Gli scienziati devono dibattere con i manipolatori? Forse

Il caporedattore di Science Herbert Holden Thorp ha scritto un interessante editoriale nel quale sostiene che i ricercatori non dovrebbero confrontarsi pubblicamente con i “gaslighters”, termine che potremmo vagamente tradurre come “manipolatori”.

Gli argomenti sono quelli tradizionali: rifiutandosi si fa la figura dei codardi che temono il confronto, ma accettare un dibattito pubblico darebbe legittimità a idee antiscientifiche, facendo credere che vi siano dubbi su temi sui quali c’è invece un buon livello di certezza. Quello che cambia è innanzitutto il mezzo: non più conferenze o trasmissioni televisive, bensì un podcast (quello “antisistema” di Joe Rogan). E poi sono cambiate anche le idee antiscientifiche: quando, una ventina di anni fa, ho sentito per la prima volta questo argomento si parlava di creazionismo; oggi si parla di antivaccinismo. O meglio di un curioso coacervo di teorie cospirazioniste, visto che Robert F. Kennedy Jr. – con cui sarebbe dovuto avvenire il confronto – ha sostenuto molte cose strane:

(Elenco preso da Noah Smith; altri dettagli su RFK Jr. si possono leggere sul Post).

Una partita a scacchi con un piccione

C’è una colorita analogia che si cita spesso in questi casi: discutere con un manipolatore/cospirazionista è come giocare a scacchi con un piccione che fa cadere i pezzi per terra, insozza la scacchiera e poi torna dal suo stormo dicendo di aver vinto.1

Tuttavia alla partita non assistono solo il piccione e il suo stormo. E sapendo di avere di fronte un piccione, invece di studiare regole e strategie degli scacchi uno magari prende uno straccio per pulire la scacchiera.
Mettiamo da parte l’analogia della partita a scacchi. Un dibattito non farà mai cambiare idea né a RFK Jr. né ai suoi sostenitori, ma mostrare di essere delle persone decenti, e non dei mostri che vogliono decimare l’umanità, è già un buon risultato, soprattutto pensando alle persone “non molto convinte” che per curiosità seguiranno il dibattito. Certo ci sono comunque dei rischi e sarebbe meglio evitare di ritrovarsi a dover ribattere a centinaia di fesserie – magari ponendo alcune condizioni e chiedendo alcune garanzie. Ma non escluderei a priori qualsiasi dibattito pubblico.

La scienza aperta

Questi però sono argomenti che riguardano l’efficacia di un dibattito pubblico. Provo adesso ad affrontare la questione da un altro punto di vista, quello dei valori della scienza. Un approccio deontologico anziché utilitaristico – con l’idea che entrambi i punti di vista possano essere di una qualche utilità per affrontare il problema.
È giusto escludere alcune persone dal dibattito scientifico, ignorando le loro critiche e le loro osservazioni? Decidere a priori che alcune persone dicono fesserie non è l’applicazione, in negativo, di quel “principio di autorità” che la scienza rifiuterebbe?

La scienza occidentale moderna si è sviluppata, tra Cinque e Seicento, proprio in opposizione ad alcuni saperi, come la magia e l’alchimia, che facevano della segretezza e dell’inaccessibilità un elemento centrale. La conoscenza scientifica è a disposizione di tutti e chiunque può contribuirvi, senza dover passare per percorsi iniziatici riservati a poche persone elette. Contano gli argomenti e le prove che una persona può portare, non il suo status sociale o altre sue caratteristiche personali.
Certo questo era più facile quando la scienza aveva appena iniziato il suo percorso, non servivano laboratori con apparecchiature costosissime e per mettersi in pari con le conoscenze di punta bastava leggersi una mezza dozzina di libri. Ma l’idea di un sapere aperto a tutti resta centrale, tanto che il sociologo Roger Merton cita l’universalismo come primo principio dell’ethos della scienza, il complesso di valori e di norme che guidano i ricercatori, insieme al comunismo dei risultati, al disinteresse e al dubbio sistematico.

