Un mesetto fa, ho avuto il piacere di incontrare, per una breve intervista, l’attivista egiziano Musaad Abu Fagr.
Una persona interessante: grazie alla presenza di un interprete – Abu Fagr parla solo arabo, e dati i limiti della comunicazione a gesti la presenza di un traduttore era più che gradita –, si è chiacchierato per una buona mezz’ora di diritti umani, dagli ostacoli alla loro diffusione agli aspetti culturali e religiosi alla loro esportazione.
A un certo punto, ho osato fare una domanda che considero inquietante: “Che cosa è la giustizia?”.
Questa domanda mi inquieta perché le risposte, in genere, sono banali e inconcludenti, vuoti slogan che non portano da nessuna parte, almeno da nessuna parte di interessante.
Questa mia convinzione di lega al fatto che la penso come Hans Kelsen: la giustizia è un ideale irrazionale, non è e non può essere un concetto ben definito. Regole auree, imperativi categorici: belle parole, ma in concreto cosa significa che non bisogna fare agli altri quello che non vorresti venisse fatto a te?
Insomma, ho posto questa bella domanda ad Abu Fagr, temendo in una versione egiziana del trattare in modo uguale gli uguali e in modo diverso i diversi.
La sua risposta, invece, è stata inaspettatamente acuta e, secondo me, intelligente. Il concetto di giustizia varia: non c’è una idea sola di giustizia, nella storia si sono avvicendate diverse concezioni di giustizia. Adesso, nel ventunesimo secolo, l’idea di giustizia è il rispetto dei diritti umani.
Si potrebbe tentare di definire la giustizia “a contrariis”. Chiedendo cosa sia, per ciascuno di noi, l’ingiustizia. Quando uno viene toccato nel suo particulare, risulta più facile fargli percepire materialmente ciò che prima appariva solo un concetto.
@lector: Disegnare una società ingiusta è effettivamente più semplice di tratteggiare una società giusta: le distopie sono più affascinanti delle utopie.
La definizione rimane comunque vaga e imprecisa. Un ideale irrazionale, il che non è necessariamente una cosa brutta.
Sulla giustizia la pensi(amo) come Zagrebelsky, Ivo.
Per Z. nessuno dispone dalla formula (matematica) della giustizia; non c’è accordo tra gli uomini su cosa sia “giusto” e “sbagliato”; le varie formule che sono state via via proposte possono trovare accordo generale, ma solo a una condizione: che siano scatole vuote, da riempire come si vuole.
Per esempio, se dico “giusto è dare a ciascuno il suo”, forse siamo tutti d’accordo: il problema, però, è stabilire che cosa significa in concreto dare a una persona “il suo”. Per esempio, la massima “a ciascuno il suo” troneggiava all’ingresso di alcuni campi di sterminio nazisti: evidentemente, chi l’aveva scritta riteneva che agli ebrei toccasse di essere sterminati, che quello fosse giusto, che quello fosse “il loro”. 🙁
Nella ricerca della giustizia, Z. parte non da un concetto, ma da un sentimento: il “sentimento dell’ingiustizia”. Nessun tentativo di “definizione generale”, dunque, ma “solo” una ricerca che parte dall’esperienza individuale di ciascuno di noi.
Non sapere bene che cos’è la giustizia (e la bontà, e la verità…) è un bel problema, ovvio: forse il compito di ciascun essere umano è dare le proprie risposte, che valgono, però, per lui solo (e per quelli, mai tutti, che la pensano come lui). Gli esseri umani brancolano nel buio.
Un problema ben più grosso, però, è quando qualcuno si impalca a maestro di Verità, e pretende di avere un concetto di giustizia (e di bontà, e di verità, …) valido per tutti, e magari (di conseguenza?) di imporlo agli altri con la forza. Storicamente gli esempi non mancano.
Ecco, più che crucciarci di non disporre di un concetto di giustizia universalmente valido, dobbiamo temere chi quel concetto pensa di averlo!
Un caro saluto, buon anno.
