Piergiorgio Welby è malato di distrofia muscolare.
Negli ultimi mesi, purtroppo, le sue condizioni di vita sono peggiorate:
Fino a due mesi e mezzo fa la mia vita era sì segnata da difficoltà non indifferenti, ma almeno per qualche ora del giorno potevo, con l’ausilio del mio computer, scrivere, leggere, fare delle ricerche, incontrare gli amici su internet. Ora sono come sprofondato in un baratro da dove non trovo uscita.
Così scrive Welby nella lettera al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Il tema della missiva è l’eutanasia, definita non morte buona o dignitosa, come vorrebbe l’etimologia, bensì morte opportuna, perché «dgnitosa, ovvero decorosa, dovrebbe essere la vita».
Non mi piace scrivere del particolare: preferisco riflettere sul generale, dibattere sul significato dei concetti, non sulle vicende delle persone. Nel personale cerco di cogliere l’universale.
Se ho iniziato con Piergiorgio Welby e la sua lettera a Napoliano, è evidentemente per debolezza, e sempre per debolezza espongo qui la mia opinione: Welby deve poter morire, è giusto che possa morire.
Ed è giusto che i discorsi generali ed universali, quelli che mi piacciono tanto, non dimentichino il particolare e il singolare, che poi è la loro origine, e guardino dritto negli occhi le persone come Piergiorgio Welby.
Sull’eutanasia si è già scritto, su questo sito, sottolineando come la vita non sia una cosa, un bene tra altri beni, e quindi come siano problematiche espressioni del tipo “la mia vita appartiene a me”.
Il dramma di Welby evidenzia un altro aspetto del problema.
Per alcuni la vita e la morte assumono i contorni di concetti netti e ben definiti, qualcosa di simile a un teorema matematico. Eppure le cose non sono assolutamente così ben marcate.
Un anonimo contadino francese del seicento, dimenticato da tutti e seppellito chissà dove, è morto nello stesso senso in cui è morto Ernesto Che Guevara, la cui effigie è presente un po’ ovunque? E cosa dire di Lenin, il cui corpo, imbalsamato, è ancora oggi visibile nel mausoleo a lui dedicato nella Piazza Rossa?
Piergiorgio Welby, le cui condizioni di vita sono così descritte nella lettera a Napolitano, è vivo come lo è un adulto in buona salute, e un adulto è vivo nello stesso identico senso con cui è vivo un bambino nato da pochi minuti?
Si può vivere in una infinità di modi, e di converso anche essere morti in una infinità di modi. È ingenuo parlare di vita e di morte pensando di poterne discutere nei termini di un semplice dualismo.
“Tutelare la vita”: se non si tiene conto di tutto ciò, rischia di essere una espressione vuota, come già accade per termini purtroppo abusati come “accanimento terapeutico” e “morte naturale”.
Il problema è la diffusione capillare dell’equazione vita=dono; finché non sarà accettata la possibilità di essere realmente artefici del proprio destino, l’eutanasia rappresenterà solo la volontà dell’uomo di ergersi al livello del divino.
Fai riferimento alla morte del contadino del Seicento e del Che Guevara, io penso che anche la vita non sia sullo stesso livello e che il concetto che tutti gli uomini nascono con gli stessi diritti e i medesimi doveri sia solo – passami il termine – una grande cazzata: puoi dire che il figlio di un ruandese sieropositivo e che il figlio di Agnelli abbiano gli stessi diritti e i medesimi doveri?
Una parola ricorre spesso nei commenti di chi si dichiara contrario all’eutanasia: amore.
L’amore che dovrebbe riempire l’ultimo scampolo di esistenza a persone come Piergiorgio Welby e restituire la ‘voglia di vivere’ anche in determinate condizioni.
A parte il fatto che Welby, ne sono certo, è attorniato da persone amorevoli comunque, credo che in tale spinta di ‘generosità’ ci sia il desiderio di appagare il proprio amore (verticale) verso Dio, più che l’amore (orizzontale) verso il prossimo.
Un amore inopportuno o, almeno, molto meno opportuno della morte che lo stesso Welby richiede.
Marco: Il problema, secondo me, non è tanto la vita come dono, quanto i nebulosi ragionamenti di chi sostiene che, se si permettesse l’eutanasia, si arriverebbe al genocidio e all’eugenetica.
Non capisco se quelli che propongono simili ragionamenti siano seri, e seriamente non comprendano la differenza tra lasciare a qualcuno la possibilità di scegliere e imporre a tutti una scelta.
Marcoz: se non sbaglio, è stato Buttiglione a dire che, in casi come questi, bisognerebbe invitare le persone ad amare comunque ed in ogni caso la vita.
Belle parole. Ma se Welby non riesce ad amare la sua attuale vita? Cosa si fa? Gli si manda Buttiglione tutti i giorni finché non si convince?
Più in generale: va bene invitare a prendere in considerazioni altre alternative, ma può la comunità costringere qualcuno ad amare> la propria vita?
“può la comunità costringere qualcuno ad amare> la propria vita?”