Rifiutarsi di prendere in considerazione le critiche di RFK Jr. sembrerebbe essere in contrasto con l’ethos scientifico: il principio dell’universalismo imporrebbe infatti di ascoltare chiunque, anche un avvocato senza una specifica formazione scientifica (che comunque non manca a molto sostenitori di teorie cospirazioniste).

Ethos scientifico

Torniamo un attimo agli inizi della scienza occidentale moderna. L’idea di permette a chiunque ne abbia le capacità di partecipare all’impresa collettiva della scienza trovava manifestazione nelle accademie e nelle società scientifiche. In pratica delle zone protette in cui discutere liberamente, al riparo dalle ingerenze esterne – principalmente dalla politica e dalla religione. Chiunque è benvenuto. Se accetta i valori e i metodi dell’impresa scientifica. Se una persona non si riconosce in quei valori, non siamo tenuti a starla a sentire e non solo possiamo ignorarla, ma forse dobbiamo anche.

Va detto che entriamo in un terreno scivoloso. Non è facile definire con precisione quali siano i valori della scienza; quanto al metodo scientifico, ogni disciplina ha le sue prassi che oltretutto cambiano nel tempo. E sarebbe assurdo considerare antiscientifica qualsiasi proposta di ripensare come in questo particolare momento si fa scienza.
Credo che un aspetto importante del quale tenere conto sia l’atteggiamento: si vuole contribuire alla conoscenza scientifica migliorando la nostra comprensione del mondo o al contrario far crollare tutto? Ma di nuovo è una indicazione generica. Il che suggerisce una certa cautela nell’applicare il principio del “non ti riconosci nell’ethos scientifico e quindi non puoi parlare”. Certo, visto il lungo e un po’ inquietante elenco di corbellerie sostenute da RFK Jr., direi che in questo caso ci sono pochi dubbi. Tenendo comunque presente che quantomeno alcune di quelle corbellerie potrebbero diventare delle domande poste da chi vuole davvero capire meglio il mondo.

  1. Da quel che ho ricostruito, l’ideatore di questa popolare immagine è un certo Scott D. Weitzenhoffer in una recensione su Amazon di un libro sul creazionismo. []

“Sembra che i risultati mostrati di seguito cambino rapidamente”

La decisione di escludere la Russia dalla cerimonia per il Giorno della memoria ad Auschwitz ha portato a diverse discussioni. In questi ultimi giorni si è scritto molto sia sull’opportunità dell’esclusione, sia sulla liberazione del campo di sterminio, se sia stata “sovietica”, “russa” o “ucraina”.

Così, Google ha aggiunto un avviso alle ricerche che riguardano l’armata rossa e la liberazione di Auschwitz:

Sembra che i risultati mostrati di seguito cambino rapidamente
Se si tratta di un argomento nuovo, a volte può essere necessario del tempo prima che fonti affidabili pubblichino informazioni

Curiosamente l’avviso appare se cerco “l’armata rossa ha liberato Auschwitz” ma non “armata rossa liberazione Auschwitz”.

Io non ho mai visto un avviso simile e suona un po’ ridicolo che si parli di “argomento nuovo” per qualcosa avvenuto quasi ottant’anni fa. Capisco che qualcuno possa interpretare il tutto come un tentativo di “riscrivere la storia”, ma ragionando in astratto l’avviso mi pare molto utile.

Indice di novità

Credo che l’età media dei risultati sia un’informazione utile. Se su un tema i contenuti pertinenti sono stabili, con pochi aggiornamenti, posso immaginare che sul tema si sia raggiunta una certa maturità e che le cose non cambieranno a breve. Viceversa se i contenuti sono recenti, perché creati o aggiornati da poco, posso immaginare che la questione sia ancora oggetto di discussioni e la situazione potrebbe cambiare.
Certo, magari i contenuti sono recenti perché banalmente ci si riferisce a qualcosa di appena accaduto e che non presenta particolari difficoltà interpretative – penso ad esempio al risultato di un evento sportivo. Ma in generale è vero che la disinformazione è più veloce dell’informazione affidabile nel produrre contenuti. Si dice che “una bugia fa in tempo a compiere mezzo giro del mondo prima che la verità riesca a mettersi i pantaloni” (la frase è attribuita a Churchill ma pare sia molto più antica); questo avviso dà alla verità un po’ più di tempo per vestirsi.

