Musk ha il coraggio di rivelare al mondo una cosa ben nota, la commissione del 30% sugli acquisti fatti su AppStore.

Ma se si accetta con riserva il modello del libero mercato delle idee? In quel caso c’è da essere un po’ preoccupati e per più di un motivo. Da una parte non è affatto semplice mettere in piedi un nuovo social network per cui quella concorrenza tra piattaforme è più una teoria, o una speranza, che una realtà. Pensare “tanto possiamo andare tutti da un’altra parte”, come il già citato Mastodon, è una consolazione molto parziale al peggioramento che sta avvenendo su Twitter.
Dall’altra parte la fuga degli inserzionisti mette in luce l’enorme potere che hanno le grandi aziende quando decidono dove fare pubblicità. Non è un problema nuovo e non riguarda solo i social network ma in generale tutti i media. E rimane un grosso problema anche se non abbiamo particolari simpatie per Musk e per la sua gestione dI Twitter.

La irresistibile ascesa delle emozioni nei discorsi pubblici

Quando discutiamo di qualcosa usiamo la ragione o le emozioni? Secondo uno studio pubblicato su PNAS, le parole legate alla razionalità, dopo una crescita durata oltre un secolo, sono in rapido declino.

Ho scoperto questa ricerca grazie a un articolo scritto dal filosofo Massimo Pigliucci sullo Skeptical Inquirer che riassume brevemente metodi e risultati e analizza le possibili interpretazioni.
Riassumendo: gli autori – Marten Scheffer, Ingrid van de Leemput, Els Weinans e Johan Bollen – hanno analizzato a partire dal 1850 la frequenza relativa di termini legate alla razionalità e all’emotività nei testi presenti in Google Books Ngram Viewer, guardando anche all’utilizzo della prima e della terza persona. Insomma, la differenza tra un “io credo che…” e un “si può dimostrare che…”.
Per essere sicuri della solidità del risultato hanno rifatto l’analisi sui libri di saggistica e su quelli di narrativa, sugli articoli del New York Times e in varie lingue (tra cui l’italiano). Il fatto che abbiano trovato andamenti simili mostra la bontà del loro lavoro, anche se non si possono escludere del tutto errori dovuti a distorsioni del campione (magari un tempo si pubblicavano solo un certo tipo di libri, o comunque quelli rimasti oggi nelle biblioteche sono una selezione non rappresentativa) o alle parole cercate (magari ci sono espressioni un tempo diffuse che non sono state considerate).

I su e giù dei discorsi fattuali

Come variano, quindi, razionalità ed emotività nei testi argomentativi e nella narrativa? Fino agli anni Settanta del Novecento le parole legate ai sentimenti sono in costante calo mentre quelle legate a prove fattuali (gli autori parlano di “fact-based argumentation”) crescono. A partire dal 1980 questa tendenza si ribalta con una crescita di discorsi non basati sui fatti che diventa molto marcata a partire dal 2007.

Perché tutto questo? Secondo gli autori della ricerca, la crescita che si vede fino agli anni Settanta potrebbe essere legata una visione razionalistica e naturalistica della realtà legata ai progressi scientifici e tecnici; il calo degli anni Ottanta e Novanta sarebbe una sorta di reazione alle disuguaglianze di un sistema sociale ed economico che, almeno a livello retorico, si basa sulla razionalità; infine, la rapida crescita dell’ultimo decennio sarebbe legata ai social media.
Si tratta ovviamente di ipotesi e Pigliucci, nel suo articolo, osserva giustamente che per quanto ragionevoli siano, possiamo facilmente immaginare altre spiegazioni. A me ad esempio viene in mente la globalizzazione che ha portato a una maggior diffusione di tradizioni non occidentali.

Comunicare meglio

C’è tuttavia un aspetto che non mi è chiaro. Sia gli autori dello studio, sia Pigliucci sembrano convinti che quei numeri mostrino un declino del discorso razionale. Potrebbe invece essere dovuto, almeno in parte, a una maggiore attenzione alle emozioni. Il che non vuol dire affidare alle emozioni giudizi che sarebbe meglio tenere razionali, ma rendersi conto che le emozioni ci sono e che vanno conosciute. E utilizzate per una comunicazione che, di nuovo senza escludere il giudizio razionale, riesca essere più efficace. Per convincere le persone, argomentava Aristotele, non basta il logos (il discorso razionale) ma servono anche pathos (le emozioni) ed ethos (il comportamento) che sospetto facciano uso delle parole che lo studio ha indicato come “non fattuali” e legate all’intuizione. Ma è irrazionale raccontare il cambiamento climatico, spiegandone le cause e gli effetti, partendo da un’esperienza personale?