Evidentemente, per molti sembra essere un obbligo morale…
Un obbligo morale non è un obbligo legale.
cito
“Io amo la vita, Presidente. Vita è la donna che ti ama, il vento tra i capelli, il sole sul viso, la passeggiata notturna con un amico. Vita è anche la donna che ti lascia, una giornata di pioggia, l’amico che ti delude. Io non sono né un malinconico né un maniaco depresso – morire mi fa orrore, purtroppo ciò che mi è rimasto non è più vita – è solo un testardo e insensato accanimento nel mantenere attive delle funzioni biologiche“.
non c’e’ molto da aggiungere e forse questo e’ un caso poco adatto a discutere della questione (mi chiedo quale sia tale). pro o contro l’eutanasia non credo sia il tema principale, io sono dell’idea che il “legale” non deve obbligare alla vita cosi come non deve obbligare alla morte.
la vita non e’ di chi la vive? vero: non abbiamo scelto di vivere. ma dove finisce la vita di tutti e dove termina l’esperienza della condivisione delle responsabilita’.
cos’e’ l'”accanimento terapeutico”? tenere in vita quest’uomo non e’ forse piu’ prevericante che lasciarlo alla sua fine naturale? non e’ forse il primo passo in direzione della “responsabilita’ esclusiva” della vita?
Pro o contro l’eutanasia, come pro o contro l’aborto, il suicidio, il divorzio, la bigamia e così via, sono tutte questioni bifronte.
Da una parte il problema morale: una scelta personale, e una proposta o presentazione agli altri.
Dall’altra parte un problema politico, legale, sociale: una scelta collettiva, e una imposizione agli altri.
Posso essere moralmente contrario all’eutanasia, all’aborto, al suicidio e al divorzio (e in una certa misura lo sono: attualmente non ho intenzione di uccidermi, di divorziare da mia moglie o invitarla ad abortire) ma, secondo me, occorre essere politicamente favorevoli a queste cose, favorevole a che vi siano delle possibilità e non delle imposizioni.
Su repubblica ho letto una dichiarazione di Castagnetti esemplare: se si permettesse il suicidio, si arriverebbe “anche alla legittimazione morale del suicidio”. E questo sarebbe un politico?
e’ ancora di tutti la vita del signor Welby oppure e’ diventata dei medici che tarano ogni mattina gli strumenti?
concordo con le osservazioni di castagnetti ma ho il dubbio di cui sopra sulla definizione della parola.
Ehm… sig. Renato, quali sono esattamente le parole di Castagnetti che condivide?
mi riferisco in particolare a questo passaggio:
“Nè può essere condivisa l’idea che la vita appartiene a chi la possiede e che debba essere tutelata la sua libera determinazione al riguardo”
r
E chi appartiene se non all’individuo stesso? A dio? Alla società?
“e A chi appartiene…”
credo appartenga a tutti gli uomini
l’individuo non sceglie la vita: riceve la vita dagli altri.
Va bene, l’individuo riceve la vita da altri e poi può ‘girarla’ ad altri ancora. E allora?
La necessità biologica della nostra specie è questa; sono dell’avviso che sacralizzarla non porti grandi giovamenti.
Ci si dovrebbe, forse, sentire in debito con chi è venuto prima di noi e che ci ha generato? Se a qualcuno piace pensarlo che lo pensi pure.
Sono poco propenso a generalizzare.
La vita non è sempre una benedizione: può andarci bene, meno bene o malissimo (al di là di ciò che è nelle nostre possibilità).
‘Donare’ la vita mi sembra lo sforzo minore, è viverla che ne richiede molti.
Questo, per me, è sufficiente a rendercene padroni assoluti.
Di fronte a chi ha dimostrato il coraggio di saperla affrontare con tutte le proprie forze, e che manifesta coscienza e piene facoltà mentali, non intendo togliere nemmeno un briciolo di sovranità sulla sua persona.
Togliere quel “Di fronte”… (accidenti, devo rileggere meglio!)
Sono d’accordo con Renato, e in disaccordo su Marcoz, sul non poter affermare “la mia vita mi appartiene”.
Sono invece in disaccordo con Renato sul resto: la vita non appartiene a nessuno, perché non è una cosa o un bene, ma la condizione di esistenza di cose e beni.
Trovo filosoficamente problematico parlare di “diritto a morire”, ma non trovo nulla di male nel permettere il suicidio, perché è di questo, del suicidio, che si parla.
Rimando a Dolcezze” per i dettagli.
Sono d’accordo, Ivo, sull’assurdità della costruzione di una frase come “la mia vita mi appartiene”.
Renato, però, non intendeva discutere di grammatica, di sintassi e – detto in soldoni – si dichiarava contrario all’autodeterminazione dell’individuo (il fatto che poi sostiene “la vita è di tutti gli uomini” sembra darmi ragione).
Quindi, quando esortavo il mio interlocutore a dirmi a chi ‘appartiene la vita’, intendevo chiedere a chi ‘spetta il compito di decidere per la propria vita’.
Marcoz, avevo capito le tue intenzioni e aggiungo quello che mi era sfuggito ne precedente commento: sul resto sono in disaccordo con Renato e in accordo con te.
Ad ogni modo, lo sai che ho il pallino per “i discorsi generali ed universali” 😉