Forse abbiamo un problema con la teoria della ‘spinta gentile’

La prima volta che ho sentito parlare di nudge o spinta gentile era il 2009; si tratta di uno strumento che, grosso modo, prende gli studi di psicologia cognitiva e li applica per sviluppare dei “suggerimenti” (dai piatti più piccoli per mangiare meno a come vengono presentate le informazioni) che indirizzano le persone verso la scelta più razionale.

Una bella idea, che almeno sulla carta permette di influenzare il comportamento delle persone lasciando loro la libertà di scegliere, e infatti in questi anni i nudge hanno avuto larga diffusione, sia a livello di ricerca accademica sia di applicazione.

Tuttavia il gigante rischia di avere i piedi di argilla e curiosamente per un problema legato proprio ai bias cognitivi che i nudge vorrebbero sfruttare: negli studi c’è infatti un forte publication bias, in pratica la tendenza a privilegiare i risultati positivi e scartare quelli negativi. Se fai una ricerca e scopri che un nudge non funziona, il tuo lavoro resta nel cassetto; se invece scopri che il nudge funziona, l’articolo viene pubblicato e quando si passano in rassegna le varie ricerche pubblicate, i risultati positivi superano quelli negativi.

Questo publication bias c’è; meno chiaro quanto sia importante. Gli autori di una meta-analisi pubblicata su PNAS concludono che anche tenendone conto gli effetti positivi ci sono. Di diverso avviso gli autori di una lettera, pubblicata sempre su PNAS, secondo i quali se si tiene conto del bias di pubblicazione non ci sono prove che i nudge siano effettivamente in grado di influenzare il comportamento delle persone (“After correcting for this bias, no evidence remains that nudges are effective as tools for behaviour change”), anche se con importanti differenze nei vari campi di applicazione, lasciando pensare che per alcune cose i nudge funzionino bene, per altre meno bene e per altre ancora non funzionino affatto.

La discussione prosegue; altri hanno sollevato critiche e gli autori della meta-analisi hanno risposto. Dubito che alla fine tutta la teoria dei nudge si rivelerà essere pseudoscientifica, ma non mi stupirebbe scoprire che una parte importante è da ignorare.

Al di là di come andrà a finire, mi sento di concludere che fanno bene i filosofi della scienza fallibilisti a considerare ogni teoria scientifica “provvisoriamente vera”.

Il picchio che ammortizza i colpi e altri miti scientifici

selective focus photo of downy woodpecker on tree trunk
Photo by Dariusz Grosa on Pexels.com

Scopro grazie al giornalista scientifico Ed Yong che la testa dei picchi non si è evoluta per ammortizzare i colpi, come ero convinto fino a pochi minuti fa – per averlo letto in migliaia di occasioni, anche in contesti scientifici.

Del resto, come nell’articolo spiega il biologo Sam Van Wassenbergh dell’Università di Antwerp, se il tuo obiettivo è colpire il legno con forza, dissipare l’energia cinetica non ha molto senso: sarebbe come mettere un cuscino sopra un martello.

Yong è un ottimo giornalista e non si limita a smentire questo mito scientifico (o, come li definisce lui, “fattoide”) e citarne altri sul regno animale e va più in dettaglio. Come è nato il mito della testa del picchio che assorbe i colpi? Due spiegazioni: si sono fatte molte supposizioni ma pochi test; si è ragionato da umani la cui prima preoccupazione, in una situazione del genere, sarebbe indossare un casco che eviti commozioni cerebrali (un bel caso di antropocentrismo). Solo che i picchi evitano la commozione cerebrale grazie a un sistema molto semplice: hanno un cervello piccolo.

