Ho avuto il privilegio di sbarcare sull’isola di Montecristo.
Privilegio perché l’isola è una riserva naturale integrale, dove quell’integrale significa (quasi) inaccessibile all’uomo. Solo mille persone l’anno — seicento studenti, quattrocento privati con precedenza alle associazioni — possono visitare l’isola. Io non sono stato tra questi fortunati mille: oltre al permesso di visita, per il quale un privato può aspettare pare anche tre anni, esiste il più accessibile permesso di approdo, che concede la possibilità di sbarcare sull’isola e visitare Cala Maestra. Una visita completa, con tanto di escursioni, è sicuramente più interessante, ma anche per il solo approdo vale la pena affrontare le ore di navigazione necessarie per raggiungere Montecristo.
Siamo arrivati al mattino presto, e già avvicinandoci abbiamo sentito l’intenso profumo della vegetazione. In lontananza, sulla sommità di un’altura, abbiamo intravisto una capra con il caratteristico profilo delle corna.
Il custode, un simpatico e cortese vicentino, ha definito l’isola un «volano per la biodiversità». L’immagine è suggestiva. Il mio Devoto-Oli definisce volano un «organo circolare rotante, di notevole massa, che serve a regolarizzare il moto rotatorio dell’albero nelle macchine alternative, mediante periodici accumuli e restituzioni di energia» e anche «margine di sicurezza o di riserva con funzione di regolazione o di utilizzo in caso di necessità». Montecristo — che in origine si chiamava Monte Giove, ma san Mamiliano di Palermo ne cambiò il nome; del resto può un vescovo fare l’eremita in un’isola dedicata a un dio pagano? — è effettivamente un accumulo di biodiversità, grazie all’isolamento. Un margine di sicurezza molto probabilmente necessario, ma qui lascio la parola agli esperti di biologia, cosa che io non sono.
È facile imbattersi in critiche, anche feroci, al divieto di accesso all’isola. Dalle più ignoranti — «ci sono già tante specie animali, qualcuna in meno non mi pare valga l’impossibilità di farmi visitare Montecristo» — a quelle più ragionate e mi pare almeno un po’ sensate.
Quello che ho apprezzato, potendo “toccare con mano” l’isola e la sua gestione, è la consapevolezza della complessità di tutta la faccenda. Alcuni divieti sono forse in parte eccessivi, ma è necessario che sia così, perché purtroppo gli esseri umani non sono sempre meritevoli di fiducia. Anzi, in certi contesti lo sono raramente, e quindi sei costretto ad abbondare con le proibizioni, così le immancabili trasgressioni saranno almeno meno gravi. Sarebbe bello potersi affidare alla maturità e alla responsabilità delle persone, ma se queste sono specie più rare della foca monaca o della berta minore, meglio riporre altrove la propria fiducia.
Il divieto di ancoraggio, ad esempio, è necessario: una barca che arriva in una cala e butta venti metri di ancora al primo cambio di vento “ara” con la catena qualche centinaio di metri quadrati di fondale (un cerchio di dieci metri di raggio, lo ricordo, ha una superficie di oltre trecento metri quadrati), con buona pace per le pinna nobilis (molluschi lunghi anche un metro) che vivono lì. Forse basterebbe mettere dei gavitelli per gli ormeggi, ma voi vi fidereste?
Un altro aspetto che mi ha colpito è la consapevolezza della complessità del concetto di natura. I detrattori del parco sono convinti che gli ecologisti, ovviamente fondamentalisti, abbiano una concezione rozza e manichea di natura: tutto quello che non è uomo è natura ed è bene, tutto quello che è uomo non è natura ed è male.
In realtà, per quel che ho potuto constatare, le persone che si occupano della riserva sono consapevoli della complessità del concetto di natura e di naturale, e affrontano queste difficoltà con pragmatismo e buon senso.
La capra di Montecristo è stata portata dall’uomo, come anche la vipera. Non sono in un certo senso specie naturali dell’isola, ma non è per questo in discussione la loro permanenza, perché sono millenni che si registra la loro presenza. Per la capra, a dire il vero, qualche discussione c’è, perché la sua voracità è un problema per molte piante (ad esempio i lecci). Ma si tratta appunto un bilanciamento improntato al pragmatismo (si sono organizzate cacce selettive per ridurre il numero degli esemplari).