La disinformazione è soprattutto più veloce nel colmare le lacune informative, figurando tra i primi risultati per parole chiave sui quali non c’è ancora molta informazione. Sfruttando questa lacune, e l’effetto Ikea della disinformazione, è possibile dare maggiore credibilità alla disinformazione.
Sulle lacune informative o data voids c’è un interessante rapporto scritto da Michael Golebiewski e danah boyd. Vengono distinte cinque categorie di lacune: notizie d’attualità, nuovi termini, termini obsoleti, concetti frammentati e ricerche problematiche. Tra gli esempi di ricerche problematiche si cita proprio l’Olocausto. Dal momento che i siti affidabili non mettono in dubbio lo sterminio nazista, ricerche come “l’Olocausto è realmente accaduto?” restituivano come risultati siti negazionisti. In risposta alle critiche alcuni anni fa Google ha modificato l’algoritmo per fare in modo che ai primi posti figurassero fonti affidabili.

L’avviso “sembra che i risultati mostrati di seguito cambino rapidamente” si inserisce probabilmente in questo contesto. Visto che l’Olocausto è un tema delicato, Google segnala eventuali anomalie. Ma io estenderei questa soluzione a tutte le ricerche. Una sorta di indice di novità che mi dice quanto i risultati siano mediamente recenti.

L’effetto Ikea della (dis)informazione

Sto facendo delle ricerche sulle ricerche fai da te – quelle che chi fa controinformazione invita a fare con lo slogan “do your own research” sui vaccini, la crisi climatica, la guerra in Ucraina, l’allunaggio, gli attentati dell’11 settembre eccetera.

Fare ricerche per conto proprio non è di per sé sbagliato. Anzi direi che è una cosa buona e giusta, se non altro per comprendere meglio un determinato argomento. Ma sulle opportunità delle ricerche fai da te – se fatte bene – scriverò poi; qui mi soffermo sui rischi. Di solito si cita l’effetto Dunning-Kruger, quello per cui meno si è esperti più si è sicuri di sé. Ma sulle interpretazioni si impone qualche cautela.

Qui parlo di un altro effetto: l’effetto Ikea cognitivo.

L’uovo e la torta

Iniziamo dall’effetto Ikea classico. Si tratta della tendenza ad attribuire maggior valore ai prodotti assemblati o costruiti dal consumatore come appunto i mobili venduti dall’azienda svedese. A dare il nome a questo effetto sono stati, in un articolo del 2011, Michael Norton, Daniel Mochon e Dan Ariely. Il fenomeno era comunque già noto sia all’interno della psicologia sociale – si tratterebbe di un caso di “giustificazione dello sforzo” indagato da Leon Festinger nei suoi lavori sulla dissonanza cognitiva –, sia dal marketing. Gli autori citano il caso degli impasti preconfezionati per torte. Quando iniziarono a diffondersi negli anni Cinquanta del Novecento incontrarono la diffidenza dei consumatori, diffidenza superata modificando l’impasto e richiedendo l’aggiunta di un uovo. Secondo gli autori il lavoro costituito dall’aggiunta di quest’uovo, per quanto minimo, avrebbe aumentato il valore percepito della torta da parte dei consumatori.

Norton, Mochon e Ariely hanno misurato questo effetto con una serie di esperimenti. Chi fa uno sforzo per produrre alcuni oggetti – nel loro caso un mobile Ikea, un origami e un set lego – non solo attribuisce loro un valore maggiore rispetto a prodotti analoghi realizzati con maggior perizia da professionisti, ma si aspetta anche che altre persone li valutino maggiormente. Siamo disposti a spendere di più per un oggetto che abbiamo in parte realizzato. E ci aspettiamo anche che altre persone siano disposte a pagare di più per qualcosa fatto da noi anziché da un professionista.

