Una mucca e tre esperti

Ultimamente mi interessa il concetto di “esperto“.
Intuitivamente è una persona che ne sa più degli altri, ma ovviamente non è così semplice. Sapere che la dea Kālī ha quattro braccia non fa di me un esperto di religione indiana anche se le persone che mi circondano ignorano persino questa informazione – al massimo sarò “il più esperto” ma non “un esperto” in generale.

Un bel tema è “quale tipo di conoscenza è richiesta per essere esperti”. Qualche giorno fa ho fatto un piccolo esperimento con un sondaggio su Mastodon.
Immaginate di voler sapere quanto vive in generale una mucca. E di avere davanti a voi uno zoologo, un allevatore e un computer con accesso a internet. A chi vi rivolgete?

Abbiamo – supponendo che lo zoologo in questione non sia un entomologo – una persona con una conoscenza teorica dei bovini che si suppone abbia studiato la loro biologia ma che magari manca di alcune conoscenze pratiche; una persona con una conoscenza pratica – di nuovo immaginando che non sia un allevatore di api – ma che per quanto ne sappiamo potrebbe non aver mai studiato la biologia bovina; e una ricerca online, con la possibilità di imbattersi negli studi dei massimi esperti al mondo e il rischio di trovare informazioni di scarsa qualità.

Da notare che la domanda è probabilmente un po’ insolita ma relativamente sicura: non penso ci siano molte controversie sull’aspettativa di vita delle mucche, né a livello scientifico né a livello sociale. Ebbene, la conoscenza pratica batte sia quella teorica sia internet. Al sondaggio ha infatti risposto una sessantina di persone e per poco più della metà la persona migliore a cui chiedere è l’allevatore; oltre un terzo si rivolgerebbe allo zoologo e circa uno su dieci a Google.

Il sondaggio non va ovviamente preso troppo sul serio, sia per il campione poco rappresentativo sia perché per un’indagine seria bisognerebbe prendere in considerazione più scenari. Rimane il fatto che mi ha stupito vedere così poche persone scegliere il computer collegato a internet. Se questo dato è affidabile, significa che cerchiamo informazioni su Google perché in quel momento non abbiamo alternative migliori. Del resto non ci capita spesso di aver di fronte a noi esperti, mentre un dispositivo connesso bene o malo lo abbiamo tutti, in tasca.

Il quarto incomodo

Avevo dato per scontato che il computer con accesso a internet sarebbe stato usato per una ricerca su Google o per accedere a una fonte ritenuta affidabile. Ad esempio Wikipedia in inglese riporta che “Breeding stock may be allowed a longer lifespan, occasionally living as long as 25 years”.

Non avevo pensato a ChatGPT. Che nel mio caso risponde così:

In media, una mucca vive tra i 15 e i 20 anni. Tuttavia, la durata della vita di una mucca può variare a seconda di diversi fattori, tra cui il suo scopo (latticino o da carne), le condizioni di allevamento, la salute generale dell’animale e la gestione delle sue cure.

Le mucche destinate alla produzione di latte possono vivere generalmente più a lungo rispetto a quelle destinate alla produzione di carne, in quanto vengono mantenute in allevamenti specializzati e ricevono cure veterinarie regolari. Alcune mucche lattifere possono anche superare i 20 anni, anche se questo è meno comune.

Nel caso delle mucche da carne, il periodo di vita è spesso inferiore a causa dell’intensità dell’allevamento per la produzione di carne. Tuttavia, è importante notare che l’età di macellazione delle mucche varia in base alle pratiche culturali e alle normative locali.

Ricorda che queste sono solo stime generali e che la durata della vita di una mucca dipende da molti fattori individuali e ambientali.

L’effetto Ikea della (dis)informazione

Sto facendo delle ricerche sulle ricerche fai da te – quelle che chi fa controinformazione invita a fare con lo slogan “do your own research” sui vaccini, la crisi climatica, la guerra in Ucraina, l’allunaggio, gli attentati dell’11 settembre eccetera.

Fare ricerche per conto proprio non è di per sé sbagliato. Anzi direi che è una cosa buona e giusta, se non altro per comprendere meglio un determinato argomento. Ma sulle opportunità delle ricerche fai da te – se fatte bene – scriverò poi; qui mi soffermo sui rischi. Di solito si cita l’effetto Dunning-Kruger, quello per cui meno si è esperti più si è sicuri di sé. Ma sulle interpretazioni si impone qualche cautela.

Qui parlo di un altro effetto: l’effetto Ikea cognitivo.

