Coscienza inutile
Giovanni Jervis, nel suo Pensare dritto, pensare storto. Introduzione alle illusioni sociali (Bollati Boringhieri, 2007), insieme ad una pungente critica agli umanisti in generale, e ai filosofi in particolare, che fanno ricerca comodamente seduti in poltrona, sostiene che il ruolo della coscienza sia ampiamente sopravvalutato.
Due semplici esempi, che sono ovviamente esperimenti psicologici, e non libere riflessioni da filosofo: l’ascolto dicotico e le ricerche di Benjamin Libet (recentemente scomparso) sul potenziale di preparazione.
Negli esperimenti sull’ascolto dicotico, attraverso delle cuffie, il soggetto ascolta due messaggi diversi ai due orecchi, dirigendo l’attenzione unicamente a uno dei due orecchi. Il messaggio che arriva all’altro orecchio viene ignorato, eppure il soggetto tiene conto di eventuali istruzioni in esso presenti.
Le ricerche di Benjamin Libet, invece, mostrano come il cervello si prepari a compiere una azione prima che nel soggetto sorga l’intenzione di effettuare questa azione.
La coscienza potrebbe (potrebbe) essere semplicemente un epifenomeno irrilevante.
Secondo alcuni, questo fatto avrebbe gravi conseguenze etiche e sociali.
Il concetto di libero arbitrio ne esce indubbiamente malconcio: la volontà di agire non parte da noi, dove quel noi indica la nostra parte cosciente, ma dal nostro cervello, che non siamo noi, in maniera incosciente e, sembra di capire, autonoma.
Insieme al libero arbitrio svanirebbe anche il concetto di responsabilità: io sono responsabile di una azione se scelgo di compiere questa azione. Le conseguenze sociali sono tutto sommato evidenti: che senso ha punire qualcuno per un crimine, se non è lui il responsabile del crimine, se non ha cioè volontariamente scelto, ad esempio, di rapinare una banca?
Punizioni collettive
Anche ammettendo la plausibilità di queste conclusioni (e, in proposito, ho non pochi dubbi), è comunque possibile pensare ad un uso razionale delle punizioni.
Gary S. Becker e Richard A. Posner sono, rispettivamente, un economista e un giudice. Sul loro blog è possibile leggere due interventi, uno di Posner e l’altro di Becker, sulle punizioni collettive, ossia sulle punizioni che non coinvolgono il responsabile dell’azione da punire.
Gli esempi si sprecano: da Israele che attacca il Libano per le azioni di Hezbollah al datore di lavoro che viene punito per gli errori del dipendente, dal maestro che mette in castigo tutta la classe non riuscendo a scoprire chi ha rotto una finestra alla responsabilità del barista per gli incidenti causati dagli avventori ubriachi.
I due autori si concentrano sulla efficacia di queste punizioni collettive, e concludono che spesso, anche se non sempre, simili provvedimenti funzionano. Solitamente, una punizione collettiva ha senso che non è socialmente più dispendiosa della punizione del colpevole (si pensi al caso estremo della condanna a morte per tutti i parenti prossimi di un assassino) e se le persone punite si trovano in una posizione privilegiata rispetto agli altri, ad esempio se dispongono di informazioni particolari (si pensi al datore di lavoro che dovrebbe conoscere bene i propri dipendenti).
Punire i non responsabili di una azione ha quindi un senso, con buona pace degli apocalittici.
la responsabilità come costruzione sociale, anche senza una sua realtà oggettiva, potrebbe funzionare lo stesso, mi sembra.
un libro divulgativo e interessante (mi permetto un suggerimento) è “Felicità. Un’ipotesi” di Haidt, Codice edizioni, mi sembra 2007. Ci sono discussioni anche sul cervello che decide “da solo”, i dati raccolti sono utili. Le conclusioni di Haidt le puoi condividere o no, ma almeno il lato dei fatti è documentato e facile da leggere.
ciao
Mi pare basto su una definizione fantasiosa di “libertà” e “responsabilità”.
Se soffro di un tic alla mano e per strada do un colpo involontario ad un passante, che conosce la mia malattia, sentirò cmnq l’impulso di chiedere scusa.
Perché? Si chiede scusa solo per qualcosa di cui si è responsabili.
Replicare che questo sarebbe una reazione “irrazionale” è fuori luogo: è appunto un comportamento spontaneo, che non discende da una riflessione e non può essere razionale o irrazionale.
Certo, è una responsabilità tutta diversa da quella del lucido calcolatore- ma perché dovrebbe esserci solo un tipo di responsabilità, appunto quella di tipo penale?
E’ più semplice pensare che la nostra consapevolezza e senso dell’io abbracciano anche tutto ciò che è nostro, ma non controlliamo: il corpo, l’istinto, il nostro passato ormai irrimediabile, la situazione in cui ci troviamo, gli stati di incoscienza…
L’unica cosa che confuta, forse, è il celebre male radicale.
Una coscienza razionale di cose “chiare e distinte” è insufficiente a spiegare una persona.
Questo avrebbe conseguenze sommato evidenti in etica e bioetica( note da molto tempo ), su cui lascio aperta la riflessione… 😉 Ciao!
La fantasia è una facoltà molto sottovalutata, in filosofia 😉
Comunque, l’ho scritto: «Anche ammettendo la plausibilità di queste conclusioni (e, in proposito, ho non pochi dubbi)». Uno dei dubbi è appunto il tuo…
Secondo me ci sarebbe da discutere anche sul concetto di “io”.
Ho letto da piu’ parti questa storia che, forse forse, la coscienza non sarebbe altro che la “storia” che il nostro cervello ci racconta per dare un “senso” al suo agire.
Certo e’ che questa “storia” non e’ pura invenzione e completamente “scollegata” dalla realta’. E dunque, se il mio cervello mi “racconta” che ho voglia di fare una certa azione, forse forse di quell’azione ne avro’ una qualche voglia (qualsiasi cosa, “esatamente”, questo significhi…).
Potrei anche concordare, dunque, che la coscienza sia un epifenomeno. E’ quell'”irrilevante” che, come al solito, e’ di troppo.
“Come al solito” perche’ e’ il solito passo piu’ lungo della gamba: noi (la nostra coscienza, la nostra anima) sarebbe “solo” il risultato dell’attivita’ del nostro cervello? No, e’ impossibile che noi si sia “solo” un intruglio umido e molliccio, dev’esserci qualcosa di piu’! E via con l’irrazionale 🙂
Se fosse davvero irrilevante, difficilmente avremmo una coscienza, perché:
1. il buon Dio non ci farebbe coscienti per nulla; 2. l’evoluzione difficilmente mantiene qualcosa di inutile.
Comunque, hai ragione: appena ci si avvicina a temi che toccano il concetto di anima, l’irrazionalità prende spesso il sopravvento.