Qualche giorno fa ho finito di leggere American Gods di Neil Gaiman.
Un passaggio mi ha incuriosito:
The Widow Paris’s husband, Jacques […], had told Marie a little about the gods of St. Domingo, but she did not care. Power came from the rituals, not from the gods.
Il marito della vedova Paris, Jacques […], aveva raccontato a Maria un po’ sugli dei di S. Domingo, ma a lei non importava. Il potere viene dai rituali, non dagli dei.
Il potere viene dai rituali, non dagli dei.
Il che significa, dal mio punto di vista, che il problema non è credere in dio o negli dei, ma affidarsi ciecamente ai riti.
All’ateismo e all’agnosticismo andrebbe affiancato un movimento di scetticismo nei confronti dei riti.
Ivo, in realtà questa frase dice molto più di quel che sembra. Il rituale ti dà la sensazione di avere il controllo nei confronti dei fenomeni fuori dalla tua portata. E’ quello che fa il linguaggio simbolico nei confronti degli atti motori fuori portata: il linguaggio attutisce lo stress di un atto non compiuto.
Allo stesso modo, il rituale, la sua esecuzione, unendo il carattere simbolico della divinità e quello motorio del gesto rituale, rende manovrabile anche qualcosa (l’escatologico) che sarebbe al di là del linguaggio.
Ho un parente dichiaratamente ateo al termine del suo cammino, e mi chiedevo l’altro giorno che cosa ne sarà del suo funerale, come del funerale di molti atei in un mondo di pseudocredenti. Probabilmente, per volontà dei familiari e per pigrizia, sarà una dignitosa cerimonia religiosa, officiata da un prete attento e rispettoso delle altrui (mis)credenze, come ce ne sono tanti, di questi preti. Senza pompa magna, senza politici in prima fila, tra le persone che lo rispettavano e le persone di passaggio, che scopriranno, forse con un po’ di compassione, di un membro di una comunità che è venuto a mancare, per davvero, all’affetto dei suoi cari.
Poi scorrono nella mia mente le immagini del funerale di Aldo Moro.
Poi penso che uno degli aspetti che mi ha sempre incuriosito dell’anarchismo è che esiste, anche se molto libero e disordinato, un rito funebre anarchico, in genere una banda che intona canzoni della tradizione anarchica e un’orazione funebre di un parente. Mi viene in mente la sincera (ma indotta, dalla popolarità) commozione di tantissimi al funerale di De André.
Poi penso ai funerali di Stato dei soldati italiani uccisi in varie missioni.
Per parlare di cose più lievi: mi viene in mente il rito (laico? religioso?) di cenare sulle rive dei canali di Venezia nel giorno del Redentore, a luglio, di come la gente offre da bere e invita estranei a sedersi alla tavola (davvero!), di quanta comunicazione avviene, faccia a faccia, e la comunicazione orizzontale è sempre un fatto sovversivo. Però poi ci sono i fuochi d’artificio, offerti dal Comune, e la festa è comunque una festa per ringraziare un santo (= tributare la Chiesa) della fine di qualche calamità, e questa è manifestazione di potere.
Ad Haiti, a fine ‘700, gli schiavi neri avevano impiantato i loro canti nelle tradizionali parate religiose. Ballavano, cantavano sotto gli occhi dei francesi, ed hanno fatto una rivoluzione.
Secondo me le persone coinvolte in un rito rinunciano ad una fetta di potere, smettono un po’ della loro maschera, per fondersi con gli altri. Quando avviene l’integrazione di culture diverse? Quando io partecipo ai loro riti, li comprendo e li valorizzo, e quando loro partecipano ai miei.
Il prolema è che spesso c’è chi al rito rimane estraneo, eppure se ne impossessa. E ne fà un randello.
Purtroppo o per fortuna una guerra indiscriminata ai riti sarebbe controproducente, se è vero come è vero che essi svolgono nella convivenza sociale anche un ruolo razionale: quello di Schelling points
@paopasc: Il rito come “ancoramento psicomotorio” delle credenze? Mi sembra plausibile.