L’uovo e la torta

Iniziamo dall’effetto Ikea classico. Si tratta della tendenza ad attribuire maggior valore ai prodotti assemblati o costruiti dal consumatore come appunto i mobili venduti dall’azienda svedese. A dare il nome a questo effetto sono stati, in un articolo del 2011, Michael Norton, Daniel Mochon e Dan Ariely. Il fenomeno era comunque già noto sia all’interno della psicologia sociale – si tratterebbe di un caso di “giustificazione dello sforzo” indagato da Leon Festinger nei suoi lavori sulla dissonanza cognitiva –, sia dal marketing. Gli autori citano il caso degli impasti preconfezionati per torte. Quando iniziarono a diffondersi negli anni Cinquanta del Novecento incontrarono la diffidenza dei consumatori, diffidenza superata modificando l’impasto e richiedendo l’aggiunta di un uovo. Secondo gli autori il lavoro costituito dall’aggiunta di quest’uovo, per quanto minimo, avrebbe aumentato il valore percepito della torta da parte dei consumatori.

Norton, Mochon e Ariely hanno misurato questo effetto con una serie di esperimenti. Chi fa uno sforzo per produrre alcuni oggetti – nel loro caso un mobile Ikea, un origami e un set lego – non solo attribuisce loro un valore maggiore rispetto a prodotti analoghi realizzati con maggior perizia da professionisti, ma si aspetta anche che altre persone li valutino maggiormente. Siamo disposti a spendere di più per un oggetto che abbiamo in parte realizzato. E ci aspettiamo anche che altre persone siano disposte a pagare di più per qualcosa fatto da noi anziché da un professionista.

Nel primo caso possiamo immaginare una sorta di valore affettivo dovuto al lavoro svolto, o ai vantaggi di una possibile personalizzazione (però l’effetto è stato rilevato anche con oggetti standard valutati unicamente per la loro funzionalità). Nel secondo caso siamo di fronte a un bias, una distorsione nel nostro modo di ragionare. Un bias che può essere sfruttato aumentando surrettiziamente il valore percepito dei beni venduti prevedendo un semplice lavoro da parte del consumatore. Come nel caso dell’uovo da aggiungere alla miscela per torte. Il lavoro richiesto deve essere sufficientemente elaborato da giustificare l’idea di aver contribuito a realizzare il prodotto – cosa che evidentemente non avveniva quando la miscela per torte era già pronta per il forno – ma sufficientemente semplice da garantire la realizzazione del prodotto. L’effetto Ikea, infatti, non si presenta quando il lavoro fai da te non va a buon fine (o quando il prodotto viene smontato).

Meglio degli esperti

È possibile che esista un effetto Ikea cognitivo che riguarda, invece di mobili e origami, i risultati di una ricerca fai da te? Lo scienziato cognitivo Tom Stafford pensa di sì e il filosofo Justin Tiehen sostiene che non sia una cosa così negativa. Sono portato a dargli ragione: indagare autonomamente un argomento anziché dare il proprio assenso a informazioni preconfezionate presenta il vantaggio di una maggiore comprensione.
Può quindi essere razionale attribuire un maggior valore epistemico alle informazioni ottenute tramite indagine. Tuttavia l’effetto Ikea non riguarda unicamente la valutazione da parte del soggetto, ma anche quella di altre persone. L’effetto Ikea cognitivo porta quindi una persona comune a pensare che le proprie conclusioni siano più affidabili più di quelle di un esperto. In qualche caso sarà anche vero (si dice che un esperto è uno che ha fatto tutti gli errori possibili nel suo campo), ma in generale è la ricetta perfetta per sbagliare.

La sociologa Francesca Tripodi, nel suo interessante The Propagandists’ Playbook. How Conservative Elites Manipulate Search and Threaten Democracy, approfondisce la similitudine tra i mobili Ikea e le conclusioni delle ricerche fai da te. In entrambi i casi il risultato dipende in minima parte dalle abilità del soggetto che di fatto si limita a eseguire semplici compiti indicati da qualcun altro:

But if conservative messaging is like a new table from Ikea, conservative elites are the engineers that design the furniture – making sure that the table goes together only one way, and with just the right amount of effort to give that perfectly satisfied feeling to the consumer (and encourage them to shop again soon).

Per i prodotti Ikea questo controllo sul risultato si basa su pezzi standard e istruzioni il più chiare e semplici possibili. Per la controinformazione invece tutto passa attraverso i motori di ricerca, sfruttando parole chiave poco usate e che vengono suggerite da chi invita a fare ricerche fai da te.