Come giustificare i lockdown (quando la pandemia era un mistero)

La stazione di Liverpool Street a Londra nell’aprile del 2020 (foto di Ben Garratt/Unsplash)

Mi sono imbattuto in un articolo pubblicato su ‘Philosophy of Medicine’ che è sostanzialmente una difesa delle decisioni prese dal governo britannico durante i primi mesi della pandemia di Covid-19. In particolare gli autori – Lucie White, Philippe van Basshuysen e Mathias Frisch – si soffermano su quelli che vengono definiti i ‘lockdowns’ al plurale, cioè tutte le limitazioni – dagli assembramenti alla chiusura di scuole e luoghi di lavoro – che mirano a ridurre i contatti tra le persone, che si applicano a tutta la popolazione e che prevedono sanzioni per chi non le rispetta.

Non ho trovato quando l’articolo è stato presentato alla rivista, ma è una sfortunata coincidenza che la pubblicazione – datata 28 aprile 2022 – sia arrivata nel periodo dello scandalo per le feste natalizie organizzate dal primo ministro Boris Johnson proprio in violazione di quelle restrizioni (uno dei tanti scandali che lo hanno portato a dimettersi). Sfortunata perché, come spesso capita per questo tipo di analisi, più che le conclusioni è interessante il ragionamento che ha portato gli autori ad affermare che sì, in base alle informazioni disponibili in quel momento la scelta di limitare le libertà personali era giustificata.

L’articolo merita una lettura, ma grosso modo i punti affrontati sono due: come giustificare decisioni prese in situazioni di forte incertezza; il ruolo dei modelli epidemiologici che si sono dimostrati errati.

Una corsa a ostacoli al buio

Sul primo punto: adesso, dopo due anni e qualcosa di pandemia, è relativamente facile prendere decisioni visto che bene o male siamo in grado di valutare sia gli effetti della malattia (con giusto qualche incognita in più per le nuove varianti) sia l’impatto delle misure di contrasto, dove con “impatto delle misure di contrasto” intendo sia la riduzione di contagi, sia i costi sociali ed economici. Poi bilanciare tutti questi fattori è un compito – peraltro politico, non scientifico – tutt’altro che facile, ma almeno è una corsa a ostacoli nella quale gli ostacoli li vediamo mentre nei primi mesi si correva al buio.

Ora, visto che al buio non si sa neanche se l’ostacolo c’è, è giusto imporre agli altri di fermarsi o saltare? Uscendo dalla metafora della corsa al buio – che è mia, non degli autori dell’articolo – è giusto limitare la libertà delle persone su basi così incerte? La risposta degli autori, come detto, è “sì”, ma con una serie di precisazioni interessanti:

  • la decisione di adottare le restrizioni anche in situazione di forte incertezza non può essere una scusa per smettere di fare ricerca e cercare di ridurre questa incertezza (adattando i provvedimenti in base all’evolversi delle conoscenze e passando quando possibile a misure meno invasive ma altrettanto efficaci).
  • Una parte non trascurabile dei costi sociali ed economici delle restrizioni si sarebbe avuta anche “lasciando correre” la pandemia, il che porta a considerare le restrizioni il “male minore”.
  • Indizi sia della particolare gravità delle conseguenze di una pandemia incontrollata, soprattutto per quanto riguarda la tenuta del sistema sanitario, sia dell’importanza dei tempi per l’efficacia delle restrizioni: ritardare anche solo di qualche settimana le misure, aspettando “di saperne di più”, avrebbe potuto rendere la situazione ingestibile.

È soprattutto l’urgenza che, secondo gli autori, può portare a quello che definiscono “un allentamento degli standard epistemici necessari a giustificare interventi regolatori”:

Although estimations of the magnitude and nature of harm were, in the early months of the pandemic, based only on emerging and uncertain evidence, the necessity of provisions for acting quickly where potential harm is imminent should lead us to relax the epistemic standards to which we normally hold policymakers when there is time for further evidence gathering and extensive deliberation. (p.12)

