Due o tre cose sui Jova Beach Party

La mia opinione sulla sostenibilità ambientale dei Jova Beach Party – che si ammantano di ecologismo e rispetto per la natura – è abbastanza semplice e banale, sarei tentato di dire “di buon senso” se questa espressione non fosse così spesso utilizzata per evitare di giustificare le proprie idee e dare dei cretini a chi non la pensa come noi.

Comunque: non si tratta di vietare concerti e grandi eventi per questioni ecologiche, ma di ragionare su come minimizzare questo impatto e portare migliaia di persone in un luogo non attrezzato difficilmente rientra in questa strategia; dubito che questi concerti siano la minaccia principale per gli habitat costieri, ma se invece di dire “è figo andare al concerto in costume da bagno” ti presenti come difensore della natura, è normale che poi uno vada a guardare se e quanto è vero.

Il fratino, uccello che nidifica sulle spiagge dei JBP (foto di “Mike” Michael L. Baird, CC BY 2.0)

Detto questo, e rimandato per approfondimenti a chi ne sa più di me (no, non è Tozzi), qualche riflessione in più su questa storia – che lascio così, poi ognuno le applichi come vuole ai Jova Beach Party e alle polemiche di questi giorni.

Lontani dalla natura. Immaginiamo una persona che vive in città e va a un concerto in uno stadio o in un parco urbano. E ora immaginiamo una persona che vive in campagna e va a un concerto sulla spiaggia o in un bosco. È inevitabile pensare che il secondo sia più “vicino alla natura” e quindi più “ambientalista” del primo, ma sospetto che già solo per una questione di trasporti l’impatto nel primo scenario sia inferiore. Non è che per il bene del pianeta dovremmo andare tutti a vivere in megalopoli con magari pochissimo verde urbano ed evitare di fare passeggiate in montagna, però dovremmo abituarci a valutare razionalmente l’impatto ambientale delle nostre abitudini, al di là dell’effetto alone legato all’alzarsi la mattina col cinguettio degli uccellini. Penso che ogni iniziativa di sensibilizzazione che non tenga conto di questo aspetto sia, per quanto benintenzionata, fallace.
Un piccolo esempio – è il risultato di una ricerca di alcuni anni fa riassunta da Dario Bressanini –: guidare fino a una fattoria per comprare frutta e verdura “a chilometro zero” potrebbe essere più inquinante di prendere al supermercato sotto casa prodotti che arrivano dall’altra parte del mondo.

Quanto c’è di male nel greenwashing. Ho fatto una breve ricerca scoprendo – ma la cosa non mi sorprende affatto – che non c’è una definizione univoca di greenwashing. Ok, prendendo Wikipedia possiamo dire che si tratta di una “strategia di comunicazione (…) finalizzata a costruire un’immagine di sé ingannevolmente positiva sotto il profilo dell’impatto ambientale” ma cosa vuol dire “ingannevolmente positiva”? Che il vero scopo di ridurre gli imballaggi non è proteggere l’ambiente ma risparmiare sui costi? Ok, non sei sincero ma alla fine il risultato è positivo per l’ambiente. Oppure stai facendo una cosa che riduce di poco l’impatto ambientale ma ha una resa mediatica alta? Già più grave, ma alla fine anche le piccole cose contano. Oppure stai mentendo spudoratamente infiocchettando con l’ecologia una pratica che magari è più inquinante di prima?
Credo sia importante distinguere tra questi casi, evitando di condannare allo stesso modo pratiche diverse per gravità e conseguenze sull’ambiente.

Il buon esempio. Credo sia importante dare il buon esempio, ma soprattutto credo che il primo buon esempio da dare sia evitare di mostrarsi i più duri e puri attaccando l’altro senza prendere in considerazione il contenuto delle critiche.
Mi piacerebbe molto che questo dibattito portasse a una migliore tutela delle coste, ma non mi faccio troppe illusioni.

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