L’ultima parola della scienza

L’ultima parola su ciò che sappiamo certamente su [tema oggetto di disinformazione] la lasciamo alla scienza. A lui.

Valentia Petrini, Non chiamatele fake news, Chiarelettere 2020

Sto leggendo un po’ di libri sulle “fake news”, e tra di questi c’è anche quello della giornalista Valentina Petrini. Dal punto di vista teorico è relativamente povero, ma è un’interessante testimonianza di come una giornalista che crede nel valore dei fatti affronti professionalmente e personalmente la disinformazione e la polarizzazione. Insomma, non ci si sofferma più di tanto su cosa siano le fake news, sulle differenze rispetto a fenomeni antichi come la propaganda, sui meccanismi di diffusione e sugli effettivi effetti, ma almeno non ci si limita a dare la colpa ai social media dal momento che, si legge a un certo punto, “la lotta contro la disinformazione sarebbe monca se non allargassimo il dibattito a tutta la macchina dell’informazione”.

Tuttavia è un altro il passaggio che più mi ha colpito, purtroppo in negativo, ed è quello che troviamo citato all’inizio di questo testo e che introduce l’intervista a un esperto. Ho omesso sia il nome dell’esperto, sia il tema di cui si discute perché mi interessa il modo di ragionare, non il caso specifico che potrebbe essere l’efficacia dei vaccini, il riscaldamento globale, le scie chimiche, l’assassinio di Kennedy o lo sbarco sulla Luna.

Abbiamo un esperto del tema e certamente quello che dice è importante e merita, nel dibattito pubblico, uno spazio diverso da quello di una persona con minori competenze sul tema. Certo, qui sarebbe importante capire come, immaginando di essere a nostra volta persone “con minori competenze sul tema”, possiamo valutare le competenze di un esperto o meglio ancora di due esperti o sedicenti tali che si contraddicono.

Il problema è tuttavia un altro: Valentina Petrini introduce l’intervista con le parole citate all’inizio. “L’ultima parola su ciò che sappiamo certamente […] la lasciamo alla scienza. A lui”. Perché queste parole non mi convincono? Di per sé si dice semplicemente la scelta di chiudere il capitolo con alcuni punti fermi sostenuti da un ricercatore esperto del tema. Tuttavia le parole sono secondo me sbagliate. L’ultima parola: dopo non c’è più spazio neanche per domande? Sappiamo certamente: di che tipo di certezza stiamo parlando? È certo come è certo che 2+2=4, come il fatto che la Terra è rotonda, come è certo che se mangio cibo grasso mi verrà un infarto? La scienza: esiste una cosa che possiamo definire “la scienza”, e parlare come tale, o abbiamo una pluralità di discipline e ricercatori?

L’esperto poi fa bene il suo lavoro di esperto: riassume quello che si sa, nota che al momento c’è un’ipotesi accettata da quasi tutti (e si capisce che la certezza è in realtà limitata) e che chi sostiene altre tesi non ha prove solide o addirittura porta prove false. Capisco che di fronte a corbellerie e dibattiti sterili si sia tentati di presentarla come “l’ultima parola della scienza”, ma forse è una tentazione alla quale varrebbe la pena resistere.

Fiducia a 5G

Antenna telefonia mobile

Premessa 1.
A me, personalmente, del 5G frega poco: col mio attuale ritmo di adozione delle nuove tecnologie, avrò un dispositivo in grado di supportare questa tecnologia non prima di un paio d’anni e, in ogni caso, per il mio utilizzo abituale della rete le velocità attuali sono più che sufficienti. Che un film si scarichi in venti minuti o in venti secondi a me cambia poco: sempre due ore ci metto, a guardarlo.
Sono poi certo che sia una tecnologia importante dalle applicazioni utili e interessanti, delle quali certamente usufruirò anch’io – per quanto, almeno all’inizio, indirettamente.

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Di birre, vaccini e razionalità

Nelle discussioni da bar si affronta sempre un gran numero di argomenti. E così, davanti a una birra, una camomilla e un’acqua minerale – no, non ero io quello della camomilla –, dopo aver parlato di politiche fiscali, organizzazione interna di partiti, educazione religiosa e influenza della filosofia aristotelica nella teoria della transustanziazione, si è fatto accenno anche ai vaccini. Sui quali, ha argomentato il mio interlocutore, “ci sono certezze che non lasciano spazio alla discussione”. Continua a leggere “Di birre, vaccini e razionalità”