Purtroppo siamo tutti condizionati, nel nostro modo di esprimerci, da quella analogia tra sapere e vedere che dai tempi degli antichi greci attribuisce al vedere con gli occhi il privilegio di cogliere l’evidenza del vero. Invece le piccole cose non sono lì per essere guardate ma anche per essere ascoltate, palpate, annusate e, perché no, mangiate. Si chiede quindi al filosofo o all’apprendista filosofo di saper sì vedere le cose, ma anche di saperle ascoltare e gustare, toccare e odorare.
Francesca Rigotti, La filosofia delle piccole cose, Interlinea, Novara, 2004
La conoscenza non riguarda solo la vista: vedere le cose è importate, ma lo è anche annusarle, toccarle, ascoltarle, mangiarle. Anzi, per le piccole cose queste sensazione “secondarie” possono persino essere più importanti dell’aspetto visivo: si pensi alle spezie, che chiedono di venire annusate e assaporate, a un pianoforte, del quale è impossibile capire a vista se è accordato, o a un cuscino, del quale ci interessa la morbidezza e il profumo, e solo secondariamente la forma o il colore.
Possiamo quindi identificare due diverse fonti del pregiudizio visivo: il disinteresse per le piccole cose, che usiamo tutti i giorni e quindi ignoriamo, e il nostro linguaggio, con quella analogia tra vedere e conoscere che ci fa sembrare così naturale l’affermazione che un pregiudizio abbaglia la nostra comprensione del problema.
Ma è un vero pregiudizio? Se studiamo il cervello, scopriamo che la parte dedicata alla visione è più estesa di quella dedicata agli altri sensi: noi conosciamo davvero il mondo attraverso gli occhi. Il pregiudizio non sta quindi nel nostro linguaggio, che riporta un semplice dato di fatto, e neppure nell’ignorare le piccole cose, ma nel credere che annusare la cannella o appoggiare la testa su un cuscino siano azioni più importanti di vedere l’armadietto delle spezie e la porta della camera da letto, mentre se non vedessimo l’armadietto o la porta difficilmente riusciremmo ad annusare le spezie o toccare il cuscino.
Un pipistrello, predatore notturno che conosce il mondo attraverso un sofisticato sistema paragonabile al sonar, conosce il mondo ascoltandolo: i pipistrelli parlerebbero forse di pregiudizi assordanti. Le talpe, magari, porrebbero tutto in termini olfattivi, e così via per le altre specie animali e, lavorando un po’ di fantasia, anche quelle vegetali: come conosce il mondo un girasole?
Si potrebbe ribattere l’evoluzione, che ci ha fornito di un cervello visivo, non è un processo intenzionale, e dedurre dalla maggiore estensione cerebrale anche una maggiore importanza è un passo affrettato. La vista è una grande cosa, ma le grandi cose non esistono senza le piccole cose. In pittura, è possibile solo piccole e semplici cose: un cesto, della frutta. Ma non si possono rappresentare le grandi cose, ad esempio la vocazione di San Matteo, senza dipingere anche le piccole cose che sempre circondano le grandi: il tavolo, la finestra, i cappelli.
A lungo ci si è interrogati se un cieco dalla nascita, che conosce le sfere e i cubi solo attraverso il tatto, sarebbe in grado, una volta acquisita la vista, di riconoscerli senza toccarli. Ma forse occorrerebbe ribaltare la domanda: una persona priva dell’olfatto, del gusto, del tatto e dell’udito sarebbe comunque in grado di vedere il mondo?
Estendendo il discorso, mi tornano in mente i Tralfamadoriani di Kurt Vonnegut, che prendevano in giro noi Terrestri per la nostra visione limitata a uno spicchio, come se indossassimo un elmo o un casco dotato di una piccola feritoia, che permette di vedere soltanto il presente.
Accostamento interessante, però qui non c’è bisogno di aspettare i Tralfamadoriani, che sono indubbiamente una grande cosa: per accorgerci della limitatezza basta pensare a cose piccole e comuni come una brocca, il sapone o la scopa (per citare alcuni delle piccole cose splendidamente descritte da Francesca Rigotti).