E se la pandemia non fosse solo un’emergenza sanitaria?

Riflessione assolutamente inutile, visto il momento in cui ci troviamo. Ma tant’è: nella mia posizione, non è che possa fare molto altro; e se ormai con questa pandemia è tardi per rimediare, magari con la prossima andrà meglio. Quindi, mi chiedo: e se avessimo sbagliato fin dall’inizio a raccontare la pandemia come un problema sanitario?

Perché certo, abbiamo a che fare con un virus che – in ordine decrescente di probabilità – ti contagia, ti fa ammalare, ti uccide. Indubbiamente la nostra salute, lo “stato del nostro corpo”, è il primo pensiero. Mi ammalerò? Quanto gravemente? Guarirò completamente? Morirò?

Il primo pensiero; solo che per molti – e includo qui anche comunicazioni e decisioni delle autorità – è stato anche l’unico pensiero: la pandemia è un problema sanitario e individuale, riguarda le condizioni del nostro corpo.

Perché dico che è un errore? Innanzitutto perché da tempo con il termine “salute” non si intende solo il corretto funzionamento del corpo. L’Organizzazione mondiale della sanità definisce la salute come “uno stato dinamico di completo benessere fisico, mentale, sociale e spirituale”. Ok, è una definizione vaga, per non dire una supercazzola. Se già c’è incertezza su come interpretare grandezze misurabili come la temperatura corporea o la pressione del sangue (37,5 è febbre? 130 è ipertensione?), figuriamoci leggere la qualità delle relazioni sociali o della vita spirituale. Difficoltà che però non possono farci ignorare che la salute è anche quello e soprattuto che la pandemia incide anche su quello.

Ma non è solo questione di salute. La pandemia colpisce non solo gli individui, ma anche la società. Ora, non ho ben capito perché ma “società” è diventata una parola controversa, come se l’autonomia dell’individuo si potesse manifestare solo ignorando completamente l’esistenza di altre persone. Ad ogni modo, con “società” intendo banalmente il fatto che la nostra quotidianità è fatta anche dalla quotidianità di altre persone: se preferite, chiamatela “vita in comune”, “rapporti interpersonali” (includendovi ovviamente anche le reflazioni economiche). Dormiamo in letti costruiti da altre persone, ci facciamo la doccia grazie a uno scaldabagno costruito e installato da altre persone e che funziona grazie a delle canalizzazioni costruite da altre persone, leggiamo libri scritti, tradotti, pubblicati e venduti da altre persone, mangiamo cibo prodotto, elaborato e distribuito da altre persone, scrivo queste parole su un dispositivo elettronico progettato, costruito, distribuito e venduto da altre persone.
Ora, se molte di queste “altre persone” non possono fare quello che fanno di solito – non dico perché in condizioni critiche in un reparto di terapia intensiva: bastano febbre alta e spossatezza, o il dover badare a un familiare malato, il periodo di lutto per aver perso una persona cara –, tutto il sistema non tiene. Anche economicamente: questa idea che “senza lockdown la situazione economica sarebbe tale e quale a prima” non ho ben capito dove salta fuori.

Ora, abbiamo un problema non solo medico-sanitario ma più in generale “umano” (e forse anche più che umano, perché non sono così sicuro che le conseguenze per l’ambiente siano state solo positive). Pensare che sia solo un problema medico-sanitario è appunto un errore, perché perdiamo di vista parte del problema. Restiamo lì, incantati dal bollettino giornaliero di morti e ricoverati come se fossero l’unica cosa di cui preoccuparci, non la punta dell’iceberg; ci sembra che mascherine, chiusure e limitazioni varie abbiano l’unico scopo di salvare quelle vite lì, non proteggere anche tutto il resto, il vivere in comune, l’economia. Sbagliamo a fare l’analisi costi-benefici, mettendo i costi solo sull’economia e i benefici solo su (una limitata concezione di) salute. Ovvio che ci si chieda se vale la pena “uccidere l’economia” per “degli ottantacinquenni con un piede nelle fossa”.

Parole contro la paura

Lo ammetto: ho un pregiudizio contro gli instant book. Ma ho una grande stima per Vera Gheno: ho adorato il suo Potere alle parole, trovato delizioso Prima l’italiano, devo ancora superare il trauma di aver prestato senza ritorno Guida pratica all’italiano scritto (senza diventare grammarnazi) e mi vergogno di aver solo sfogliato Femminili singolari. Il femminismo è nelle parole.

Ho quindi subito preso Parole contro la paura e non me ne sono affatto pentito.
L’operazione di partenza può lasciare perplessi: chiedere ai propri contatti di Facebook le prime tre parole che vengono in mente pensando alla pandemia. Può lasciare perplessi perché, appunto, cosa te ne fai di un elenco di parole? Vera Gheno ci fa tutto: partendo dal presupposto che «i protagonisti della storia di una lingua, di ogni lingua, sono i suoi parlanti» e che «ogni parola non è mai “solo” una parola, ma una specie di gancio verso un intero mondo di significati», dalla a di attesa alla z di zombie il libro ci porta a esplorare questi mondi, ben più vasti di quello in cui siamo giocoforza confinati in questi giorni.

