Morali senza confini

Perché aiutare il prossimo tuo? Perché non il remoto, il lontano?
Perché le persone lontane sono, appunto, lontane e quindi difficili da aiutare? Perché con le persone a te vicine – emotivamente e geograficamente – c’è un rapporto particolare, una sorta di tacito accordo per aiutarsi vicendevolmente?
Oppure perché l’aiuto si limita alle persone che fanno parte di una comunità chiusa, nata chissà come, al di fuori della quale non ci si avventura, non si intessono rapporti?

Considero i primi due dei buoni motivi – o giustificazioni – per dedicarsi al prossimo; l’ultimo motivo, invece non mi piace molto.
Le comunità e i gruppi più o meno chiusi esistono ed è giusto e normale che sia così. Tuttavia, dovrebbero essere i rapporti interpersonali a giustificare l’appartenenza a un gruppo, non il contrario: posso dire che lui non appartiene al mio gruppo di amici perché non andiamo d’accordo, mentre sostenere che non andiamo d’accordo perché non appartiene al mio gruppo di amici è abbastanza insensato. Insomma: il fatto di appartenere a un gruppo dovrebbe essere la conseguenza di altri aspetti, non la causa.

Eppure frequentemente accade una cosa simile: l’appartenenza a un gruppo conta e ha valore anche quando non dovrebbe contare. Anche quando il gruppo in questione ha origini particolari e, in teoria, eticamente ininfluenti, come gli stati nazionali.

Non si tratta soltanto dell’illogico ma tutto sommato innocuo tifo per gli atleti della propria nazione durante gli eventi sportivi internazionali, come ci conferma questa notizia: una bambina di poco più di un anno sta male, viene curata male e in ritardo e, purtroppo, muore. È più di un sospetto che la nazionalità della bambina – straniera, quindi non appartenente alla nostra comunità di italiani – abbia influito sul comportamento del personale sanitario.

23 commenti su “Morali senza confini

  1. io ieri ho sentito uno dei muratori che lavorano sotto casa mia fischiettare l’inno di mameli.
    solo che lui è rumeno o albanese, non l’ho ancora ben capito.

  2. «Perché aiutare il prossimo tuo?»

    In un altro punto del Vangelo (il buon samaritano) Gesù spiega chi è il prossimo tuo, che smentisce l’interpretazione del passo che tu sembri darne implicitamente.

    Buona riflessione
    Stefano

  3. Ha ragione Stefano.

    L’espressione “prossimo tuo” non indica la persona più vicina, ma la vicinanza che chiunque può avere con te a prescindere da chi sia.
    Il corrispodente ebraico significa “connazionale” “amico” “compagno”.
    L’implicito è rovesciare il senso letterale del termine.

    Se ti riferisci ad una questione astratta e il termine è solo un pretesto, ti riporto la riflessione di una mia conoscente.

    Lei diceva: “Io non chiamo morale quello che fanno tutti. Io chiamo morale ciò che faccio anche rovesciando il percorso stabilito. La morale è straordinaria”.

    E’ normale, buono e giusto aiutare chi ci è più simile, ma questa sociologia spicciola non c’entra con la morale.