Accettare il rischio‌

C’è poi tutta la questione del “principio del danno” che in ottica liberale costituisce l’unica giustificazione per proibire qualcosa. Il principio del danno è facile da applicare con i “danni tradizionali”, tipo Tizio che ferisce/deruba/incatena Caio. Ma qui abbiamo a che fare con un rischio, un danno che potrebbe anche non esserci e che anzi – parliamo restrizioni che riguardano tutta la popolazione, non solo le persone contagiate e contagiose come l’isolamento per i positivi – è molto probabile che non si verificherà. Non parliamo del caso estremo, per quanto non di fantasia, di una persona che sa di essere positiva e contagiosa e se ne va in giro a tossire addosso alle persone, ma di impedire a tutti di fare acquisti non essenziali, di andare al ristorante eccetera.

Alcuni rischi sono considerati socialmente accettabili e ce li teniamo così come sono; altri sono socialmente inaccettabili e riteniamo opportuno intervenire. Il rischio di essere vittime di incidenti stradali è un buon esempio di entrambi, dal momento che la circolazione delle auto è limitata e regolata, ma non proibita del tutto: accettiamo il rischio rappresentato da un guidatore sobrio, non quello rappresentato da un guidatore ubriaco che viene punito anche se non ha causato incidenti.

Perché alcuni rischi sono considerati accettabili e altri no? Dipende certamente da quanto è grave e probabile il danno potenziale, ma seguendo il teorico del rischio Sven Ove Hansson (di cui ignoravo l’esistenza prima di leggere questo articolo), gli autori introducono un altro criterio. Un rischio è accettabile se rientra in un sistema equo che va a vantaggio di tutti – e le persone fragili, maggiormente a rischio di ammalarsi gravemente, sarebbero escluse da questo sistema equo.

Suona bene, ma poi provo ad applicare questo principio alle automobili: forse ho capito male io, ma chi non guida non trae alcun beneficio, dalla circolazione delle auto per cui il rischio di incidenti anche da guidatori sobri potrebbe essere giudicato socialmente inaccettabile; viceversa, ogni guidatore può beneficiare del fatto di poter guidare anche dopo aver bevuto, per cui potremmo dire che il rischio di incidenti per alcol sia socialmente accettabile. Insomma, l’argomento non mi convince per nulla e sospetto che l’accettabilità sociale di un rischio sia semplicemente il frutto di una (tacita) negoziazione tra persone. Un accordo che necessariamente basato su valutazioni razionali ma anche su cose come l’abitudine.

Del resto questo ragionamento sembra convincere poco anche gli autori dell’articolo, visto che ritornano sulla pericolosità della pandemia non solo per la singola persona contagiata, ma per la collettività che rischia di trovarsi con un sistema sanitario sovraccarico. Questo del rischio rimane comunque uno dei punti deboli del ragionamento.

Il modello sbagliato

Ultimo punto, quello sui modelli epidemiologici che, valutati con il senno di poi – ovvero che l’effettivo andamento della pandemia – sono stati un disastro, anche tenendo conto che ogni modelli è per sua natura una semplificazione (se un modello non fosse significativamente più semplice da maneggiare della realtà, studieremmo direttamente la realtà).

Tuttavia forse il problema non sta nei modelli, ma in quello che ci vogliamo fare, insomma il ruolo che dovrebbero avere nel processo decisionale. Secondo gli autori un modello può essere usato per avere una previsione, che dovrebbe essere qualcosa che ci dice come effettivamente andranno le cose in futuro, e per avere una proiezione, che dovrebbe invece dirci come potrebbero andare le cose partendo da alcune condizioni iniziali che magari sappiamo già in partenza essere false (come le persone che, indipendentemente da eventuali restrizioni e raccomandazioni, non cambiano abitudini durante una pandemia). Ne risulta che confrontare il modello con la realtà ha senso per le previsioni, non per le proiezioni (che però a questo punto non è chiaro come vengano valutati e migliorati).

Qual è l’utilità delle proiezioni?