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Abbiamo raggiunto il picco – o il fondo?

Sempre a proposito di nuovo coronavirus e metafore, c’è un particolare che mi colpisce – e questo, ne sono sicuro, interesserà solo me e qualche altro maniaco del tema. Intendo la questione del picco, della necessità di abbassare la curva (dei contagi/ricoveri) eccetera.

Si tratta di un esempio di quelle che Lakoff e Johnson chiamano “metafore di orientamento”:

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Il lungo viaggio del nuovo coronavirus (ovvero smettiamola di dire che siamo in guerra)

A inizio marzo avevo scritto di “non [essere] particolarmente preoccupato”; penso sia il caso di ammettere di essere stato troppo ottimista: le conseguenze di questa epidemia le avvertiremo molto a lungo – per sempre, chi avrà perso una persona cara.

Inizio con questa ammissione perché non voglio che quanto segue venga preso come una minimizzazione della situazione: è e sarà dura, e ci vorrà la cooperazione di tutti. Ma non siamo in guerra con il virus SARS-CoV-2 e penso sia il caso di ridurre i riferimenti bellici, nei discorsi che facciamo sull’epidemia – discorsi nei quali invece le medicine sono armi, i medici truppe, gli ospedali fronti e così via.
Ripeto: non lo dico perché credo vada tutto bene. E neanche perché non veda punti di contatto con una guerra: i morti e i ricoverati, la sospensione della vita di tutti i giorni, i danni sociali ed economici. Ma le metafore sono infide, sfuggono di mano: non si limitano ad alcuni punti di contatto, ma si espandono e portano con sé tutto l’immaginario collettivo – in questo caso della guerra.

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Traduzioni di genere

È morta la produttrice cinematografica Tiziana Soudani – quella di Pane e tulipani di Silvio Soldini, per capirci.

Tra le varie “manifestazioni di cordoglio”, anche quella delle Giornate cinematografiche di Soletta che qualche anno fa aveva dato a Soudani il Prix d’honneur. Circostanza ricordata così in tedesco e francese:

Die Tessinerin wurde an den 52. Solothurner Filmtagen als erste Filmproduzentin überhaupt mit dem «Prix d’honneur» geehrt.
Aux 52es Journées de Soleure, la Tessinoise avait été la première productrice de cinéma à recevoir le «Prix d’honneur».

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Contro il verismo del fact-checking

La verifica dei fatti è importantissima. Nel giornalismo come nella vita di tutti i giorni – che poi sui social media facciamo tutti qualcosa di simile al giornalismo –, è importante avere informazioni verificate e attendibili. E se questo controllo non è stato fatto, o se è sfuggito qualcosa, è importante far presente l’errore: per una correzione, per segnalare l’informazione errata agli altri utenti o, nella peggiore delle situazioni, per far capire che è meglio stare alla larga da quella fonte lì che pubblica un sacco di bufale.

Ma – è ovvio che sarebbe arrivato un “ma”, no? A parte il titolo che lascia intuire una critica al fact checking, quanto letto finora era la classica premessa del “non sono razzista ma”: come non aspettarsi un attacco alla verifica dei fatti?

La verità non basta

Il fatto è che la verità non basta. Nel senso: è ovvio che vogliamo informazioni vere, ma in realtà quello che davvero vogliamo – o che dovremmo volere – sono informazioni buone. Per cui informazioni che siano non solo vere, ma anche pertinenti alla discussione, che non siano ambigue e né troppo dettagliate né troppo superficiali. (Per chi se lo stesse chiedendo: sì, sto riprendendo le massime conversazionali di Grice).

Questo vale per le indicazioni stradali, per una discussione su quale film guardare, per un dibattito sul riscaldamento globale, per un reportage sui vaccini: la verità è uno dei fattori da prendere in considerazione. E possiamo avere una buona informazione non del tutto vera (per una semplificazione, ad esempio) e una cattiva informazione del tutto vera (perché incompleta o fuori contesto).

Soffermarsi unicamente sulla verità e trascurare gli altri aspetti non contribuisce a migliorare la circolazione dell’informazione. Anzi.
Si arriva al punto in cui alla critica verso un ministro di aver firmato un’intesa con la Cina, si risponde con il fact checking: in realtà il documento è stato firmato da dei funzionari. (Sì, è accaduto davvero). Il che è certamente vero, ma pare quantomeno poco pertinente riguardo al tema della critica.

Se si prende in considerazione unicamente la verità – e magari pure con pedanteria – si finisce per fare la figura di quello che alla domanda “scusi sa che ore sono?” risponde semplicemente “sì”.

La verità non è abbastanza

Poi, fateci caso: abbiamo parlato di “verifica dei fatti”, poi di “vero e falso”. Ma i fatti, tecnicamente, non sono né veri né falsi: al più lo sono le affermazioni intorno a quei fatti. Il mio viaggio in treno di venerdì mattina non è vero né falso: lo è l’affermazione “ho preso il treno delle 9.01”.