  4. Il post mi stimola ad una riflessione terminologica e non solo: non ho mai capito come mai per indicare il concetto contrario a quello di “solidarietà” si sia imposto l’uso della parola “indifferenza”.
    Leggo in un dizionario etimologico on line che l’indifferente è semplicemente colui che “fra due cose non fa distinzione, differenza, e quindi non si determina più all’una che all’altra”. Se questo è il significato originario, in seguito, chissà perché, il termine è passato ad indicare colui che non si interessa a ciò che non lo riguarda direttamente.
    Si può obiettare che “indifferenza” nel senso oggi in uso può voler dire anche non fare differenza fra chi ha bisogno e chi no, ma se questo fosse il senso sarebbe indifferente anche chi aiuta indistintamente tutti, anche quelli che non hanno bisogno. Invece in questa accezione la parola non viene usata ma ha soltanto il significato negativo che ho indicato prima.
    E’ evidente che si tratta di due accezioni della parola molto diverse fra loro e lo slittamento semantico non mi sembra per niente scontato. Anzi, per me i due concetti di solidarietà e di indifferenza dovrebbero andare sempre insieme.
    Questo per dire che per il sottoscritto il modo più giusto e corretto di essere solidali verso gli altri è quello di non fare differenza (di essere, appunto, indifferenti) tra coloro che si trovano in difficoltà: si può trattare di una persona vicina e conosciuta o di un perfetto estraneo, l’importante è che una comunità si dia un sistema di regole generali che preveda servizi per la cura alla persona e l’assistenza economica per chiunque si trovi in condizione di averne bisogno.
    Il principio della solidarietà, attuato con un sistema universalistico e, per l’appunto “indifferente”,di questo tipo, può valere ugualmente per un piccolo comune o un grande stato e la conseguenza immediata è che non ha alcuna importanza se la persona da aiutare è un parente o un estraneo.
    Credo che questo sia il tipo di solidarietà perfetta, quella che io voglio, quella che non ha bisogno di ringraziare e raccomandarsi a chi ti aiuta perché è tutta la comunità che lo sta facendo e quindi anche tu, che in questo momento hai bisogno, ti stai aiutando.
    L’altro tipo di solidarietà, quella che va di moda oggi, quella delle associazioni, delle onlus laiche e religiose (che comunque ricevono i soldi dagli enti pubblici in modo più o meno clientelare), quella mi piace molto meno perché sono proprio queste organizzazioni, che se non mi sbaglio sono sottoposte alle norme del diritto privato, che possono fare “differenze” nella scelta di chi beneficiare con i loro aiuti.
    Questa la mia riflessione, anche se so bene che oggi il grosso dell’assitenza sociale passa per queste organizzazioni e c’é poco da scegliere.
    Ciao

  5. Secondo me, ci masturbiamo mentalmente dimenticando che, in fondo, siamo solo animali che come tali si comportano. Gratta, gratta, viene sempre fuori il branco, il maschio e la femmina alfa, la prole da proteggere e nutrire, il pericolo da individuare prima che possa colpire, ecc. ecc.

  6. Chi è puramente interessato ad aiutare il prossimo a prescindere da quanto disti, non deve preoccuparsi tanto della distanza spaziale, quanto di quella temporale. Sembra infatti che il miglior modo per farlo consista nel depositare somme di denaro a lunghissimo termine (secoli).

    Eppure la via non è molto seguita. Probabilmente, come per molte cose, quando noi vogliamo “aiutare chi ha bisogno”, non vogliamo affatto aiutare chi ha bisogno.

  7. Credo sia una questione di destino comune: l’attenzione e l’empatia del singolo sono più forti verso i soggetti più vicini e tendono a scemare procedendo verso l’esterno, in un prospetto di cerchi concentrici. Il primo cerchio è la famiglia, poi vengono gli amici, poi la classe sociale (almeno durante l’epoca della prima modernità, per dirla con Ulrich Beck), i concittadini, la nazione, il continente e via scemando. Teoricamente il soggetto percepisce questa gradazione di prossimità. O almeno, una volta era così. Oggi (dice un sociologo, ma non ricordo chi, forse lo stesso Beck) la TV ha infranto questo meccanismo dei cerchi concentrici: la proiezione di immagini e l’annuncio di fatti che provengono da molto lontano ci catapulta quotidianamente in quelle realtà, avvicinando molto alla nostra sfera individuale cerchi che una volta si trovavano ai margini del nostro interesse.

  8. Sono d’accordo con Lector. Al mondo, ci sono persone che non conoscerò mai, persone che vivono a migliaia di chilometri da me. Per dire, con ogni probabilità, nella mia vita non conoscerò alcun abitante di Sant’Elena.

    Gli abitanti di Sant’Elena sono “il mio prossimo”? In teoria sì, sicuramente. In pratica, è ovvio che io li senta più lontani (e viceversa).

    Di sicuro, nella mia vita spenderò gran parte delle mie energie a coltivare chi mi è più vicino (familiari, amici, colleghi di lavoro, vicini di casa, conoscenti… e via discorrendo): è inevitabile che sia così.

    Ciao.

  9. @alex: Finché non fischietta “Italia amore mio”…

    @Stefano e eno: Diciamo che i Vangeli non erano al centro dei miei pensieri, mentre scrivevo questo post e il riferimento al prossimo non è da intendersi come analisi, e quindi neppure come critica, delle interpretazioni di quel particolare brano biblico.

    @eno: Interessante la visione della tua amica. La morale come roba per santi e non per uomini.

    @Filopaolo: Indifferente io lo intendo come sinonimo di freddo, insensibile. Da contrapporre a chi è coinvolto. Si assume, esternalisticamente, che il movente per le azioni sia l’emozione.

