Un Dio amorevole (terza e ultima parte)

Il Direttore e X rimasero alcuni minuti in silenzio. Seduti uno di fronte all’altro, i due si fissavano con uno sguardo molto simile a quello dei pistoleri durante i duelli.
Il primo a parlare fu X. “Ci sono dei problemi con il romanzo, vero?”
Il Direttore, una volta tanto, cercò di essere gentile: “Carissimo, tu sai quanto la casa editrice, in passato, ha creduto in te. Io ti sono sempre stato vicino, ho preso sempre le tue difese. Oggi sono venuto qui, a parlare con te, appunto perché io credo in te. Sai questo cosa significa?”
“Che non volete pubblicare il mio ultimo romanzo.”
Ecco a cosa porta la gentilezza, pensò il Direttore.
“Mi rendo conto di aver compiuto delle scelte stilistiche decisamente audaci”
Il Direttore bevve un sorso di birra e decise di perseverare con la gentilezza: “Scelte che io condivido. Il tuo è un grande romanzo, e sono sicuro che un giorno verrà capito da tutti. Io però devo pensare anche ai lettori di oggi…”
“Non è una questione di tempo. Il romanzo fa schifo oggi e continuerà a fare schifo anche domani.”
Il Direttore posò la birra sul tavolino e fissò X dritto negli occhi. Poi posò nuovamente lo sguardo sulla bottiglia: non sapeva se usarla come arma oppure se bere un altro sorso di birra. Decise di bere un altro sorso.
“Mi scusi, ma se, per usare le sue parole, il romanzo è una schifezza, perché l’ha scritto? E perché vuole pubblicarlo?”
“Devo farlo.”
Il Direttore rimase per circa un minuto in silenzio, forse per cercare di capire il significato di quella risposta, o forse perché aspettava qualche parola chiarificatrice. Quando si rese conto che l’attesa non avrebbe portato a nulla, decise di saltare al collo di X per cercare di strangolarlo.
Venne fermato dal Collaboratore, che ovviamente si ritrovò licenziato per grave interferenza nelle scelte editoriali.

Un po’ per riconoscenza nei confronti del Collaboratore, un po’ per paura del Direttore, X decise di spiegare ai due il motivo delle sue singolari scelte stilistiche.
“Come forse saprete, da diversi anni faccio saltuario uso di droghe…”
Il Direttore stava per dire ne erano a conoscenza, e anzi che in cassaforte avevano un ricco dossier sul suo rapporto con gli stupefacenti, dossier pronto ad essere usato qualora X decidesse di lasciarli per un’altra casa editrice, ma preferì stare zitto e lasciar continuare il racconto.
“Secondo alcune culture, le droghe permettono di accedere a nuovi livelli di conoscenza, di entrare in contatto con nuovi mondi.”
Il Direttore continuò a restare in silenzio, questa volta perché era convinto che gli unici nuovi mondi con i quali la droga poteva metterti in contatto erano quelli della malavita organizzata e della polizia.
“Circa sei mesi fa, un amico mi diede un nuovo tipo di droga. Un fungo himalayano, credo.”
Certo, nel senso che avrà grattato via la muffa cresciuta dietro un poster del K2, pensò il Direttore, sforzandosi di restare ancora in silenzio.
“Questo fungo mi ha fatto incontrare i personaggi dei miei romanzi.”
Il Direttore non si trattenne più: “Incontrare i cosa?”
“I personaggi dei miei romanzi, e non sono cose: sono persone, come noi! E, proprio come noi, possono soffrire.”
“Soffrire?”
“Sì, soffrire. E hanno sofferto tanto, i miei personaggi: non ho risparmiato loro praticamente nulla: amori infranti, lutti, malattie… Io, che tutto posso, che ho il potere assoluto delle loro vite, li ho torturati. Per loro io sono come un Dio, onnipotente e onnipresente, e sono stato un Dio meschino e crudele, che li ha fatti soffrire per l’unico scopo di far divertire me e i miei lettori!”
Mentre il Direttore rifletteva su come far soffrire X per lo stesso unico scopo, ossia il divertimento, intervenne in collaboratore: “Deve essere stata un’esperienza terribile…”
“Sì, terribile: ero lì, insieme a loro, alla loro infelicità, al loro dolore… tutta quella sofferenza per cosa? Per niente: per avere qualcosa da raccontare ai miei lettori. Quante volte ho rinunciato a un lieto fine per avere un finale insolito e avere qualche recensione positiva in più! Dovevo porre fine a tutto questo, capite? Dovevo donare loro la felicità. Dovevo trasformarmi in un Dio amorevole e premuroso.”
Smettere di fumare quei funghetti di dubbia provenienza sarebbe stato molto più semplice, pensò, in silenzio, il Direttore.
“Per questo ho scritto questo nuovo romanzo: per regalare ai miei personaggi la felicità. E per questo voi dovete pubblicarlo: solo con la pubblicazione tutto ciò diventerà reale.”
Quest’ultima frase fece scattare una sorta di interruttore nella testa dell’editore: “Solo con la pubblicazione le loro sofferenze cesseranno? Non basta l’aver scritto il seguito? Deve per forza venire pubblicato?”
“Sì.”
“Bene bene,,,”
“Quindi ha intenzione di pubblicare il mio romanzo?”
“Assolutamente no.”

Quella mattina, niente nebbia e pochissimo traffico: il tragitto dalla villa alla casa editrice era stato tranquillo come non mai. Cosa poteva rovinare una giornata così?, si chiese il Direttore.
Appena il computer finì di scaricare la posta elettronica, la giornata si confermò meravigliosa: le vendite dell’ultimo romanzo di X si erano rivelato superiori alle più rosee aspettative.
Aveva proprio avuto un’idea eccezionale: trasformare l’illeggibile romanzo di X in una nuova serie, intitolata “vent’anni dopo”, nella quale si arrivava a un lieto fine, ovviamente meno surreale di quello originalmente proposto da X: i morti non sono resuscitati e le lunghe faide tra famiglie non sono sparite come neve al sole, ma si è giunti a faticosi compromessi.
Si ricordava ancora come era riuscito a convincere X.
“Bene bene, caro il mio scribacchino: a quanto pare non sei l’unico Dio esistente, per i tuoi personaggi. Io sono una divinità altrettanto potente. Ti ricordo che posso affidare a qualche ghost-writer qualche romanzo pieno di dolore e sofferenza. Posso torturare quelle persone in modi che non puoi neppure immaginare.”
A volte, un Dio amorevole non è sufficiente.

Qui la prima parte del racconto e qui la seconda.

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