Notte afosa. Sonno. Un caffè turco greco bello forte per cercare di non cedere subito al sonno e leggere ancora qualche pagina di Kelsen (Il problema della giustizia).
A pagina 52, il caldo e il sonno hanno la meglio, e gli occhi si chiudono. La caffeina, tuttavia, continua a stimolare il cervello, che rielabora quanto Kelsen ha scritto sull’uguaglianza di fronte alla legge:
Se dunque non di deve prendere in considerazione alcuna diseguaglianza, allora tutti gli uomini sono eguali e tutto è uguale. Nella norma «non si deve uccidere alcun uomo» tutti gli uomini sono trattati in modo eguale. Quest’uguaglianza però si riferisce soltanto al «non-venir-ucciso», e non a tutti i possibili tipi di trattamento. Nei riguardi dell’applicazione della pena si deve assolutamente tener conto della differenza fra l’uomo che commette un reato e l’uomo che non lo commette.
Improvvisamente mi ritrovo in una piazza affollata. Ai lati della piazza, alcuni maxischermi, al momento spenti ma pronti a trasmettere qualcosa. Ma cosa? Gli europei sono finiti, le olimpiadi devono ancora iniziare. E perché sono tutti nervosi, come se stesse per accadere qualcosa di molto brutto?
Chiedo a una ragazza vicino a me che cosa è successo. Questa mi guarda con lo stesso sguardo che userei io se mi chiedessero informazioni sulla straordinaria invenzione della ruota.
Provo a giustificarmi, dicendo che non sono di quelle parti. Non è neppure una scusa: non ho la minima idea di dove mi trovi.
Lei continua a fissarmi come se arrivassi dalla luna (o forse mi trovo sulla luna: è tutto così strano). Decide tuttavia di darmi retta, forse solo per allentare la tensione.
«Hanno ucciso una persona, due settimane fa. Hanno emesso il verdetto e tra poco diranno chi condanneranno.»
«Ma chi è stato ucciso?»
«Non lo so, un ragazzo, credo.»
«Non capisco: se non conoscevi la vittima, perché sei qui? Perché siete tutti qui? È così importante conoscere il nome dell’assassino?»
«Il nome dell’assassino? Ma da dove vieni, tu?»
«Te l’ho detto, non sono di queste parti.»
«Non interessa a nessuno scoprire il nome dell’assassino: siamo qui per sapere il nome del condannato. Potrebbe essere un amico o un parente.»
«Scusa, ma non capisco: il condannato è l’assassino, no?»
«Perché dovrebbe esserlo? Sarebbe una discriminazione: condannare una persona per le sue azioni. Gli uomini sono tutti uguali.»
«Ma, allora chi viene condannato?»
«Una persona a caso. Tra poco avrà inizio il sorteggio.»
«Il sorteggio?»
«Sì, di fronte al caso siamo tutti uguali, non ci sono discriminazioni. Tra poco diranno il numero del condannato.»
«Il numero?»
«Sì, il numero. Il mio è 332877748, tu invece sei il 416997364.»
«E tu come fai a saperlo?»
Lei scoppia a ridere. «È scritto lì, sulla tua camicia.»
Prima non ci avevo fatto caso, ma ogni persona ha, sul proprio vestito, una targhetta con un numero. Me compreso.
«Ma tutto questo è assurdo. Così si punisce un innocente!»
«E allora?»
«Non è giusto.»
«Discriminare le persone in base a quello che hanno fatto, invece, è giusto?»
«Quello che dici non ha senso. Possibile che nessuno si sia ribellato, con tutti i crimini che vengono commessi…»
«Tutti i crimini? Questo è il primo omicidio da dieci anni. Di furti ne capiteranno al massimo un paio all’anno.»
«Solo un paio di furti in un anno?»
«È ovvio: siamo tutti molto attenti e, se vediamo qualcuno che inizia a commettere un crimine, o anche semplicemente che commette qualche imprudenza, interveniamo subito. Non sia mai che venga condannato un nostro amico.»
«Tutto questo è assurdo.»
«Non capisco cosa ci sia di così assurdo. Adesso zitto, che stanno per annunciare il numero del condannato.»
I maxischermi si erano già accesi da qualche minuto, senza che me ne fossi accorto. Un individuo dai lunghi capelli bianchi iniziò a scandire alcune cifre.
«Quattro. Uno. Sei. Doppio nove. Sette. Tre. Sei. Quattro.»
Quattro uno sei nove nove sette tre sei quattro.
416997364.
È il mio numero.
Improvvisamente vengo circondate da alcune persone in divisa, apparse dal nulla. Mi prendono e mi gettano in un pozzo, nel quale resterò per dieci anni.
Se solo qualcuno fosse riuscito a fermare l’assassino!
Apro gli occhi. Sono a casa. In mano ho il libro di Kelsen. Sul tavolo, la tazzina, vuota, del caffè turco greco. Decido di bere una camomilla e andare a dormire.
interessante distopia, ben tornato 😉
Caffé greco?
solo un appunto in stile filosofia del linguaggio (o dello “scassamaroni”): “la legge è uguale per tutti” non porta il risultato del tuo incubo in cui la legge colpisce a caso. ma lo può fare la proposizione “tutti sono uguali di fronte alla legge”.
comunque, ti invidio il viaggio in grecia (anche se io punto a olimpia e dintorni, peloponneso, montagne) 🙂
Bentornato, e complimenti per la “prova kafkiana” (o “dickiana”?) davvero ispirata.
@ferrigno: distopia? Ma se la criminalità è praticamente scomparsa!
@Marco: Sono appena tornato dalla Grecia, e a ordinare lì un caffè turco (che credo assolutamente indistinguibile dal caffè greco) rischi la vita 😉
@alex: Eh sì, ma nelle aule dei tribunali c’è scritto “la legge è uguale per tutti”…
@luca massaro: Lo confesso: mentre scrivevo mi erano proprio venuti in mente quei due nomi (Kafka però avrebbe partorito qualcosa di ancora più inquietante, ne sono sicuro).
E’ vero, i greci sono permalosissimi su questo.
Greek coffee, not turkish coffee!! 🙂
Inquietante.
@Stefano: E mi sono sognato tutto questo con un caffè greco: pensa cosa devono essere gli incubi da peperonata… 😉