Diverso il caso dell’ailanto. Questa pianta ornamentale è stata portata alla fine dell’Ottocento (capre e vipere sono lì da molto più tempo) e si è diffusa in tutta l’isola infestando ovunque e minacciando la sopravvivenza delle altre specie tipiche della macchia mediterranea. Si sta cercando di debellare l’ailanto, ma non è semplice. Problema simile con il topo, che minaccia la sopravvivenza della berta minore, un uccello che nidifica solo a Montecristo e alla Tavolara, mangiandone le uova.
In entrambi i casi si sono cercate delle sostanze letali per le specie da eradicare ma innocue per le altre. Non perché l’ailanto o il topo non siano degni di vivere, non siano naturali o altro; ma semplicemente perché, in un compromesso che mi pare accettabile anche se, come tutti i compromessi, discutibile e migliorabile.
I filosofi, almeno quelli che a me piace frequentare, discutono spesso della vaghezza del concetto di natura, e del fatto che esso non implichi dei giudizi di valore. Teoria che mi pare perfettamente compresa e applicata, almeno in questo caso.
[…] – Una visita a Montecristo, di L’Estinto […]
“I filosofi, almeno quelli che a me piace frequentare, discutono spesso della vaghezza del concetto di natura, e del fatto che esso non implichi dei giudizi di valore. Teoria che mi pare perfettamente compresa e applicata, almeno in questo caso.”
Mi sembra invece che a Montecristo i giudizi di valore riferiti alla natura abbondino. Che altro è sennò considerare positivo proteggere la berta minore invece del topo? Per non parlare dell’opportunità di introdurre vipere e capre in un’ambiente che non le conteneva precedentemente.
Oppure dell’idea di recintare un pezzo della superficie terrestre ed impedirne l’accesso da parte dell’uomo: per quale altro tipo di giudizio, se non uno di valore, quel pezzo di terra conta più di altri e la sua salvaguardia è più opportuna di quella di altre zone del pianeta?
Saluti
@filopaolo: i giudizi abbondano, è ovvio.
Ma non si basano su una semplice equazione “naturale = buono”. Non è che la berta minore sia più naturale del ratto. Semplicemente la berta minore nidifica solo lì e alla Tavolara, il ratto lo troviamo ovunque. In un contesto di preservazione della biodiversità, la scelta è ovvia. La capra è più complicata: la specie esiste solo lì, e quindi il compromesso di abbattere alcuni capi potrebbe essere buona.
Decisioni pragmatiche, ben sapendo che il concetto di natura non è di per se normativo e dire che si mantengono le vipere perché sono naturali non significa nulla.
Non sono un biologo quindi dovrei probabilmente tacere sull’argomento ma penso che anche affermare che la biodiversità è comunque meglio del suo contrario significa esprimere soltanto un giudizio di valore. Chi può dimostrare che un mondo che contenesse molta meno complessità di quello in cui viviamo, sarebbe sicuramente peggiore del nostro?
Saluti
Gran c**o, per parlare da biologo. E bella discussione. Una correzione; la berta minore non è poi così rara, e nidifica in tutto il Mediterraneo e l’Atlantico (forse sono due sottospecie, ma insomma). E una considerazione: l’importanza della biodiversità, è abbastanza assodato, è dovuta ad alcuni fattori (e Montecristo è solo una metafora della biodiversità intera, non che senza l’isola intatta cambi qualcosa). Prima di tutto la stabilità degli ecosistemi in cui la biodiversità è più elevata è molto alta; gli esempi sono tantissimi, ma posso farti solo quello dei mari in cui la pesca ha eliminato i predatori – praticamente tutti. Qui la mancanza di “agenti regolativi” porta a fluttuazioni fortissime delle popolazioni di prede, come piccoli pesci e meduse, che riempiono il mare di una sola o poche specie. Non proprio la situazione ideale, anche per l’uomo, se vogliamo, che non sa se il giorno dopo avrà milioni di sardine o 100 tonnellate di meduse immangiabili che fanno affondare le navi (non è una leggenda urbana, controllate “nomura jellyfish”). Da questo aspetto utilitaristico, salto direttamente a quello filosofico, per cui le specie sono un valore in sé (non è l’uomo a darglielo, checchè ne dicano i preti) e la loro distruzione è un fatto negativo. In mezzo ci sono decine di altri aspetti (dalla necessità di ecosistemi intatti per i cosiddetti “servizi degli ecosistemi” -guglate – alle possibili ricadute anche farmacologiche di specie ignote) ma ti riempirei il blog. Concludo con una nota polemica; che un filosofo non abbia mai sentito parlare della discussione su valore della biodiversità la dice lunga sulle due culture e sulla preparazione culturale degli italiani. Ciao
P.S. L’ultima nota polemica era rivolta a Filopaolo, che presumo sia filosofo. Se non lo è, me ne scuso.
