Dovremmo tenere conto delle altre narrazioni nella comunicazione della scienza?

Nel bene o nel male purché se ne parli“: a me questa frase, più che una strategia di comunicazione, è sempre sembrata una comoda giustificazione da usare quando qualcosa è andato storto. Ma non son un esperto di marketing e immagino che in determinati contesti – ad esempio quando quello che ti interessa è togliere spazio mediatico ai concorrenti – spararla grossa e raccogliere critiche possa avere qualche vantaggio.

Non credo che questo sia il caso per chi fa comunicazione della scienza: qui la fiducia e l’autorevolezza – quello che nel marketing dovrebbe essere la brand image – sono molto importanti ed essere conosciuti come quello che dice cavolate o difende una determinata tesi a priori potrebbe non essere una bella cosa, quantomeno se si vuole raggiungere un pubblico che la pensa differentemente. Forse può essere una strategia interessante se l’idea è “predicare ai convertiti”, parlare a chi è già convinto di un certo argomento. Il problema è che il controllo sul pubblico è molto limitato e anche quello che viene detto in una conferenza per gli addetti ai lavori può sfuggire di mano ed essere oggetto di discussione, e distorsione, pubblica.

Ora, la comunicazione si gioca molto sul concetto di frame o cornice: quando acquisiamo una nuova informazione, la inseriamo in una rete di idee e concetti che già abbiamo e ad avere la priorità è questa cornice concettuale. In altre parole: se Tizio è convinto che le auto elettriche siano il futuro della mobilità sostenibile mentre Caio pensa che siano una moda pseudoecologista, l’informazione che la tal casa automobilistica produrrà più auto elettriche viene inserita nelle due cornici e assume significati molto diversi, mentre se un’informazione non può essere inserita nella cornice concettuale, è facile che venga ignorata o ridimensionata.

Il classico consiglio che ne segue è di non limitarsi a fornire informazioni ma, se vogliamo convincere una persona che non ha ancora un’opinione netta, anche un frame concettuale nel quale inserire quelle informazioni.
Mi chiedo in quali condizioni valga la pena fare il ragionamento opposto e chiedersi in quali frame potrebbero finire le nostre informazioni. Perché anche un’informazione chiara e oggettiva può fare una brutta fine, nel frame sbagliato.

Mi spiego con due esempi. Il primo riguarda il WEF, il Forum di Davos che, in quanto importante organizzazione di lobbying, si merita molte critiche, ma non tutte visto che è al centro di diverse fantasie di complotto. Ha senso che in questo contesto si inventino, come nome per un progetto di ripresa – che peraltro nessuno ha chiesto loro di elaborare, ma questo è un altro discorso – “The Great Reset”? O che nel raccontarci un possibile futuro in cui sempre più spesso si farà ricorso a forme di noleggio e affitto o a servizi offerti gratuitamente, si intitoli che “nel 2030 non possederai nulla e sarai felice” dando il via a fantasie sull’abolizione della proprietà privata?
Vista la scarsa stima che ho verso istituzioni come il WEF, per me la soluzione migliore sarebbe smettere di dire e scrivere qualsiasi cosa, ma mi accontenterei di una maggiore attenzione alle parole utilizzate, per evitare di dare materiale così pregiati ai complottisti.

Il secondo esempio riguarda una review sugli antinfiammatori e il COVID firmata da Giuseppe Remuzzi e altri ricercatori dell’Istituto Mario Negri. Per come l’ho ricostruita: gli antinfiammatori erano, insieme ad altri farmaci inutili o pericolosi, inseriti in protocolli non ufficiali di cure domiciliari e adesso che un lavoro scientifico indica che gli antinfiammatori potrebbero essere efficaci nel ridurre le ospedalizzazioni è tutto un “avevano ragione loro” e “il COVID si può curare ma non lo dicono perché si vuole spingere il vaccino”. La storia è spiegata bene da Beatrice Mautino ed Emanuele Menietti nel podcast Ci vuole una scienza.
Qui l’opzione silenzio non è ovviamente percorribile: non ha molto senso pensare di non pubblicare una ricerca perché potrebbe essere manipolata o fraintesa e su un articolo parla di antinfiammatori, è difficile pensare di non citarli nel titolo… Tuttavia qualche cautela in più a livello di comunicazione dei risultati forse la si poteva auspicare se non dai ricercatori stessi, quantomeno dai giornalisti.

Certo, pretendere di considerare tutte le possibili cornici concettuali è praticamente impossibile, ma se uno conosce un tema conosce anche le principali narrazioni di scettici e contrari. Ed è vero che, come si dice in questi casi, uno è responsabile di quello che dice, non di quello che gli altri capiscono, ma qui non si vuol dare la colpa a nessuno – a parte forse il WEF, ma di nuovo è un altro discorso –, ma solo cercare le pratiche comunicative migliori.

Con un’autorevolezza ben diversa dalla mia, quasi un anno fa Nature ha pubblicato un commento di Cecília Tomori dal titolo inequivocabile: “Scientists: don’t feed the doubt machine”. Secondo l’autrice è necessaria una maggiore comprensione delle strategie utilizzate per creare dubbi e diffondere ignoranza, non solo conoscendo quali istituzioni sono in realtà agenzie di lobbying, ma anche guardando al contesto politico e commerciale della ricerca ed evitando di fare da inconsapevoli megafoni di informazioni fuorvianti.