Sono due le cose incredibili di Avatar – La via dell’acqua. La prima è ovviamente l’esperienza visiva e sonora, con un nuovo ambiente di Pandora in cui immergersi grazie agli effetti speciali.
La seconda è la pochezza della sceneggiatura. Il primo Avatar aveva una storia incredibilmente classica e prevedibile; il secondo capitolo alla prevedibilità unisce incoerenze e insensatezze varie. Immagino che il processo creativo sia andato grosso modo così: James Cameron riunisce il team di autori – il soggetto è firmato anche da Rick Jaffa, Amanda Silver, Josh Friedman e Shane Salerno –, dice cosa vuole filmare e questi si inventano la prima cosa che possa giustificare quelle scene. Rivoglio il cattivo interpretato da Stephen Lang! Facciamo che prima di morire ha fatto una copia della propria coscienza che adesso viene riversata in un clone. Voglio mostrare un mondo acquatico! Bene, il protagonista abbandona la foresta perché boh, vuole sfuggire al cattivo? Voglio una grande caccia a qualcosa di simile a dei cetacei senzienti! Facciamo che li cacciano perché hanno un siero che arresta l’invecchiamento. E così via.
Magari lo scrittore Steven Gould, al quale è stato affidato il compito di scrivere i romanzi tratti dai film, troverà delle giustificazioni credibili. Ma il film è tanto una gioia per gli occhi e le orecchie quanto una sofferenza per chi cerca di tenere insieme gli eventi. Suggerirei, per il prossimo film della serie, di lasciar perdere lo sforzo e tentare un’operazione postmoderna: realizzare una serie di episodi slegati introdotti da James Cameron che spiega cosa ha voluto filmare. “Ho pensato che fosse figo mostrare l’assalto a un treno a levitazione magnetica, tipo quelli dei vecchi western”. “Adesso vi mostro il protagonista che si integra in una nuova popolazione acquatica di Pandora”. E così via.
Meglio la clonazione o il siero anti-invecchiamento?
Fin qui non ho detto nulla di particolarmente originale: le poche recensioni che ho leggiucchiato mi pare dicano sostanzialmente la stessa cosa.
Provo quindi a dire qualcosa di più originale prendendo due buchi di sceneggiatura come esperimenti mentali per ragionare su alcune intuizioni etiche e filosofiche.
Il primo esperimento riguarda il già citato siero che arresta l’invecchiamento e che sostituisce l’unobtainium quale sostanza preziosa che spinge gli umani a saccheggiare Pandora e fare guerra ai nativi.
Una persona ricca quanto sarebbe disposta a pagare per una simile sostanza? Secondo me poco, visto che può fare un backup della propria mente e riversarla in un clone più giovane e magari geneticamente migliorato. Dubito infatti che la distopica società terrestre dei film, visto quello che fa a Pandora, si ponga molti problemi verso il miglioramento genetico. La tecnica “backup mentale + clonazione” non dovrebbe essere particolarmente cara, visto che viene impiegata per resuscitare un gruppo di soldati: i costi devono essere inferiori a quelli di arruolamento e addestramento.
Giusto una persona giovane e in perfetta salute potrebbe preferire il siero che arresta l’invecchiamento, ma direi che per tutti gli altri l’opzione clonazione con riversamento dei ricordi è la migliore, mettendoci anche al riparo da morti accidentali. A meno che non esista qualche dubbio sul trasferimento della coscienza: nel film va a buon fine e oltre ai ricordi i cloni mantengono anche la propria personalità, ma magari è un caso oppure per qualche motivo si attribuisce al proprio “corpo naturale” un qualche valore intrinseco.
Lontano dal cuore
Il secondo esperimento mentale riguarda i tulkun, i cetacei senzienti cacciati dai terrestri per ottenere il siero. La relazione con i Na’vi, i nativi umanoidi, è molto stretta: le due specie hanno un rapporto di fratellanza ma finché i tulkun venivano uccisi lontano dai villaggi Na’vi, nessun problema. Quando però la strage avviene vicino casa diventa improvvisamente intollerabile e bisogna agire. Si può ribattere che è difficile fare qualcosa in acque lontane, ma i primo intervento è spiegare ai tulkun come evitare di farsi localizzare dai cacciatori! Insomma: sei come un fratello per me, ma se ti ammazzano a mille miglia da qui la cosa mi lascia indifferente.
Strana etica, quella dei Na’vi. Ma gli umani non sono da meno e non mi riferisco alla cattiveria di ignorare la sofferenza di esseri senzienti per il proprio tornaconto: parliamo dei cattivi del film, in questo c’è coerenza. Ma uno dei buoni, di fronte all’uccisione di un tulkun, commenta qualcosa tipo “ma come, lo uccidiamo per prenderci solo questa bottiglietta di siero e tutto il resto del corpo lo buttiamo?”. Come se uno sfruttamento più efficiente avrebbe reso l’uccisione di una creatura senziente meno sbagliata.