This projection functions as a counterfactual limiting case of the death toll under a completely uncontained spread of the virus—an unrealistic limiting case, as all parties agree, but one that may nevertheless play a role in anchoring our perceptions of the severity of the threat posed by the virus.

Una proiezione non descrive come andranno le cose, forse neanche come potrebbero andare ma fornisce ugualmente informazioni utili per una comprensione qualitativa del fenomeno. Il che potrebbe anche essere interpretato come una maniera gentile di “servono a spaventare i decisori politici e la popolazione”; interpretazione che non condivido ma che devo ammettere essere coerente con l’impiego che è stato fatto di alcune di queste proiezioni.

L’ultima parola della scienza

L’ultima parola su ciò che sappiamo certamente su [tema oggetto di disinformazione] la lasciamo alla scienza. A lui.

Valentia Petrini, Non chiamatele fake news, Chiarelettere 2020

Sto leggendo un po’ di libri sulle “fake news”, e tra di questi c’è anche quello della giornalista Valentina Petrini. Dal punto di vista teorico è relativamente povero, ma è un’interessante testimonianza di come una giornalista che crede nel valore dei fatti affronti professionalmente e personalmente la disinformazione e la polarizzazione. Insomma, non ci si sofferma più di tanto su cosa siano le fake news, sulle differenze rispetto a fenomeni antichi come la propaganda, sui meccanismi di diffusione e sugli effettivi effetti, ma almeno non ci si limita a dare la colpa ai social media dal momento che, si legge a un certo punto, “la lotta contro la disinformazione sarebbe monca se non allargassimo il dibattito a tutta la macchina dell’informazione”.

Tuttavia è un altro il passaggio che più mi ha colpito, purtroppo in negativo, ed è quello che troviamo citato all’inizio di questo testo e che introduce l’intervista a un esperto. Ho omesso sia il nome dell’esperto, sia il tema di cui si discute perché mi interessa il modo di ragionare, non il caso specifico che potrebbe essere l’efficacia dei vaccini, il riscaldamento globale, le scie chimiche, l’assassinio di Kennedy o lo sbarco sulla Luna.

Abbiamo un esperto del tema e certamente quello che dice è importante e merita, nel dibattito pubblico, uno spazio diverso da quello di una persona con minori competenze sul tema. Certo, qui sarebbe importante capire come, immaginando di essere a nostra volta persone “con minori competenze sul tema”, possiamo valutare le competenze di un esperto o meglio ancora di due esperti o sedicenti tali che si contraddicono.

Il problema è tuttavia un altro: Valentina Petrini introduce l’intervista con le parole citate all’inizio. “L’ultima parola su ciò che sappiamo certamente […] la lasciamo alla scienza. A lui”. Perché queste parole non mi convincono? Di per sé si dice semplicemente la scelta di chiudere il capitolo con alcuni punti fermi sostenuti da un ricercatore esperto del tema. Tuttavia le parole sono secondo me sbagliate. L’ultima parola: dopo non c’è più spazio neanche per domande? Sappiamo certamente: di che tipo di certezza stiamo parlando? È certo come è certo che 2+2=4, come il fatto che la Terra è rotonda, come è certo che se mangio cibo grasso mi verrà un infarto? La scienza: esiste una cosa che possiamo definire “la scienza”, e parlare come tale, o abbiamo una pluralità di discipline e ricercatori?

L’esperto poi fa bene il suo lavoro di esperto: riassume quello che si sa, nota che al momento c’è un’ipotesi accettata da quasi tutti (e si capisce che la certezza è in realtà limitata) e che chi sostiene altre tesi non ha prove solide o addirittura porta prove false. Capisco che di fronte a corbellerie e dibattiti sterili si sia tentati di presentarla come “l’ultima parola della scienza”, ma forse è una tentazione alla quale varrebbe la pena resistere.