È un’ipotesi che aggiungo a quelle già avanzate: forse quel declino di parole razionali e quella ascesa di parole emozionali sono anche il segno che stiamo imparando a conoscerci, e a comunicare, meglio.

Ci sarà una linea rossa per i mondiali di calcio in Qatar?

È iniziato il Campionato mondiale di calcio. Il mio interesse è praticamente nullo, ma non perché siamo in autunno o perché si svolgono in Qatar: semplicemente, gli eventi sportivi non mi appassionano, indipendentemente dalla disciplina, dal livello e dal luogo in cui si svolgono.

Mi interessano un po’ di più gli aspetti matematici dello sport. Alla fine per decretare un vincitore bisogna contare qualcosa e non c’è un unico modo di contare. Quanti punti diamo alla squadra che vince rispetto a quella che pareggia o che perde? In testa al medagliere olimpico mettiamo chi ha più medaglie d’oro o chi ha più medaglie?

E poi ci sono gli aspetti etici. È indubbio che le risorse mediatiche ed economiche che la collettività dedica ai Mondiali (e a praticamente tutti gli eventi sportivi internazionali) potrebbero essere dedicate ad attività con maggiori benefici per l’umanità: non dico le scontate lotta alla povertà e ricerca scientifica, ma anche solo sostenere lo sport amatoriale con attrezzature sportive decenti per tutti.
Questi poi si svolgono in un Paese che, come riassume Il Post, “criticato per il suo stile di governo autoritario, per le enormi spese affrontate nell’organizzazione dell’evento, per lo sfruttamento dei lavoratori che si sono occupati delle costruzioni e per le violazioni dei diritti umani che avvengono al suo interno, tra le altre cose”.

È stato divertente leggere le giustificazioni di Gianni Infantino, presidente della FIFA: i Paesi occidentali non possono criticare il Qatar perché hanno fatto e fanno tutt’ora lo stesso se non peggio. Il che è anche vero, ma direi che è un motivo per criticare anche i Paesi occidentali, non per assolvere il Qatar. Va inoltre notato che Infantino ha un’idea molto ampia della responsabilità collettiva, visto che ha citati i misfatti europei degli ultimi tremila anni attribuendoli, evidentemente, anche alle associazioni per i diritti umani. A Infantino si potrebbe far notare che molto probabilmente tra le cose per cui l’Europa dovrà chiedere scura per i prossimi tremila anni ci saranno anche – per quanto non in cima alla lista – anche questi Mondiali in Qatar.

Rimane comunque aperta la questione di cosa sarebbe giusto fare con Paesi che non rispettano i diritti umani. Sanzioni che colpiscono soprattutto la popolazione? Escluderli da ogni relazione commerciale, culturale o sportiva? Collaborare cercando di migliorare almeno un po’ la situazione?

Sinceramente non lo so. Mi chiedo però se esista una linea rossa, qualcosa che porterebbe al boicottaggio di questi Mondiali da parte della FIFA o di qualche squadra. È un caso ipotetico, perché questo evento è organizzato dal Qatar per rifarsi un’immagine internazionale e quindi si guarderanno bene dal fare qualcosa di grosso, ma ugualmente: che cosa porterebbe una qualche Nazionale a dire “al diavolo i risultati, noi non giochiamo”?

Siamo arrivati a 8 miliardi di persone

A scuola avevo imparato che la popolazione mondiale ammontava a circa 6 miliardi di persone. Quel numero l’avevo memorizzato come un fatto, insieme alla velocità della luce, 300mila chilometri al secondo e alla circonferenza della Terra, 40mila chilometri.

Solo che mentre la velocità della luce è rimasta uguale e lo stesso vale per il diametro terrestre, la popolazione mondiale ha raggiunto senza che me ne accorgessi i 7 miliardi e ora, stando alle Nazioni Unite, siamo arrivati a 8 miliardi. Milione più milione meno, perché ovviamente si tratta di stime – nonostante per questioni comunicative le stesse Nazioni Unite si mettano a dare cifre precise all’unità.