@tomate: Molto interessante il tuo resoconto di riti.
@broncobilly: Io infatti ho parlato di “scetticismo” nei confronti dei riti, non di “guerra indiscriminata”
Il rito si è imposto in tutte le culture umane perché è un metodo di risoluzione dei momenti di crisi, individuale e sociale, che si è dimostrato estremamente efficace.
Il rito ottiene questo risultato perché chi lo compie non è in realtà considerato responsabile delle proprie azioni. E questo accade perché si tratta di un evento sociale espletato secondo convenzioni e in questo modo sottratto per principio alla volontà individuale. La responsabilità personale, cioè, viene notevolmente ridimensionata.
In questo senso il rito ha poco a che vedere con il bisogno di controllare eventi incontrollabili (#1) o con la rinuncia di un pò del proprio potere per unirsi agli altri (#2): è l’istituzionalizzazione di momenti di istintualità (se così si può dire) perché la convenzionalità degli atti rituali li esclude dalla consueta riflessione razionale che precede un’azione.
In questo senso gli individui che partecipano ai riti non lo fanno per mettere in comune con gli altri i loro potere ma pensano al contrario di accrescerlo, di essere ancora più legittimati a comportarsi in un certo modo, proprio in quanto partecipanti ai riti.
E’ possibile sottrarsi alla tirannia dei riti? Creo di sì, ma solo acquistando sempre più consapevolezza delle proprie scelte individuali e non sentendo continuamente il bisogno della pubblica approvazione nelle nostre decisioni attraverso l’espletamento di riti consolidati.
Un esempio: il mio funerale non si svolgerà in alcuno dei modi segnalati da tomate. Il mio cadavere verrà prelevato dagli incaricati della Società italiana di cremazione, cremato e le ceneri, per quanto mi riguarda, possono andare a finire anche in un cesso qualsiasi.
Saluti atei
@Filopaolo: Il ragionamento mi piace, ma ho una perplessità.
Scrivi «Chi compie [il rito] non è in realtà considerato responsabile delle proprie azioni». È vero, però i riti sono precedenti il concetto di responsabilità – abbiamo riti anche in società nelle quali le azioni avevano cause esterne – dei, demoni, ecc. (penso agli interessanti studi di Eva Cantarella sulla Grecia antica).
La responsabilità degli atti compiuti da un individuo è stata riconosciuta, con modalità e limiti differenti, in tutte le culture. E questo indipendentemente dalla presenza di un sistema codificato di regole.
Per esempio, l’esame dei testi omerici attesta che, anteriormente all’affermarsi di un sistema giudiziario compiutamente organizzato come quello del periodo classico, era comune l’uso della parola “aitia” (causa, responsabilità di un’azione), prima ancora che questa parola assumesse, in seguito, il significato tecnico di “accusa”, “imputazione”.
@Filopaolo: Sì, il concetto di responsabilità / imputazione è anteriore alle regole codificate. Dovrei riprendere i libri di Eva Cantarella, ma il concetto di imputazione ha avuto una sua evoluzione e, banalizzando al massimo, direi che si è passati da “è colpa degli dei” a “è colpa tua”.
si è passati da “è colpa degli dei” a “è colpa tua”
Finchè la psicologia non ha legittimato di nuovo l’idea di forze imponderabili che comandano le nostre azioni. 😉
@kirbmarc: Esattamente. Spero che le forze imponderabili della psicologia abbiano più realtà degli dei omerici…
Sì, anch’io dovrei andarmi a rileggere “Psiche” di Rohde per poter affrontare il tema con più argomenti. Se non lo hai letto, te lo consiglio: scava (fin dove consentono i documenti) fino all’origine storica del problema.
@Filopaolo: Ho aggiunto Psiche alla lista desideri di Anobii. Ne riparleremo quando l’avrò preso e letto 😉