Piccolo promemoria su chi fidarsi in questa emergenza sanitaria

Mascherine, mascherine fai da te, disinfettanti, distanze sociali, antinfiammatori, vitamina C, aglio… e sono solo alcune delle notizie che circolano in questi giorni su come difendersi dal virus SARS-CoV-2, il nuovo coronavirus.

Ora: sono un filosofo di formazione e un giornalista di professione. Il che vuol dire non fidatevi di me su questioni medico-sanitarie, perché non sono esperto di queste cose e mi limito a ripetere cose che ho sentito da fonti – queste sì – che ritengo affidabili.

Ecco: di chi avere fiducia? Su questo tema un po’ di competenza l’ho, quindi posso dare qualche consiglio secondo me sensato. Insomma: non so valutare l’informazione “le mascherine servono solo se siete ammalati o se assistete un malato”, ma so valutare l’affidabilità di chi lo dice. Poi certo: anche le persone affidabili possono dire cose non vere (perché si sbagliano) e persone non affidabili possono dire cose non false (per caso) ma, appunto, non lo sappiamo, per cui dobbiamo basarci sulla fiducia.

Dunque, di chi fidarci?
Purtroppo è più un’arte che una scienza, ma ecco alcuni indizi, alcuni punti da tenere presenti.

Continua a leggere “Piccolo promemoria su chi fidarsi in questa emergenza sanitaria”

Terra piatta, cervello fino

Mappa della Terra piatta di Orlando Ferguson (1893)

Alan Burdick è andato, per il New Yorker, a un convegno di terrapiattisti, incontrando quelle “persona normali con uno sguardo anormale” (è la definizione di uno degli orati del convegno).

Un reportage molto interessante, che vale la pena leggere con attenzione per capire il (relativo) successo di una simile convinzione.

Interessante scoprire che, a fianco dei cospirazionisti convinti – ci ingannano su 11 settembre, vaccini, sbarco sulla Luna, perché dovrebbero dirci la verità sulla forma della Terra? – e dei religiosi che prendono alla lettera la Bibbia, ci sono gli “scientifici”, quelli che non si fidano della versione ufficiale e vogliono fare gli esperimenti, verificare questa teoria, scoprendo così il grande imbroglio.

Credo sia importante capire come mai delle persone attente e curiose, alcune delle quali si cimentano in esperimenti anche ingegnosi,1 arrivano a rifiutare una delle più longeve verità scientifiche che abbiamo. Come mai queste persone, che potrebbero essere non dico ricercatori professionisti ma quantomeno appassionati di scienza, sono arrivati lì, ad applaudire una che dice che “la scienza è una scusa per essere stupidi”?2

  1. Ingegnosità che non esclude l’ingenuità, ovviamente. []
  2. “Science is really an excuse for people to be stupid”. Affermazione peraltro non del tutto disprezzabile, visto che la scienza permette di conoscere cose che mai uno avrebbe scoperto da solo, ma chiaramente non era questo il senso dell’affermazione della terrapiattista. []

Contro il metodo scientifico

Commentando su Facebook l’articolo precedente su Gabriella Mereu, qualcuno ha lamentato la mancanza di una “comprensione anche solo intuitiva del metodo scientifico”.

Dissento. O meglio, in generale non dissento affatto: indubbiamente la conoscenza dei metodi utilizzati nelle varie discipline scientifiche, dalla fisica alla psicologia, è cosa buona e giusta. Continua a leggere “Contro il metodo scientifico”

Alla fine non è cambiato niente

Ho scritto un articolo su Gabriella Mereu, la guaritrice – forse dovrei chiamarla dottoressa, dal momento che, avendo presentato ricorso, risulta ancora risulta iscritta all’ordine dei medici – che alla medicina preferisce quella che chiama terapia verbale, convinta – potrei sbagliarmi, ma secondo me lei crede davvero in quello che dice, e quindi non è una truffatrice, il che ovviamente non la rende meno pericolosa – convinta, dicevo, che le malattie siano tutte questioni di testa, e che ad esempio gli epilettici siano in realtà degli esibizionisti. Continua a leggere “Alla fine non è cambiato niente”

Tette contro la scienza

Breastfeeding_baby
By Irene – original work, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=17002318

Potrei iniziare citando Agostino d’Ippona, ma meglio invece mettere in chiaro che nessuno, qui, è contrario all’allattamento, né io né le due autrici di “Unintended Consequences of Invoking the ‘Natural’ in Breastfeeding Promotion“, Jessica Martucci e Anne Barnhill.