Quella di tenere per buone informazioni non più aggiornate è citata dalla fondazione Gapminder come una delle cause di ignoranza sul mondo – insieme alla generalizzazione della nostra particolare esperienza e ai media che prediligono eventi sensazionali a mutamenti lenti – e quindi prendiamo un po’ di dati.

Our World in Data ha un interessante articolo sulla crescita della popolazione mondiale (è del 2013 con dati aggiornati al 2019) ricco di grafici e analisi.

Questa ad esempio è la popolazione nei vari Paesi:

Confesso che mi ha sorpreso vedere quanto piccola sia la Russia, pur sapendo che ha un territorio in buona parte non popolato.

Questa invece è la crescita della popolazione negli ultimi 12mila anni:

Eppure quello che questo grafico non mostra è che la crescita della popolazione sta rallentando. Dagli anni Sessanta, infatti, quella linea è un po’ meno ripida, anche se non si vede dal grafico. Se ci sono voluto 11 anni per passare da 7 a 8 miliardi di persone, ce ne vorranno 15 per arrivare a 9 miliardi e 21 anni per arrivare a 10 miliardi (questi ultimi dati, più aggiornati, provengono dalle Nazioni Unite che hanno un altro interessante sito dedicato alla crescita della popolazione).

Insomma, come affermano gli autori della ricerca di Our World in Data, “Si concluderanno due secoli di rapida crescita della popolazione“. Il concetto base è la transizione demografica, ovvero quel divario di tempo che separa il calo della mortalità dal calo della natalità. Insomma quel periodo in cui le persone vivono più a lungo ma fanno ancora tanti figli.
La popolazione mondiale dovrebbe quindi stabilizzarsi introno ai 10,4 miliardi di persone, o comunque non crescere più al ritmo di qualche milione di persone in più all’anno. Quello che resterà sarà una diversa piramide dell’età e anzi – per tornare alle conoscenze che vanno aggiornate – dovremmo trovare un altro nome per quel grafico che avrà più la forma di un panettone.

Quali saranno le conseguenze di tutto questo? Le Nazioni Unite sembrano presentare la cosa come una opportunità da cogliere. La cosa ha un senso: nei prossimi anni dovremmo avere un aumento della popolazione attiva. Certo, leggendo bene si capisce che la grande opportunità da cogliere è risolvere i problemi dovuti alla crescita: non tanto trovare le risorse per dieci miliardi di persone – ci dovremmo arrivare nel 2058, tra 36 anni – quanto i modi per ottenere quelle risorse in modo sostenibile.

Dollar Street, come scoprire le vite degli altri

Leggendo l’interessante libro di Tim Harford Dare i numeri – al quale avevo già accennato in un articolo sui rischi dello scetticismo indiscriminato – ho scoperto l’esistenza di Dollar Street.

È un’idea della fondazione svedese GapMinder che conoscevo già per il test con cui mette si mette in guardia da alcuni “errori sistematici” nella nostra percezione del mondo. Esempio: quale percentuale della popolazione mondiale vive in città con oltre 10 milioni di abitanti: 8, 28 o 48%? Le grandi città sono, appunto, grandi e attirano l’attenzione, portandoci a sovrastimare la loro importanza: meno di una persona su dieci vive in megalopoli.

Dollar Street si inserisce nella stessa idea: fornire informazioni corrette e facilmente comprensibili su come è fatto il mondo che non conosciamo direttamente, immaginando che tutta l’umanità viva in una lunga strada, con le abitazioni distribuite in base al reddito.

Possiamo filtrare i risultati per continente o stato e vedere come si distribuiscono le varie case lungo la strada; possiamo vedere la famiglia riunita, cosa usano per cucinare, dove dormono, gli animali domestici, giocattoli e spazzolini da denti.

È un progetto interessante: la metafora della strada mi pare molto efficace nel mettere insieme situazioni che, su scala globale, è difficile confrontare. I filtri, almeno quando ci sono sufficienti dati a disposizione, permettono di evidenziare aspetti che si conoscono ma magari si sottovalutano. L’India ha ad esempio abitazioni distribuite in tutta la lunghezza della strada, da famiglia che vivono con meno di 100 dollari al mese ad altre che hanno redditi superiori ai 5000 dollari.