    @lector: Oh, io non dimentico il branco, anzi. È che mi piacerebbe si avesse un orizzonte un po’ più ampio. Il fatto che gli istinti morali vengano da lì non significa che i nostri concetti morali debbano anche finire lì.

    @broncobilly: Non sono così sicuro che l’altruismo sia merce rara. Non che la si trovi così frequentemente, ma la si trova.

    @Dario: Ma la bimba è lì, di fronte a te: non è in una terra lontana migliaia di chilometri! Il cerchio non è geografico.

    @Lorenzo: Ma io non sono contro il criterio della prossimità. Sono per una sua razionalizzazione: il prossimo ha priorità perché posso aiutarlo prima e meglio del remoto, o perché mi sono assunto qualche responsabilità nei suoi confronti, oppure perché è parte di una comunità chiusa che non ha senso mantenere?

  10. @—>Ivo
    Ma se si vuol procedere con una terapia adeguata, l’oggettività della diagnosi non può essere fuorviata dal desiderio del medico, per quanto spiacevole possa essere.

  11. Non credo che “roba per santi” sia la sintesi più efficace.
    Era in realtà un commento ai Miserabili, e alle improvvise scelte di Javert che è tutto fuorché un santo.

    Tutto questo discorrere sull’etica che fai in alcuni post, presuppone che l’etica tratti un corpo di regole (was soll ich tun?) pur distinte dalle norme positive (was muss ich tun?).

    Perché l’etica dovrebbe trattare (solo) regole?
    Chi l’ha detto?
    E con quale motivazione?
    E di quale dato empirico rende ragione questa tesi?
    Visto che non esiste una teoria morale vincente, non potrebbe essere un colossale abbaglio?

    C’è un gran numero di regole standard che fissano il nostro agire.
    Grazie al cielo! Solo che non hanno gran bisogno di essere chiarite. Sono quasi sempre così evidenti e ovvie che possono essere oggetto d’approfondimento teorico, ma raramente di chiarimento.
    Conte e von Wright la chiamano deontica, ma niente giustifica che lo studio non (solo) descrittivo dell’agire umano si riduca a quello.

    Gli aspetti più interessanti dell’agire non sono le regole, ma per esempio, la modifica creativa della regola, i modi in cui ripariamo ai torti, i modi in cui riflettiamo sulla nostra “coscienza morale”, il pentimento, la punizione, la scelta supererogatoria.

    Se tu vuoi chiamare “santità” far più delle regole consuete, mi pare un eccesso di convenzionalità dei termini.

    Se sono stanco, non ho mangiato e sono vestito con una camicia di lino e una amica ha bisogno di parlarmi a 25 km da casa mia, sotto la pioggia e fino a notte inoltrata, beh, ci vado.
    Questa scelta supererogatoria non è santità o eroismo, ma amicizia.

    Una teoria morale che non sappia tener conto di fatti tanto banali non mi pare offra molti spunti di interesse.

  12. @eno: Non ho capito: prima metti in dubbio che la moralità sia un insieme di regole, poi affermi che ci sono un gran numero di regole (forse intendi riferirti a due tipi di regole diverse).
    Comunque: un vero amico non ti chiederebbe mai di fare 25km sotto la pioggia: è questa l’amicizia, non saltare cena e sonno 😉

  13. Ho detto che la morale non è solo regole e non si riduce solo a quello.
    Credo d’aver scritto “solo” tre o quattro volte.

    E’ ovvio che le regole ci sono.
    Sono una parte della morale, e sono completamentamente incomprensibili e vacue se non sono viste come porzione di un fatto più vasto, l’agire.

    Mi pare del tutto indiscutibile.
    Non ho mai visto un precetto morale sciogliere un dilemma.
    Tu forse hai mai avuto questa esperienza empirica?

    Al di là della battuta, se un amico è depresso veramente non salti una cena?
    E se l’amico rischia di suicidarsi non fai venticinque chilometri (in autobus, non a piedi) o non accetti più semplicemente di fare tardi a cena?
    Devi veramente chiedere spiegazioni per ogni richiesta di un amico?

    Se quello è un agire da santi, dice il vero il mio parroco: la santità è la condizione naturale dell’uomo.

    Comunque, se tu conducessi una amicizia sulla scorta di solitarie classificazioni: “questo è un vero atto d’amicizia, questo no, questo lo faccio, questo no, l’appuntamento alle 12 hmm non mi sta in agenda, etc. “, il legame non durerebbe più di una settimana.

