Il buono, il brutto e il cattivo

Bioetica segnala un interessante articolo di Sam Harris sul Boston Globe: “Do We Really Need Bad Reasons To Be Good?”, “Abbiamo davvero bisogno di cattive ragioni per essere buoni”?

L’autore, laureato in filosofia ed esperto di tradizioni religione occidentali e orientali, si interroga sul legame tra religione e moralità: è davvero necessario credere in Dio per essere buoni?
La risposta è, ovviamente, negativa (sorprende che qualcuno si prenda la briga di scriverlo sui giornali, ma forse in questa sorpresa si pecca di ingenuità).

Più interessante la seconda parte dell’articolo: i doveri morali verso gli altri si possono tranquillamente, e razionalmente, desumere dalla felicità e dalla sofferenza degli esseri coscienti; la religione tende a separare il discorso sui doveri morali dalla concreta vita degli esseri coscienti, fornendo quindi motivazioni errate; a volte la religione prescrive azioni moralmente buone, altre volte moralmente cattive.
La conclusione è di lasciar perdere i discorsi religiosi, che riguarderebbero «i capricci di un Dio invisibile», e discutere razionalmente di come alleviare le sofferenze umane e animali.

Due osservazioni.
Harris, riconducendo la morale alla felicità e alla sofferenza, abbraccia una posizione filosofica che prende il nome, ad essere sinceri abbastanza brutto, di consequenzialismo: se non si accetta il consequenzialismo, tutto il discorso cade.
Secondo molte persone, ci sono ottimi motivi, non solo religiosi, per non essere consequenzialisti.
Accettare il consequenzialismo, inoltre, non implica accettare anche la conclusione di Harris.
È infatti possibile aumentare le sofferenze altrui, o ridurre la altrui felicità, pur essendo mossi dal principio, moralmente corretto, di incrementare la felicità complessiva. Questo può avvenire anche senza rendersene conto: è infatti relativamente facile capire se una persona sta meglio o peggio di prima, ma se le persone coinvolte sono parecchie centinaia o migliaia, allora valutare la felicità globale è un compito decisamente arduo.
Dal momento che il consequenzialismo guarda esclusivamente alle consequenze, e dal momento che non necessariamente chi ha buoni motivi agisce meglio di chi ha cattive ragioni, può anche essere consequenzialmente meglio affidarsi, ad esempio, alla Bibbia piuttosto che ad un testo filosofico.

Queste osservazioni riguardano ovviamente la propria condotta morale.
Inspiegabilmente, Harris scrive l’articolo a proposito delle midterm elections, le elezioni di metà mandato per il rinnovamento della camera e di parte del senato: è un mistero cosa abbiano a che fare le scelte politiche con la morale e, soprattutto, con la religione.

8 commenti su “Il buono, il brutto e il cattivo

  1. “(sorprende che qualcuno si prenda la briga di scriverlo sui giornali, ma forse in questa sorpresa si pecca di ingenuità).”

    fenomeno, a dire la verita’, preoccupante. ieri sul guardian peter singer si prendeva la briga di difendere il matrimonio da gay.

    se un grande filosofo deve abbassarsi a dinfedere una cosa del genere, allora significa che siamo arretrati. significa che il fondamentalismo cristiano ha alzato la voce cosi tanto da spaventarci.

    p.s. uno puo’ essere consequenzialista senza essere utilitarista

  2. Immagino l’articolo di Singer a cui di riferisci sia questo: http://www.guardian.co.uk/comment/story/0,,1927884,00.html.
    Non sono sicuro che la tua interpretazione sia corretta: in generale, più si discute, e più vari sono i temi di discussione, meglio è. Certo, se Singer e Harris scrivono queste cose, evidentemente lo fanno perché molta gente sostiene il contrario, e si aspetta che la (propria) moralità diventi principio universalmente imposto.

  3. Nient’affatto. Mi sembrano tesi di un’ingenuità agghiacciante (come quelle di Singer, bisogna dire).
    Dovrei dare per scontato che il matrimonio tra gay è una cosa buona? E perché mai? Io sono in grado di sostenere razionalmente che è una colossale idiozia, e senza far ricorso alla religione. Attenzione a distinguere la legge morale dal conformismo che è sempre moralistico (ma, si sa, i consequenzialisti non amano Kant, come tu stesso suggerisci).
    E’ “ovvio” che si possa fare a meno di Dio ed essere buoni lo stesso? A leggere l’articolo non si direbbe.
    “i doveri morali verso gli altri si possono tranquillamente, e razionalmente, desumere dalla felicità e dalla sofferenza degli esseri coscienti”
    E perché? Perché i doveri morali soggettivi avrebbero gli altri individui come unico oggetto? Non sono io forse altro da me stesso sul piano etico primo, quello della relazione tra coscienza e autocoscienza? E quando un omicidio rende felice me ma, ovviamente, scontenta l’assassinato, come mi devo regolare? Il diritto dell’altro viene prima del mio? E perché? Diamine c’è dunque della deontologia in questo consequenzialismo! E poi: “desumere”, che metodo logico è? Harris ha forse studiato filosofia morale su “Topolino”? E perché felicità e sofferenza sarebbero le unità di misura della moralità dell’azione? Chi ha stabilito che la fenomenologia soggettiva abbia una relazione così essenziale con la verità (che tuttavia ci deve pur essere, visto che almeno l’oggettività dell’altro in quanto oggetto della mia azione morale dev’essere comunque affermata)? E dovrei forse pensare che ciò che è morale in Italia, anzi nemmeno in Italia ma a casa mia, possa non esserlo in Cina, anzi non in Cina, ma a casa del mio vicino? Quindi, in teoria, io potrei non avere il diritto di uccidere un cinese in Italia mentre un cinese in Cina potrebbe avere il diritto di ammazzare me? E come la mettiamo quando il vicino mi invita a cena? Se mi ammazza perché suono il pianoforte fino a tardi fa un’azione immorale o no?
    Caro Ivo, se quello di questi signori è un pensiero etico degno di questo nome, Aldo Busi è Giovanni Boccaccio.

    Bernardo

  4. Caro Bernardo,
    elenchi un numero decisamente corposo di obiezioni al consequenzialismo: troppo per rispondere una ad una.
    Non so su quali testi abbia studiato Singer; stava comunque scrivendo un articolo per un quotidiano, e lo stile “à la topolino” è, forse, necessario.

    Riprendo una mia vecchia obiezione al tuo deontologismo: sicuro che la tua dimostrazione razionale sia affine ad un teorema matematico e abbia quindi la sua stessa cogente universalità?

  5. Sì, perché l’universalità della mia dimostrazione (che, tuttavia, come ben sai, anche in matematica è tale a determinate condizioni e non è sinonimo di infinito) non è diretta ma mediata. Essa è, cioè, conseguente rispetto a una necessità che è, appunto, l’oggetto della dimostrazione medesima. Comprendi bene che dimostrare che una proposizione è necessaria non equivale a dimostrare che è vera. La necessità dimostrata, però, fonda e giustifica un’universalità “sufficiente”.
    Come vedi, esiste un retto “relativismo”: un metodo che non trascende in una metafisica.

    Bernardo

  6. Non so se è a questo che ti riferisci, comunque molti critici del consequenzialismo ragionano così: il consequenzialismo è sbagliato perché responsabile di varie nefandezze, giudicando il consequenzialismo dalle conseguenze.
    È un argomento retoricamente efficace, ma logicamente debole (si può rinforzare, ma rinforzarlo rende il tutto complicato e retoricamente debole).

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