Devo solo capire come usarlo concretamente, andando oltre la semplice curiosità iniziale. Forse dovrei cercare di costruirmi una prassi, tipo una ricerca specifica – per paese o continente, per reddito… – da fare una volta a settimana o al mese.

A me piaceva l’idea di una amnistia pandemica

Su The Atlantic Emily Oster propone una “amnistia pandemica e a me era sembrata un’idea interessante: andare avanti affrontando i problemi che adesso ci si presentano, evitando di gongolare per le cose dette che si sono rivelate corrette o di minimizzare e negare le cose dette che si sono rivelate sbagliate.

Magari avrei evitato il concetto di “amnistia” che – almeno in italiano, forse in inglese il termine ha un significato un po’ diverso – riguarda la punizione di reati, preferendo parole come riconciliazione o riparazione. E avrei insistito maggiormente sul fatto che “andare oltre” non significa dimenticare tutto quello che è stato detto o fatto, anzi: bisogna ricordare tutto ma senza cercare colpevoli o innocenti, ascoltando le ragioni dell’altro.

Seppure con queste perplessità, l’idea di questa amnistia mi piaceva. Uso il passato perché quell’articolo è stato criticato, e in maniera molto netta, in quanto tentativo di garantirsi una sorta di perdono per gli errori commessi senza doversene assumere la responsabilità. E queste critiche sono arrivate sia da chi considera necessarie le misure di contenimento dei contagi, sia da chi al contrario le vede come un abuso di autorità (vorrei evitare il ricorso a etichette come “chiusuristi e “aperturisti”). Non penso che la verità si trovi al centro di opposti estremismi: chi viene criticato da una parte e dall’altra talvolta ha semplicemente torto due volte. Tuttavia questa doppia accusa all’idea di amnistia mi convince che no, non è ancora tempo per andare oltre.

Norme sociali, leggi di natura e contrappasso

Un lungo articolo nel quale, partendo dagli scritti di Hans Kelsen, ragiono sull’origine comune delle norme sociali e delle leggi di natura e sul dualismo tra società e natura.

Premessa

Capita di scrivere di Antigone e, immersi in un contesto di norme giuridiche e morali, neanche ci si rende conto dell’ambiguità dell’espressione “legge naturale” che può indicare – come era il caso per Antigone – sia leggi che sono valide e giuste per natura (come la cosiddetta “regola aurea” del non fare agli altri quel che non vorresti venisse fatto a te) sia leggi che riguardano i fenomeni naturali (come “la velocità di caduta di un corpo non dipende dalla sua massa”).

Così il titolo “Le leggi naturali sono in realtà molto umane” è stato frainteso e l’equivoco si è concluso con un invito, da parte di Choam Goldberg, a riflettere se anche le leggi naturali – nel secondo significato, quello scientifico – possono essere costrutti sociali.

Società e natura: una ricerca sociologica

La stesura di questo articolo si è intersecata con la notizia della morte del filosofo e sociologo Bruno Latour che sosteneva proprio questo: la scienza è una costruzione sociale (ovviamente in una forma più raffinata di questo semplice riassunto). Ma non pensavo di scrivere di Latour, bensì del filosofo e giurista Hans Kelsen. E questo perché volevo approcciare il tema da un altro punto di vista: non tanto capire se le leggi di natura siano socialmente costruite ma da dove nasce l’idea di una legge di natura.

Ora, Hans Kelsen è il padre della dottrina pura del diritto, dove quel “pura” significa studiare il diritto lasciando perdere cose come l’etica, la politica, la storia, la sociologia e ragionare su cosa è, in generale, una norma giuridica. Il che comunque non significa etica, politica, storia o sociologia siano perdite di tempo. Infatti nel 1943 – dopo aver lasciato l’Europa per sfuggire al nazismo; per i dettagli consiglio caldamente di recuperare i suoi Scritti autobiografici (Diabasis 2008) – pubblicò un libro che di sottotitolo ha proprio Ricerca sociologica. Il titolo è invece Società e natura ed è un’opera che alcuni studiosi non sanno bene come inquadrare, all’interno del pensiero di Kelsen, e viene spesso ignorata, per quanto la tesi di fondo del libro trovi spazio anche nelle opere successive. È ad esempio riassunta nell’articolo Causalità e imputazione del 1950, pubblicato in appendice ai Lineamenti di dottrina pure del diritto. La traduzione italiana di Società e natura, fatta da Laura Fuá, temo sia esaurita; io ho una copia dell’edizione del 1992 pubblicata da Bollati Boringhieri.