Supponiamo che tu debba concorrere per un posto di ricercatore universitario. Supponiamo che tu disponga di tutti gli elementi per poter ottenere quel posto: titoli, pubblicazioni, preparazione. Supponiamo che quel posto faccia gola anche al rampollo d’un noto professore universitario, assai ammanicato con i membri della commissione esaminatrice. Supponiamo che il giovanotto non possieda qualifiche pari alle tue, perché mediocremente intelligente e di norma più impegnato a correre dietro alle gonnelle grazie ai soldi di papà, piuttosto che allo studio. Supponiamo – ma è solo un’ipotesi, sia ben chiaro: queste cose in realtà non succedono, soprattutto in Italia – che quel posto lo diano a lui. Secondo voi, questa può definirsi un’ingiustizia?
(Risposta corretta: dal punto di vista del figlio del professore universitario e, molto probabilmente, anche da quello di suo padre, no. Si tratta d’un diritto di nascita; dunque, se l’ottenimento di quel posto costituiva un suo preciso diritto, non v’è stata alcuna ingiustizia. Fuck off, people!).
Certo che la considererei un’ingiustizia, ci mancherebbe. Di più, sono convinto che ci sarebbe un largo consenso nel riconoscere che quella perpetrata ai danni dello studioso preparato in favore del rampollo ammanicato è un’ingiustizia (meno, si capisce, la famiglia del barone).
Il problema, però, è che questo è un caso “facile”, mentre i casi che possono presentarsi sono tantissimi, e capire che cosa di volta in volta sia giusto e ingiusto può essere difficile, se non impossibile.
Un solo esempio. Per te è giusto che una donna sia libera di interrompere la sua gravidanza nei primi 90 giorni di gestazione? Per me, dolorosamente perplesso, sì. Per altri assolutamente no.
Chi ha ragione? Esiste una formula che dica dove sta la giustizia, in modo da poter dire “calculemus!”? Esiste un metodo oggettivo, universale e inter-soggettivo, che permetta di tagliare il campo in due: qui ciò che è giusto, là ciò che è ingiusto?
Questo è un problema.
Ma supponiamo che tu, o altri, veniate fuori con questa formula: “giusto” è fare quel che dico io; oppure (un esempio a caso) “giusto” è fare quel che dice la Chiesa cattolica (papi, vescovi, Catechismo). Questo è, indubbiamente, un criterio “sicuro” di giustizia.
Il problema, ora, è: che si fa con quelli che non ci stanno? Come si procede con chi non riconosce (a te; alla Chiesa; …) autorità in materia di giustizia? Verosimilmente, quelli che non ci stanno verranno considerati degli erranti: da sopportare (se siamo buoni e tolleranti) o da convertire e, se la conversione non riesce, da eliminare (se siamo meno buoni e intolleranti).
Il mio punto è: occorre prendere atto che situazioni di pluralismo contraddistinguono tanti aspetti della vita degli esseri umani.
L’idea di giustizia è uno di quegli aspetti.
*In generale*, ciò che è giusto per me può essere ingiusto per te.
La risposta al quesito la fornisci già tu, quando premetti correttamente il “per te” e “per me”, introducendo le varie casistiche.
Dato che stai parlando con un “relativista” (uno di quelli che rappresentano l’autentico male del mondo, secondo Giuseppe Ratzinger), dovresti già conoscere il mio punto di vista in proposito: “datemi una sola certezza e vi spiegherò l’Universo”.
Giusto è ciò che ritengo giusto.
Ma poiché io non conto un ca..o – come anche tu, tu, tu e tu e … – giusto è ciò che in tanti ritengono giusto, non tanto perché ci hanno pensato sopra, ma perché i confusi e intrecciati pensieri che hanno plasmato la tradizione che ha plasmato loro hanno prodotto quell’idea di giustizia.
Cos’è la giustizia?
È quella porzione della tradizione* che regola la composizione dei conflitti di interesse.
—
* “Tradizione” più che “cultura”, per il perenne ritardo che il senso comune di giustizia mantiene rispetto alla più ampia cultura del momento. Perché il ritardo? Forse perché per funzionare deve avere l’oggettività e l’affidabilità della constatazione a posteriori e non l’aleatorietà dell’ampiamente ignoto “ora”.
«”Giusto” è ciò che in tanti ritengono tale».
Caro Passante, permettimi di dissentire: questa “definizione”, per me, manca completamente l’obiettivo che vuole definire (la giustizia), e ne trova invece un altro (la legalità, in uno Stato democratico).
Per me, la maggioranza ha il potere di rendere una cosa legale o illegale, ma non giusta o ingiusta.