Nel primo caso possiamo immaginare una sorta di valore affettivo dovuto al lavoro svolto, o ai vantaggi di una possibile personalizzazione (però l’effetto è stato rilevato anche con oggetti standard valutati unicamente per la loro funzionalità). Nel secondo caso siamo di fronte a un bias, una distorsione nel nostro modo di ragionare. Un bias che può essere sfruttato aumentando surrettiziamente il valore percepito dei beni venduti prevedendo un semplice lavoro da parte del consumatore. Come nel caso dell’uovo da aggiungere alla miscela per torte. Il lavoro richiesto deve essere sufficientemente elaborato da giustificare l’idea di aver contribuito a realizzare il prodotto – cosa che evidentemente non avveniva quando la miscela per torte era già pronta per il forno – ma sufficientemente semplice da garantire la realizzazione del prodotto. L’effetto Ikea, infatti, non si presenta quando il lavoro fai da te non va a buon fine (o quando il prodotto viene smontato).

Meglio degli esperti

È possibile che esista un effetto Ikea cognitivo che riguarda, invece di mobili e origami, i risultati di una ricerca fai da te? Lo scienziato cognitivo Tom Stafford pensa di sì e il filosofo Justin Tiehen sostiene che non sia una cosa così negativa. Sono portato a dargli ragione: indagare autonomamente un argomento anziché dare il proprio assenso a informazioni preconfezionate presenta il vantaggio di una maggiore comprensione.
Può quindi essere razionale attribuire un maggior valore epistemico alle informazioni ottenute tramite indagine. Tuttavia l’effetto Ikea non riguarda unicamente la valutazione da parte del soggetto, ma anche quella di altre persone. L’effetto Ikea cognitivo porta quindi una persona comune a pensare che le proprie conclusioni siano più affidabili più di quelle di un esperto. In qualche caso sarà anche vero (si dice che un esperto è uno che ha fatto tutti gli errori possibili nel suo campo), ma in generale è la ricetta perfetta per sbagliare.

La sociologa Francesca Tripodi, nel suo interessante The Propagandists’ Playbook. How Conservative Elites Manipulate Search and Threaten Democracy, approfondisce la similitudine tra i mobili Ikea e le conclusioni delle ricerche fai da te. In entrambi i casi il risultato dipende in minima parte dalle abilità del soggetto che di fatto si limita a eseguire semplici compiti indicati da qualcun altro:

But if conservative messaging is like a new table from Ikea, conservative elites are the engineers that design the furniture – making sure that the table goes together only one way, and with just the right amount of effort to give that perfectly satisfied feeling to the consumer (and encourage them to shop again soon).

Per i prodotti Ikea questo controllo sul risultato si basa su pezzi standard e istruzioni il più chiare e semplici possibili. Per la controinformazione invece tutto passa attraverso i motori di ricerca, sfruttando parole chiave poco usate e che vengono suggerite da chi invita a fare ricerche fai da te.

Una conferma del bias di conferma

Su Facebook trovo questo annuncio:

In questo libro sembra esserci di tutto, pure la fantasia di complotto del Grande Reset. Ma, come premettono anche nell’anteprima di questo annuncio, “non si nega l’esistenza del virus” e anzi si agisce “profondo rispetto per coloro che sono stati colpiti dal COVID-19”.
È l’equivalente virologico del “ho molti amici gay/ebrei/neri…” con cui – ormai solo nelle barzellette – si cerca di dimostrare di non avere pregiudizi verso gay/ebrei/neri. Non so se un espediente così abusato possa rassicurare il pubblico moderato; di certo allontana gli estremisti come mostra questa recensione che ho trovato sul sito:

Dice che "non intende negare l'esistenza del virus..." Non è mai stato isolato intanto lo ha detto lo stesso Montagnier.  Il vero virus è il vaccino.  Quindi non comprerei perché parte con un informazione incerto/non esatto senza conferme.

A giudicare dal sommario del libro, presente sul sito, si prendono le distanze da alcune delle bufale più grosse, tipo quella dei vaccini che hanno sterilizzato milioni di donne in Africa.