  14. Sarà comunque che abito fuori dal centro e per me venticinque chilometri, di cui alcuni su suola di scarpa, non sono moltissimi. 😉

    Resta che il comune fatto degli atti supererogatori manda gambe all’aria metà dei costrutti moralicanti che ci possiamo disegnare a tavolino.

  15. @eno: Proviamo a metterla così: la moralità è questione di prassi, di abiti acquisiti, di strategie consolidate.
    Le regole sono un modo per enunciare questa prassi e per allenarsi, prepararsi a questioni concrete.
    Bene, prova a pensare a questo mio post in questo senso: un allenamento, una riflessione preparatoria per migliorare queste prassi. Un manuale di istruzioni non per programmare il videoregistratore (da seguire passo-passo), ma per giocare a briscola (dove le regole sono anche consigli di strategia).
    Siamo d’accordo?

  16. No, perché concepisco l’etica anche sotto un profilo esistenziale e “ampio”.
    Il gioco e la strategia non mi paiono buoni esempi, per quanto svariati pezzi di vita siano partite a scacchi e a carte.

    Ma fa niente. 🙂

    Eno

    Ps: La partita di briscola mi va vene solo se accompagnata da spritz bianco all’osteria con amici. 😛

  17. @ Ivo: lo sai 😎 che questa mi era sfuggita?….

    Si assume, esternalisticamente, che il movente per le azioni sia l’emozione.

    (tua risposta a Filopaolo nel n°9)
    …. sicuro? Quanto è applicabile? Fin dove riesci a portarla questa affermazione?

    Un Sorriso

    P.S: provo a prevenire risposte semplicistiche…
    1) che il centro delle intenzioni non sia più il cuore direi che è assodato da un bel mucchio di decenni!
    2) il fatto che si tratti di eterofenomenologia non ti consente di attibuire a terzi ciò che comunque non potresti accettare rivolto a te stesso.
    3) l’obiezione più ovvia (fin troppo) che anche se c’è puro raziocinio deve esserci almeno un po’ di emozione la considererei davvero deludente (e spero di non doverlo giustificare)

  18. @Ivo: Ovviamente sì.

    L’etica riguarda l’agire personale, non necessariamente l’agire con persone.

    Oltre alla cura che abbiamo di noi stessi, c’è la cura del mondo circostante.

    Facendo il verso alle comiche invettive contro lo “specismo”, io direi: cos’hanno di così importante le persone per essere essenziali all’etica?

    Il nostro mondo (personale) è ricco e articolato anche quando le persone mancano.

    Intendo cose molto spicce con “mondo circostante”.
    Anche i criteri di tutela del paesaggio di un piano regolatore sono etici oltre che estetici perché riconoscono alcuni valori degni di tutela.

    E’ vero anche in senso storico: le prime norme sul paesaggio furono di Croce nel 1920, che parlò esplicitamente d’un “altissimo interesse morale” in gioco.

    Crusoe avrà avuto grossi scompensi psicologici e comportamentali, ma questo non toglie che il fatto morale esisteva.

    Eno

    Ps: In cast away Tom Hanks si sente in dovere di parlare per mesi con Wilson, una palla.
    E’ un filmone ammerikano, ma mi piace come exemplum fictum: l’istinto all’alterità è più forte della solitudine.

  19. @il più Cattivo: Si assume nella differenza tra freddo, insensibile e coinvolto, partecipante alla situazione altrui di cui si discuteva con Filopaolo.
    La bibliografia su esternalismo e internalismo è immensa, e parte almeno da Aristotele. Comunque, qui trovi un po’ di roba: http://www.templeton.org/reason/

    @eno: Non trascurare, per Cast away, la necessità di non fare un film muto: bisogna farlo parlare, Tom Hanks, se no lo spettatore medio si addormenta!

  20. Beh… proprio il Templeton no!! Sai che sono un fan di Dawkins e Dennett. Comunque facendomi violenza ho provato a dare un’occhiata al link. Finchè la nausea non mi ha travolto ho scorto principalmente questioni relative all’intervento del “raziocinio” nell’azione morale 🙁 .
    Con l’ipotesi che “ti” contestavo scorgo solo un legame “inverso”….
    Ci tornerei su…
    Un Sorriso

  21. @il più cattivo: Non mi pagano, quindi non la tento neppure una difesa della Templeton Foundation. Però qui sono solo tredici risposte a una domanda – e risposte mediamente interessanti.

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