Prendi la Germania nazista (che pure non era uno Stato democratico). Verosimilmente, le leggi razziali avevano il sostegno della maggioranza dell’opinione pubblica. Quindi era perfettamente legale (poniamo) espropriare un ebreo dei suoi averi. Legale, ovvero conforme alla legge. Ma, io credo, profondamente, nettamente, enormemente ingiusto.
C’è chi ha fatto notare come, formalmente, la Germana nazista non facesse altro che applicare le (sue) leggi. Eppure, nessuna legge può trasformare uno *Stato di delitto* (come la Germana nazista) in *Stato di diritto*.
————————
«”Giusto” è ciò che io ritengo tale».
Ecco, questa frase mi piace molto di più, anche se io, alla Zagrebelsky, la correggerei così:
«”Giusto” è ciò che io sento tale».
In questo modo:
1. si fa vedere che la giustizia ha più a che fare col sentimento che con la ragione;
2. si ammette che non esiste un’unica versione della giustizia, che che ne esistano tante (quante sono i sentimenti delle persone).
Tutto questo secondo me, ci mancherebbe! 😉
P.S. Dimenticavo! Con la “definizione” di giustizia che ho proposto («”Giusto” è ciò che io sento tale».)
3. si ammette che il piano della legalità e quello della giustizia in generale non coincidono: è sempre possibile, infatti, che una legge (votata a maggioranza oppure dall’autorità che ha il potere di statuirla) non rispecchi il “mio” senso di giustizia.
In altre parole, la tensione diritto/legge legittimo/legale, Antigone/Creonte è costitutiva dell’esperienza giuridica, e mai esorcizzabile una volta per tutte.
@lector: come detto, quello del commento #4 è un caso facile, sul quale più o meno siamo tutti d’accordo… ma tanto sei un relativista 😉
@Lorenzo Pantieri: in riferimento al commento #5, ma non solo: come pensi vadano gestiti i casi di conflitto tra le varie idee di giustizia?
@Passante: Se ho capito bene, il senso comune è un po’ in ritardo rispetto alla “cultura del momento”. È con questo ritardo che tieni conto dell’evoluzione, anche repentina, del concetto di giustizia?
Bene, bello, giusto: i tre concetti sommi dell’etica, dell’estetica e della politica. Si discute sulla loro definizione da almeno duemilaseicento anni senza arrivare ad un accordo. Forse allora Platone aveva visto giusto quando li collocò nell’Iperuranio. Li giudicò indefinibili con il nostro lessico quotidiano tratto dal mondo sensibile e dichiarò che ci vogliono anni ed anni di ascesi per poterne anche solo scorgere confusamente il significato.
Comunque, lasciando da parte il mondo ideale, la definizione del passante mi sembra quella più corretta (in realtà la trovo pressoché perfetta) perché esclude per principio che vi siano valori assoluti ma soltanto storicamente determinati, e perché compone nel miglior modo possibile il punto di vista etico (individuale) con quello politico (collettivo).
Saluti
@Lorenzo Pantieri:
— Per me, “legalità” è un sottoinsieme di “giustizia”; ciò può essere mascherato dal fatto che in genere non ne è una porzione mediana ma periferica.*
— «”Giusto” è ciò che io sento/ritengo tale» — “sento”, ovviamente, poi però “considero”; la giustizia dei sentimenti ha maggiore cogenza ma è anche più soggetta a produrre conflitto ideologico e ad inciampare negli anacronismi dovuti al ritardo temporale di cui sopra. La mia definizione, però, è per “giustizia” (usato onnicomprensivamente) non per “giusto” (usato accidentalmente).
— Giusto individuale vs collettivo: sono reciprocamente connessi sia in senso causale che finale, oltre che conflittuale.
@Ivo Silvestro:
Il senso comune di giustizia si muove (evolve) insieme a tutto il resto. Il ritardo è, secondo me, dovuto al fatto che la praticabilità della giustizia richiede qualcosa su cui si possa (abbastanza) agevolmente convenire, e ciò è in genere ciò su cui si è già convenuto in passato senza produrre sfracelli. Ovvero, l’evoluzione (in parte movimento puro in parte affinamento, talvolta involuzione) avviene per prove ed errori, ogni tanto si osa (magari spinti da condizioni impellenti) e ciò che “pare” funzionare resta; più il mutamento è ampio e repentino e più fortemente è sottoposto a stress da verifica; una parte non trascurabile del movimento, poi, avviene per silenti slittamenti minimi.