Certo, sembra che i benefici effettivi e “scientificamente dimostrati” siano esagerati (le due autrici citano in proposito questo articolo) e l’esaltazione dell’allattamento può portare a uno stigma sociale verso le donne che non vogliono o non possono allattare, ma non è questo il punto. Semplicemente, le due autrici invitano le autorità a non far più propaganda insistendo sul fatto che l’allattamento sia naturale.
Confesso di aver scosso la testa la prima volta che ho letto questa proposta, segnalata da qualcuno su qualche social network. Dopotutto, se c’è qualcosa che ha senso chiamare naturale, oltre naturalmente all’acqua minerale senza gas, è proprio l’allattamento. Poi ho letto il loro articolo e ho cambiato idea.

Continua a leggere “Tette contro la scienza”

Per me è arabo

Ludwig Wittgenstein, 1946 circa: (Dalle Osservazioni sulla filosofia della psicologia; grassetto mio, corsivo dell’autore.))

31. L’espressione del vissuto è: «Questo lo vedo ora come piramide, ora come quadrato con le diagonali».
Schermata 2016-03-02 alle 09.47.04[…]

33. Qui sembra che si modifichi qualcosa nell’immagine ottica; e invece, di nuovo, non si modifica niente. E io non posso dire: «Continuano a venirmi in mente nuove interpretazioni». In effetti è proprio così, ma ciascuna di queste interpretazioni si incarna anche, immediatamente, in ciò che vedo. Mi colpiscono aspetti sempre nuovi di quel disegno – che pure, a quanto vedo, resta identico. È come se lo si rivestisse di abiti sempre nuovi, e tuttavia ciascun abito fosse uguale al precedente.
Si potrebbe anche dire: «La figura non soltanto la interpreto, addirittura la riverso di questa interpretazione».

Robert Wiley, ricercatore del dipartimento di Scienze cognitive della Johns Hopkins University, 2016:

When you become an expert in reading an alphabet, what does that change? Does your visual system see the same thing as a beginner? We say no. If you’re an expert, things that look complex to a novice look simple to you.

No, questo non è il commento di un filosofo stizzito che dice agli scienziati “l’avevamo già capito da sessant’anni”, anche perché quelle osservazioni lì di Wittgenstein devono molto alla psicologia della Gestalt.
L’idea è, al contrario, mostrare che scienza e filosofia sono, o meglio possono essere, tutt’altro che in contrasto.

La citazione di Wiley proviene dal comunicato stampa di una ricerca che non ho letto ma che viene presentata con il titolo pomposo di “Quello che conosci può influenzare quello che vedi”.
La ricerca, il cui senior author è la professoressa Brenda Rapp, riguarda come esperti e non esperti di arabo vedono le varie lettere, studiando in quanto tempo i soggetti stabilivano se due segni erano uguali o diversi. L’idea è che più tempo una persona ci mette, più le due lettere sono simili, e così hanno tracciato questi due diagrammi:

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Da notare che la differenza tra interpretare (che è una azione) e vedere (che è uno stato) – al centro delle riflessioni di Wittgenstein – agli scienziati non sembra interessare granché, assumendo che il compito di distinguere velocemente due segni sia vedere e non interpretare.
Non dico che sia un problema o un limite della ricerca scientifica, probabilmente è solo dovuto al fatto che il concetto di vedere ha significati diversi nella “fenomenologia grammaticale” di Wittgenstein e nei laboratori di scienze cognitive.