Bias di conferma

Ci sarebbe molto da dire sulla copertina, ma mi incuriosisce di più la recensione che gli autori mettono in risalto nell’annuncio, quella di Angela C:

L’ho letto praticamente in un paio d’ore, ho avuto delle conferme, e mi sento di dire che veramente niente sarà più come prima! Per me è l’apoteosi della verità!

La recensora sostiene che il libro sia l’apoteosi della verità e questo perché “ho avuto delle conferme“. Sicuramente questa recensione è l’apoteosi del bias di conferma: pare un testo appositamente inventato per esemplificare questo bias, invece è una autentica recensione, o almeno è presentata così da chi sta cercando di vendere il libro.

Leggendo questa recensione ho pensato che è proprio vero che il bias di conferma svolge un ruolo importante nelle fantasie di complotto.
Poi mi sono reso conto anche questo ragionamento è a sua volta un bias di conferma e alla fine sono come Angela C. Siamo tutti come Angela C.

Piccola guida ragionata al “pensiero unico”

In questo articolo propongo alcune ipotesi alternative alle fantasie di complotto: cose di cui tenere conto prima di pensare all’esistenza di una qualche congiura.

Immagino che sia un’esperienza comune: l’improvvisa comparsa di un “pensiero unico”. Nel giro di qualche giorno un tema del quale non si parlava praticamente mai, e sul quale c’era una certa varietà di opinioni, diventa presenza costante nelle discussioni e tutti grosso modo sostengono la stessa posizione.

Facciamo l’esempio – è un codardo esempio di fantasia escogitato per evitare che l’eventuale discussione degeneri su qualche tema divisivo – delle vacanze estive. Poniamo che se ne parli raramente e comunque, quando ogni tanto il tema salta fuori, c’è chi preferisce il mare e chi la montagna. Poi nel giro di qualche giorno tutto cambia. Newsletter, podcast, siti internet, radio, tv, giornali, cartelloni pubblicitari, conoscenti e articoli scientifici parlano solo delle vacanze estive. E tutti sono d’accordo che è meglio andare al mare, magari indicando giusto due o tre località e limitando la discussione sull’ora più opportuna in cui prendere il gelato.

Difficile non pensare, anche in situazioni meno estreme di questo scenario inventato, a un qualcosa di organizzato dall’alto. Non necessariamente un complotto che coinvolga tutta la popolazione mondiale tranne noi, ma anche solo una riuscita campagna di propaganda per convincere quante più persone possibile ad andare al mare, o dissuaderle ad andare in montagna, o distrarle da qualche altro tema più importante e urgente.

Un’ipotesi assolutamente legittima e sensata. Dal momento che congiure e cospirazioni (e più banalmente campagne di marketing) esistono davvero, sarebbe un errore liquidare ogni ipotesi di complotto. Solo che è un attimo passare dalle ipotesi, basate su indizi e in attesa di conferme, alle fantasie di complotto1 completamente slegate dalla realtà.

Senza troppa originalità, propongo alcune indicazioni per evitare di fare quel passo e affrontare i casi di pensiero unico senza cadere nel complottismo.

L’idea non è fornire argomenti per criticare chi dà credito all’esistenza di un qualche complotto, ma fornire strumenti utili innanzitutto per noi stessi.

La massima di Hyman

Il punto di partenza, di fronte a un caso di pensiero unico e in generale di fronte a ogni fenomeno che vogliamo cercare di chiarire, non può che essere la “massima di Hyman” (spesso indicata anche come “imperativo categorico di Hyman”, ma il termine “massima” mi pare più adatto).

Non cercare di spiegare qualcosa finché non sei sicuro che questo qualcosa esista.

Ray Hyman

Ray Hyman è uno psicologo statunitense noto per le sue critiche alla parapsicologia ed è considerato uno dei fondatori dei movimenti scettici moderni. Sembra che ripetesse spesso questa massima, aggiungendo che anche i migliori ragionamenti sono inutili se i dati di partenza sono avariati.