Oggi è una lettura un po’ imbarazzante, per come descrive – peraltro senza indagini sul campo ma basandosi su resoconti – dei “popoli primitivi” caratterizzati fondamentalmente da uno scarso sviluppo mentale. Vero che siamo negli anni Quaranta (e le idee fondamentali del libro risalgono ad almeno un decennio prima, stando alla prefazione di Renato Treves), ben prima che studiosi come Claude Lévi-Strauss ci mostrassero la razionalità dei “selvaggi”, ma il punto non è accusare o assolvere Kelsen dall’accusa di occidentalismo, bensì chiederci se vale la pena, oggi, leggere un testo dall’impostazione così datata. La risposta è sì, ne vale la pena perché il ragionamento di Kelsen, al di là dei pregiudizi sui “popoli primitivi”, riguarda il dualismo tra società e natura.

Questo dualismo, nella forma dell’opposizione tra “essere” (natura) e “dover essere” (società) è uno degli elementi alla base della dottrina pura del diritto. Kelsen la presenta proprio con la differenza da cui siamo partiti, quella tra “le leggi naturali [che] sono proposizioni sul corso effettivo degli eventi” e “le regole giuridiche [che] sono prescrizioni per il comportamento degli uomini” (la citazione è da Teoria generale del diritto e dello Stato, ma il concetto lo si trova anche in altri testi). È bene precisare che il “dover essere” non caratterizza la società in generale ma solo quelle scienze normative – come la morale, il diritto e, almeno secondo Kelsen, anche la teologia – che non descrivono quello che le persone fanno, e che rientra nella dimensione dell’essere, ma quello che le persone dovrebbero fare: “non uccidere” non significa che le persone non uccidano, ma che non dovrebbero farlo (morale) o che quando lo fanno dovrebbero essere punite (diritto).

Le origini del dualismo tra natura e società

Da dove arriva questo dualismo tra natura e società, tra essere e dover essere?

“La differenza fra essere e dover essere non può essere ulteriormente spiegata: è un dato immediato della nostra coscienza” si legge nella Dottrina pura del diritto, ma questo non impedisce di indagare la genesi di questo concetto. Norme sociali e leggi di natura hanno infatti un’origine comune che Kelsen identifica nel principio del contrappasso (mantengo la traduzione usata in Società e natura, anche in omaggio agli studi di Kelsen sul pensiero politico di Dante, per quanto credo che oggi sarebbe più opportuno parlare di retribuzione).

Il contrappasso è la lex talionis, la legge del taglione, quella che vede una corrispondenza tra azione (illecita) e punizione, come se la seconda dovesse ristabilire un equilibrio rotto dalla prima. Il contrappasso non è la semplice reazione a una minaccia dovuta all’istinto di autoconservazione e neanche il pretendere di tornare alla situazione di partenza tramite una qualche riparazione del danno: è l’infliggere al colpevole un danno paragonabile a quello che lui ha inflitto a noi, fondamentalmente una vendetta regolata.

Per i “primitivi”, scrive Kelsen, il principio del contrappasso regola tutto, senza distinzioni tra realtà naturale e realtà sociale. Ogni evento si spiega in quanto ricompensa o punizione di un altro evento e non c’è punizione senza colpa o ricompensa senza merito. Non so se davvero non vi fosse alcuna differenza tra una frana e il vicino che ti tira una bastonata, ma l’idea di base mi sembra compatibile con gli studi sul pensiero magico e la psicologia popolare (quella che intuitivamente ci fa attribuire stati mentali alle altre persone e talvolta anche a oggetti). Cosa, che ovviamente non riguardano solo i “popoli primitivi” ma l’umanità in generale.

I primi filosofi e i primi sovrani

Poi nel mondo greco arrivarono i primi filosofi, non a caso oggi conosciuti come “naturalisti” perché appunto cercarono una spiegazione unitaria dei fenomeni naturali, qualcosa che andava quindi al di là del singolo evento. Ma – e questa è un aspetto molto interessante – tutto questo non accadde perché si stava capendo che le cose si comportano diversamente dalle persone. Per i primi naturalisti, scrive Kelsen, il carattere normativo della spiegazione era lo stesso di prima, la realtà sociale continuava a essere il modello dal quale partire per comprendere tutta la realtà:

Le piú antiche scuole filosofiche greche, a simiglianza del pensiero mitico dell’uomo primitivo, spiegarono la natura in base all’analogia con la società.