@Filopaolo:
— Assoluto vs storico (ipotesi o giudizio il primo, spassionata constatazione il secondo)**
— Individuale vs collettivo (variamente interrelati)
Appunto.
— Etica, estetica e politica. Economia (sullo sfondo) completa il quadro mobile. Si individuano e si mescolano e cambiano nel tempo. Sincronia e diacronia. Ciò le rende difficilmente afferrabili; non resta che (necessariamente) rinunciare ad una loro individuazione/definizione assoluta.
—
Scusate la lunghezza. È che mi si è incastrata la scarpa in quest’accidente di binario. Speriamo non passi il tram proprio ora. 🙂
—
* Ciò presuppone un concetto di “giustizia” né monolitico né non contraddittorio. La (le) dea bendata con la bilancia e la spada (sia in veste morale che legale) si pretende diversamente, ma è un infingimento a fini operativi e di consenso e anche, in genere, l’espressione di una parte sociale.
** La storicità mi pare difficilmente contestabile. L’unica critica solida può essere quella per cui “non raggiungendo l’assoluto” ne è solo un povero surrogato; la solidità di questa critica, però, prevede il ripudio del rasoio di Occam e del principio di falsificazione (tra questi e gli assoluti, a cuor leggero getto via gli assoluti).
@Filopaolo: «Bene, bello, giusto: i tre concetti sommi dell’etica, dell’estetica e della politica. Si discute sulla loro definizione da almeno duemilaseicento anni senza arrivare ad un accordo.»
Proprio così. Di più: per me all’accordo non solo non si è arrivati, ma non si arriverà mai. Noi uomini siamo troppo diversi, tot capita quot sententiae, per pensarla allo stesso modo su temi come questi!
——————————–
@Ivo. «Come pensi vadano gestiti i casi di conflitto tra le varie idee di giustizia?»
Democraticamente. Mi sembra la soluzione di gran lunga preferibile.
——————————–
@passante. «Per me, “legalità” è un sottoinsieme di “giustizia”.»
Per me (e per Zagrebelsky), no. “Legalità” e “giustizia” sono i due lati (opposti) del diritto, che lavorano in tensione l’uno con l’altro.
@Lorenzo Pantieri:
Innanzitutto faccio chiarezza sul mio uso del termine “giustizia”. Quando ho scritto « Cos’è la giustizia?
È quella porzione della tradizione che regola la composizione dei conflitti di interesse. », mi riferivo a ciò che più avanti ho chiamato “senso comune di giustizia”. Senza una accezione più ampia del termine, la stessa locuzione “senso comune di giustizia” non potrebbe darsi.
Ciò che tu (e Zagrebelsky) chiamate “giustizia” io ritengo che sia appunto il “senso comune di giustizia”. Al netto della differenza lessicale (ma non solo lessicale, vedi sotto), sono d’accordo con quanto dici. Però ritengo che sia utile disporre di un “concetto di giustizia” onnicomprensivo, al cui interno si possa discutere di “senso comune di giustizia” e delle altre individuazioni parziali della “giustizia”.
Sottoscrivo quasi tutto quanto Zagrebelsky scrive nell’articolo che linko qui in fondo, tranne la più o meno implicita attribuzione alla “giustizia” della natura di idea platonica iperuranica (che però potrebbe anche essere un elemento retorico non ulteriormente dispiegato per la brevità del testo).
Vedi Giustizia, di Gustavo Zagrebelsky — in dirittiumani.utet.it
Non credo che la giustizia, intesa come metro politico e sociale, sia un concetto definibile a contrariis. Più facile che sia sì una reazione ma a soprusi. La giustizia sociale italiana, basata sul diritto di uguaglianza sostanziale, nasce dal fallimento del sistema liberale, dove i diritti erano astratti e la gente stava in miseria. La nozione di giustizia dei diritti umani nasce di fronte ad eccidi perpetrati da interi stati. Io riesco a vedere un’aria di famiglia tra le varie nozioni, quindi mi viene il sospetto che il concetto abbia una sua forma definita e non sia solo un patto post-bellico di gente stanca e disperata. Un concetto che si è costretti ad ammettere dopo aver sperimentato (e non solo cogitato) il suo opposto e che viene sancito in modo pattizio e condiviso in un documento o in un evento storico.