Cosa vuol dire applicare la massima di Hyman al pensiero unico? Innanzitutto chiedendosi se è davvero così unico, questo pensiero. Non è che siamo noi a fare caso solo a chi sostiene la bontà delle vacanze al mare e non notiamo tutti quelli che invece ci propongono di andare in montagna? Oppure frequentiamo ambienti in cui la maggioranza preferisce il mare, ma il mondo è pieno di persone che invece vanno in e parlano di montagna?

A un altro livello, potremmo anche chiederci se l’improvvisa svolta verso il mare ci sia davvero stata. Siamo sicuri che delle vacanze estive si discutesse così poco, prima che qualcuno ci facesse notare il “pensiero unico del mare”? E davvero c’era tutta questa varietà di opinioni oppure c’è sempre stata un’importante maggioranza a favore del mare?

Il rasoio di Hanlon

Una volta presa in considerazione la massima di Hyman, c’è il rasoio Hanlon:

Mai attribuire a malafede quel che si può adeguatamente spiegare con la stupidità.

Robert J. Hanlon

La metafora del rasoio – che viene dal più conosciuto rasoio di Occam, vedi più avanti – si spiega con l’idea di dare un taglio netto eliminando certe ipotesi in favore di altre. In questo caso, quelle basate sulla malafede rispetto a quelle basate sulla stupidità. Mantengo questa immagine, ma considero sia il rasoio di Hanlon sia quello di Occam delle massime. Indicazioni generali su come ragionare, non dei principi da applicare indipendentemente dalla situazione.

Devo inoltre espandere il concetto che Hanlon – un tizio della Pennsylvania che ha inviato questa massima per un raccolta dedicata alla Legge di Murphy – chiama “stupidità”. A rigore, imporrebbe di prendere in considerazione solo l’ipotesi che stupidamente ci si dimentichi della possibilità di fare le vacanze in montagna.

Direi quindi di non attribuire a malafede, e in generale a un piano preordinato, quello può essere spiegato come un fenomeno spontaneo che non ha bisogno di spinte o imposizioni dall’alto. Nessuno parlava delle vacanze estive perché si pensava a cosa fare a Pasqua, adesso che siamo in estate tutti discutono e organizzano le vacanze estive; tra qualche mese si parlerà di cosa fare a Capodanno. Si parla del mare perché in pochi hanno voglia di fare lunghe camminate sui sentieri e con questo caldo mica vorrai visitare le città d’arte. E così via.

C’è anche da considerare la questione dell’imitazione o emulazione che porta naturalmente a una certa uniformità di opinioni e comportamenti. Ora: fare quel che fanno gli altri può apparire una scelta poco intelligente, ma in realtà in alcune circostanze può essere la cosa migliore da fare. Se ad esempio non disponiamo di sufficienti informazioni: affidarsi alla scelta della maggioranza, o comunque delle persone a noi vicine, può essere una buona strategia. Di fronte due ristoranti, uno semivuoto e l’altro con molti tavoli occupati, è naturale pensare che in quello con più persone si mangi meglio.
Questo ovviamente non è sempre vero. Su un argomento specialistico e controintuitivo molto probabilmente la maggior parte delle persone si sbaglia. Inoltre non è detto che quello che va bene agli altri vada bene anche a me. Sono sicuro che alla domanda “Qual è la capitale della Florida?” molti risponderanno (sbagliando) Miami e pochi (correttamente) Tallahassee. Magari il ristorante con meno persone fa semplicemente porzioni più piccole e noi siamo in cerca di un pasto leggero.