Finezze da filosofo, certo: del resto tutti ci capiamo se dico “è un fatto vero” – intendo che quello che ho detto su quel fatto è vero.
Tuttavia vedo, sui social media, il fact checking abbattersi pure su delle semplici fotografie, bollate come “informazione falsa”. Ma un’immagine, di per sé, non è vera o falsa: per esserlo dovrebbe affermare qualcosa – ma quello accade fuori dall’immagine.

Mi spiego meglio. L’immagine di un disco volante sui cieli di Washington non è né vera né falsa; è vera l’affermazione che è un fotogramma di ‘Ultimatum alla Terra’ di Robert Wise; è falsa l’affermazione che si tratta della prova che gli alieni esistono.
Poi certo, a volte basta inserire un’immagine in un articolo o pubblicarla online perché “lasci intendere” qualcosa. Il che può essere un problema – ma non è un problema di verità della foto, bensì di pertinenza o ambiguità.

Il verismo del fact checking

La morale è una cosa bellissima: sono quelle norme che cercano di indicare come ci si dovrebbe comportare in situazioni difficili. Poi c’è il moralismo, dove prendi quelle norme e le applichi pedissequamente per lavarti la coscienza.

Similmente, la verità è una cosa bellissima: indica quell’onestà alla quale dovremmo tendere nel diffondere informazioni. Poi c’è il verismo – ok, il nome è già stato preso da due-tre dignitosissime correnti artistiche, ma fate finta di nulla –, dove prendi l’esattezza e ne fai un dogma con cui zittire gli altri.

Quindi? Alla fine credo che una non piccola parte dei problemi relativi alla cattiva qualità dell’informazione – in generale, non solo giornalistica – si possa risolvere con un po’ di trasparenza. Dare un minimo di contesto alle informazioni (e a chi le sta fornendo) aiuta a capire quanto siano chiare, pertinenti, complete. E vere.

Non sono antirazzista, ma…

Uno si distrae un attimo e si ritrova senza parole.

Era lì. Ed era una bella parola: antirazzismo. Sì, c’era chi sosteneva che non bisogna essere “contro” ma “per” e che il vero valore era un altro – l’integrazione, il rispetto, la tolleranza, l’uguaglianza, fate voi. Ma la realtà è che l’antirazzismo marcava un limite, escludeva un concetto dallo spazio pubblico, dichiarandolo socialmente inaccettabile: non era possibile sostenere le proprie opinioni, o le proprie azioni, con l’idea che gli esseri umani siano divisi in razze con caratteristiche stabili e definite.
E questo, secondo me, era un bene. Continua a leggere “Non sono antirazzista, ma…”

Le parole sono importanti

È il mio momento Nanni Moretti, quello in cui mi viene voglia di urlare “le parole sono importanti!”.

Accade che in Ticino si discuta della promozione di un poliziotto condannato per aver condivido post nazisti su Facebook. Sul merito non ho voglia di pronunciarmi – mi limito a osservare che, dovesse essere effettivamente promosso, non potrei non guardare con diffidenza e un po’ di timore tutti i sergenti maggiori della Cantonale – ma, come Nanni Moretti, lasciatemi urlare un “le parole sono importanti”. Continua a leggere “Le parole sono importanti”

In difesa delle “fake news”

Lo ammetto subito: il titolo di questo post è un’esca per attirare lettori, un click bait per capirci. Non intendo affatto difendere bufale e notizie inventate — per quanto, lo ammetto, non abbia molta simpatica per le soluzioni autoritarie talvolta proposte per contrastare il fenomeno, per cui potrei davvero trovarmi a difendere il diritto di scrivere e condividere baggianate.
Ma questo è un altro discorso: qui mi interessa una difesa linguistica delle fake news. È la parola, che voglio difendere, non il fenomeno.

Infatti, nel titolo, fake news è scritto tra virgolette, trucchetto da filosofi del linguaggio per indicare che si sta parlando, appunto, della parola, non di quello che indica.1
Perché a volte c’è bisogno di uno stolto che, mentre il saggio indica la Luna, guarda il dito, più che altro per capire se al saggio trema un po’ la mano e se non è meglio usare un bastone o un cannocchiale, per mostrare il nostro bel satellite agli altri.

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  1. Trucchetto che rischia di appesantire la lettura, e visto che quello che sto scrivendo non è un saggio di filosofia del linguaggio, vi risparmio le virgolette nel testo. []

La politica è diventata una brutta cosa

Adesso, se uno mi parla di una associazione apolitica, capisco che cosa intende: un gruppo che non si occupa di politica ma, chessò, di ortaggi o di romanzi gialli.
Capisco anche che cosa è un movimento politico apartitico, cioè che non si riconosce, o almeno non si identifica, in nessuna delle ideologie e formazioni partitiche storiche o che comunque pensa che i progetti siano più importanti delle appartenenze politiche.

Ma poco fa ho letto di un movimento “volutamente apolitico” che presenta una lista per le elezioni comunali. E qui non capisco proprio come faccia a essere apolitico un movimento con dei candidati a delle cariche politiche.
Evidentemente la parola política è diventata, non solo in Italia, molto brutta, ed è meglio dichiararsi estranei anche quando quello che si sta facendo è chiaramente della politica.