@Marco Ferrari: per la Berta minore, riferivo quanto sentito. Secondo wikipedia, la berta minore mediterranea (Puffinus yelkouan) è prossima alla minaccia.
Per la discussione sulla biodiversità, hai qualche riferimento filosofico?
In una ottica molto generica, mi sembra che dopo Darwin la vita vada intesa in termini di diversità, da qui dare importanza alla biodiversità il passo è breve e conseguente.
Certo, poi uno può dire che Marte è molto più affascinante della Terra e la vita non è una cosa desiderabile…
Cosa intendi per filosofico? Tipo Peter SInger? Oppure
Biodiversity and Environmental Philosophy di Sahotra Sarkar? Qui c’è una piccola introduzione al secondo libro: http://legacy.lclark.edu/~jay/A%20philosophy%20for%20biodiversityrevised.pdf
E qui la voce nella Stanford EoP: http://plato.stanford.edu/entries/biodiversity/
Anche Biodiversity di Wilson (vecchio) è molto interessante. Mi fermo qui.
@ Marco Ferreri
E’ lusinghiero sentirsi chiamare filosofo ma sono solo un appassionato della materia. In realtà un filosofo vero avrebbe argomentato in modo molto più articolato di me. Questo non significa comunque che non abbia letto qualcosa sulla biodiversità (dovrei essere sordocieco per non averlo fatto) e sul valore positivo che le viene pressoché universalmente riconosciuto in campo scientifico.
L’argomento del post riguarda la legittimità o meno di attribuire giudizi di valore alla natura. Si tratta di una questione di natura filosofica su un argomento scientifico. Ho citato la biodiversità solo come un esempio.
Comunque la mia domanda non ha avuto risposta: che prove scientifiche hai che un mondo con meno biodiversità di quello attuale sarebbe un mondo peggiore? Hai soltanto spostato la questione dal concetto di biodiversità a quello di “stabilità” giudicandola qualcosa di positivo in sé. Riassumendo il tuo pensiero: la biodiversità è buona perché garantisce la stabilità (che è buona). A livello teoretico mi sembra che non abbiamo fatto molti passi avanti e la mia domanda è rimasta sostanzialmente inevasa.
Anche l’argomento dei benefici farmacologici sposta la questione, e precisamente sul concetto di utilità: le specie vanno protette perché ci sono utili. Dove va a finire allora il principio del “valore in sé” che attribuisci alle specie poche righe prima? Hanno valore in sé o perché ci servono?
A quanto ne so stiamo attraversando solo una delle tante fasi dell’evoluzione naturale. Le specie che esistono ora non sono sempre esistite e non esisteranno per sempre. Il numero delle specie è cambiato e gli equilibri sono cambiati continuamente. Se questo è vero perché preoccuparsi per la loro scomparsa ed adoperarsi per la loro salvaguardia? (non ti viene in mente che, per esempio, se i leoni non fossero mai esistiti nessuno si sarebbe mai accorto della loro mancanza?) Per garantire poi un equilibrio che necessariamente non è destinato a durare per sempre? Questo non significa cercare di alterare il corso dell’evoluzione naturale attribuendo più o meno valore a certi aspetti della natura rispetto ad altri?