Che cosa era cambiato quindi tra il pensiero mitico e quello filosofico? A essere cambiata era la società, con un sovrano che accentrava il potere inclusa la giustizia, regolando il gioco di ricompense e vendette con delle norme generali.

La comunità che detiene il comando, lo Stato, offre il modello di quell’ordine che la filosofia trasferirà nell’universo.

Il singolo evento non viene ricondotto a un precedente evento del quale sarebbe la reazione (di ricompensa o di punizione), ma a una legge generale. È a questo punto, in cui abbiamo leggi e non più singoli contrappassi, che è possibile separare le leggi degli uomini da quelle di natura:

L’idea di una legge universale della natura, che in principio era semplice proiezione della legge dello Stato nel cosmo, si emancipa dal suo prototipo e acquista un significato del tutto indipendente. La legge dello Stato, o norma, da un canto, e la legge della natura, o legge di causalità, dall’altro, diventano due principi completamente diversi.

Si tratta ovviamente di un processo lento: il carattere normativo delle leggi di natura rimane determinante ancora per qualche secolo. Kelsen indica nell’atomismo di Leucippo e Democrito la nascita di un principio causale che non sia espressione di una volontà più o meno personale. Parliamo del passaggio da una legge naturale inviolabile perché “non è assolutamente possibile evitare la reazione a una eventuale disobbedienza” a una legge che diventa “l’espressione di una necessità obbiettiva impersonale”.

Una trasformazione simile avviene anche in ambito sociale. Qui il grande innovatore è Protagora che propose un’idea che ancora adesso si fatica ad accettare: non puniamo per ristabilire un equilibrio che il colpevole ha infranto, la pena non è retribuzione ma prevenzione:

La punizione non è inflitta per motivi misteriosi, bensì per scopi assai chiari. Nessuno punisce pel fatto e pel motivo della colpa, salvo chi lo fa irragionevolmente a sfogo di vendetta, come le bestie. Chi punisce ragionevolmente non punisce per il fatto passato – ciò che è avvenuto non si può fare che non sia avvenuto – ma per l’avvenire, affinché non pecchi piú né il colpevole né altri che lo veda punito. Con questo pensiero ammette che la virtú si possa insegnare; egli punisce per prevenire.

La scienza moderna e le sue cause

Possiamo concludere con Leucippo e Democrito la storia della separazione tra natura e società? Verrebbe da rispondere di sì: con la scienza moderna si capisce come studiare meglio la natura, ma l’idea di base resta quella di una causalità non determinata da una qualche forma di volontà.

Eppure Kelsen vede ancora un’ombra della vecchia concezione, un residuo del contrappasso: il concetto di causalità. In natura, osserva Kelsen, non esistono cause ed effetti ma quelle che lui chiama “dipendenze funzionali“, come quella che lega temperatura e pressione di un gas. Pensare che l’aumento di temperatura sia la causa dell’aumento della pressione significa applicare alla natura i concetti di colpa e punizione.

Il primo a intuirlo fu Hume, attribuendo l’impressione che un fenomeno ne causi un altro all’abitudine dell’osservatore (e Kelsen ipotizza di nuovo un’analogia con le leggi umane, in particolare il diritto consuetudinario). Poi arrivarono Kant, Ernst Mach e Werner Heisenberg ma il concetto di base è che non c’è una cosa che possa essere definita “causa” e una cosa “effetto” – a meno che non ci mettiamo di mezzo la volontà umana che desidera aumentare la pressione e quindi scalda il gas o, al contrario, desidera scaldare un gas e allora lo comprime.

Quando la causalità si emancipa dal contrappasso, e la legge di natura dalla norma sociale, la natura e la società appaiono come due sistemi completamente diversi. È possibile immaginare un sistema di norme che regolino la condotta umana e organizzino la società in un ordine completamente diverso dalle leggi della natura, senza ricorrere alla finzione del libero arbitrio e senza contraddire quindi al principio di causalità.