Da notare che i due scenari, quello di un fenomeno spontaneo o di un’imposizione dall’alto, non si escludono completamente. C’è magari qualcuno che, a vari livelli, spinge per ottenere un certo risultato ma il successo di questa impresa è solo in parte dovuto ai suoi sforzi.
Il mio esempio preferito, in proposito, riguarda Edward Bernays: nipote di Freud, è considerato il primo spin doctor della storia. O, per dirla in altra maniera, il primo manipolatore dell’opinione pubblica. Combinando le teorie dello zio, soprattutto per quanto riguarda il subconscio, alla psicologia delle masse avrebbe sviluppato un sistema infallibile per, appunto manipolare le persone. Tra i suoi successi viene spesso citata la colazione con uova e pancetta. Pagato da un’azienda produttrice di bacon, Bernays ha puntato sul messaggio, sostenuto dalla comunità medica, che una colazione nutriente è il modo più salutare per iniziare la giornata. Riuscendo effettivamente a rendere uova e pancetta una tipica colazione americana, cosa che forse senza di lui non sarebbe successa.
Mi chiedo tuttavia cosa sarebbe successo se a contattare Bernays fosse stato un produttore di cavoletti di Bruxelles. Dubito che questa verdura (che peraltro a me piace molto) avrebbe trovato molto spazio. Ma non c’è bisogno di ricorrere a esperimenti mentali: nel 1932 Bernays ha lavorato alla campagna per la rielezione del presidente Herbert Hoover. Sconfitto (e non di poco) da Franklin D. Roosevelt.

Il rasoio di Occam

Ed eccoci al celebre rasoio di Occam, dal teologo e filosofo del Trecento Guillelmus de Ockham:

A parità di fattori, la spiegazione più semplice è quella da preferire.

Guglielmo di Occam

Direi che i punti importanti, qui, sono due. Il primo è cosa intendiamo con “idea più semplice”. In alcuni casi l’ipotesi di un complotto globale è infatti incredibilmente complessa: pensiamo alle scie chimiche: quante persone dovrebbero essere coinvolte? Possibile che nessuna riesca a portare prove certe? Ma in altre situazioni pensare a una campagna centralizzata è invece un’ipotesi più semplice rispetto a un fenomeno spontaneo o di una semplice coincidenza. Il punto è valutare attentamente la semplicità. Pensare a una campagna pubblicitaria organizzata dalle località balneari è un conto; una cospirazione per svuotare le città perché è in corso una qualche catastrofe che si vuole tenere nascosta un altro.

Il secondo punto è “a parità di fattori”. La soluzione più semplice è infatti da preferire se spiega quanto sta accadendo altrettanto bene di ipotesi più complicate.

Cosa significa in concreto? Direi soprattutto prendere in considerazione l’ipotesi che tutti sostengono che sia meglio andare al mare perché banalmente è meglio andare al mare. Grosso modo come si è tutti d’accordo che la terra non è piatta perché la terra, effettivamente, non è piatta.

Riassumendo

Quando improvvisamente tutti la pensano allo stesso modo, prima di pensare che sia tutto organizzato da qualcuno dobbiamo chiederci se è davvero così (magari è solo una nostra impressione), poi se può essere anche solo in parte un fenomeno spontaneo e infine se l’ipotesi di una qualche campagna organizzata sia effettivamente la più semplice: magari tutti la pensano allo stesso modo perché, banalmente, hanno ragione.

  1. Il termine è di Wu Ming, vedi l’impegnativo ma interessante Q di qomplotto. []

Per fortuna ci sono i complottisti

Ho avuto occasione di seguire un po’ di incontri su Apollo 11 e la conquista dello spazio – perlopiù al CICAP Fest di Padova.
E devo ringraziare i complottisti. Che certo, c’è il problema della fiducia come nel caso del 5G, ma è grazie a loro se si entra in dettagli tecnici e scientifici, minuzie che, senza la necessità di rispondere alle accuse di chi sostiene che il programma Apollo fosse tutta (o in parte) una montatura, sarebbero rimaste confinate nei testi tecnici – mentre adesso sono in mano a valenti divulgatori.

Ci saremmo mai dedicati alla polvere sulle “zampe” del modulo lunare, se quella polvere non fosse diventata la “prova” che era tutto un imbroglio?

Alla fine quello dei complottisti è un servizio alla comunicazione della scienza. Tanto che – adottando per un attimo quella mentalità complottista – viene il dubbio che le bufale sull’allunaggio siano un’invenzione dei divulgatori per avere qualcosa in più da raccontare…

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