Ad uno scienziato queste possono sembrare domande stupide, e magari anche pericolose. Ma il compito della filosofia è proprio questo: non dare mai niente per scontato e cercare di fare maggiore chiarezza anche in ciò che viene considerato come già acquisito e non più meritevole di essere messo in discussione.
Se non li conosci già, per introdurti nella materia, ti suggerisco per esempio Feyerabend, Habermas o Marcuse ma sono sicuro che Ivo (lui sì davvero un filosofo) saprà darti migliori suggerimenti.
Saluti
@Filopaolo. Inizio con l’ultima obiezione: può darsi che tu ne abbia sentito parlare (di biodiversità dico) ma non leggi con attenzione quello che scrivono gli altri. Se dico ” In mezzo ci sono decine di altri aspetti (dalla necessità di ecosistemi intatti per i cosiddetti “servizi degli ecosistemi” – guglate – alle possibili ricadute anche farmacologiche di specie ignote) ma ti riempirei il blog” mi sembra chiaro che per i biologi e gli studiosi della biodiversità questa ha valore sia in sé (perché è lì) sia da un punto di vista utilitaristico (perché ci servono, come dici tu), e i due aspetti non sono affatto contraddittori, ma complementari. Che il valore in sé della biodiversità gli venga dato dall’uomo come specie è ancora abbastanza banale: che io sappia, siamo l’unica specie che si è autoconcessa la possibilità di dare valore alle cose e a questo punto il ragionamento su meglio o peggio si potrebbe fermare. Può darsi per esempio che il valore in sé non sia accettato da tutti, ma molti – non tutti – sono d’accordo che un valore assoluto su cui basare ogni ragionamento non necessariamente filosofico sia la presenza della vita sul Pianeta (alcuni dicono vita umana, ma non mi spingo a questo). È anche ovvio che un mondo come Trantor potrebbe essere migliore o peggiore di Pandora, e che non è certo la presenza di un numero elevato di specie che ne alza il valore stesso – per gli abitanti di Trantor, almeno. Che dire, tot capita,toto sententiae?
Quanto alla presenza o meno di specie in un determinato ambiente, e la scomparsa di leoni o tardigradi, o la loro difesa, il tuo ragionamento non tiene conto che la velocità di estinzione attuale è quantitativamente simile a quanto è accaduto nelle cinque o sei grandi estinzioni che hanno punteggiato la storia della vita. E che hanno precipitato la Terra in periodi di estrema instabilità e faticosa ricostruzione di ecologie complesse (non parlo di equilibrio ecologico, che è un concetto obsoleto e dannoso). Se vuoi vivere in un periodo così, prego, ma non è il mio mondo, né quello di biologi, scienziati e altri che la biodiversità la studiano.
Quanto alle letture che consigli, ti faccio presente che nel 1970 frequentavo un liceo molto, molto politicizzato. Con letture conseguenti. E che gli autori che citi non mi hanno mai colpito in maniera peculiare, neppure allora.
@ Marco Ferreri:
si potrebbe concordare con tutto quello che dici se solo tu non tralasciassi un piccolo particolare: anche il cervello dell’essere umano (distruttore della natura ad una velocità inimmaginabile fino a pochi decenni fa) è un prodotto dell’evoluzione.
Non sarebbe meglio rassegnarci a noi stessi una volta per tutte e farla finita con grandi e dichiarazioni di intenti smentite clamorosamente nei comportamenti quotidiani.
Quanto dobbiamo durare ancora a prenderci in giro?
Saluti
Non sequitur. Il fatto che il cervello sia frutto dell’evoluzione non ci consente di accettare quiescentemente (sp?) tutti i comportamenti umani, perché e lo dice anche Dawkins, tutti i cervelli sono fatti di evoluzione E di cultura, che ci permette di andare oltre (più su, più giù, decidi tu) gli impulsi del sistema limbico attraverso le elaborazioni razionali della corteccia. È la cosiddetta unnatural nature of science che permette di scrivere articoli scientifici come quello che troverai sul mio blog questa sera – wink wink 😉 ;-).
E chi ci va?fossi matto!