Della differenza tra veri e falsi filosofi: comprendere, fraintendere, non comprendere.

Ad iniziare è stato Massimo Adinolfi con la sua “difesa corporativa“:

Io mi occuperei solo di […] gente […] che pensa si possa filosofeggiare, almeno sui giornali, per il solo fatto di aver letto libri, indipendentemente da come li si è letti. Insomma, la mia è una difesa corporativa: la fanno i tassisti, perché non anch’io?

Porphyrios chiede, con ironia, quale sia la differenza tra filosofi veri e filosofi falsi:

Azione Parallela dice di voler difendere la corporazione dei filosofi. Immagino dai falsi filosofi. E come si riconosce il vero filosofo? Dal suo dichiararsi filosofo? Dall’essere riconosciuto tale dalla comunità dei filosofi?

La rapsodica risposta a questa domanda sembra riguardare l’essenza del lavoro filosofico: non tanto la differenza tra il filosofo e lo pseudo-filosofo, bensì tra la filosofia e la non-filosofia. Identificare una simile differenza non è semplice, e c’è il sospetto che questa differenza non sia identificabile con certezza:

4. Che io non possa indicare l’aspetto sotto il quale la filosofia vera si distingue da quella falsa, significa che non c’è, o che si cancella ogni volta che si traccia? (Faccio spuntare fuori ovunque il tempo, la vita, la prassi).

Per quanto la differenza tra filosofia e non-filosofia possa essere nebulosa o incerta, esiste un criterio abbastanza affidabile per distinguere il filosofo dallo pseudo-filosofo: la comprensione.
Il filosofo e lo pseudo-filosofo cercheranno entrambi di farsi comprendere. Se questo non fosse possibile, il filosofo preferirà l’incomprensione dell’ascoltatore, non nasconderà le difficoltà e non banalizzerà il discorso, lo pseudo-filosofo invece, piuttosto che non farsi capire, preferirà farsi fraintendere, banalizzando e semplificando senza ritegno.

Lascia un commento