Esiste il senso etico senza Dio?

Esiste il senso etico senza Dio?

Il rapporto con Dio non c’entra nulla col senso etico, che riguarda soprattutto la relazione con gli altri uomini. Molti dei grandi moralisti sono non credenti. Al contrario, diceva il grande filosofo Feuerbach, se ami Dio puoi non amare gli uomini.

Umberto Veronesi (con Alain Elkann), Essere Laico, Bompiani 2007, p. 37

43 commenti su “Esiste il senso etico senza Dio?

  1. Meno male che “Penso che questo sarà l’ultimo commento su tematiche religiose per un po’ di tempo”. Argomento troppo interessante e sul quale ci sentiamo domani. Stasera non mi lasciano proprio stare in pace sul mio computer. Mi tocca uscire….
    Adesso volevo solo farti tanti cari auguri per un prospero e felice 2008 a te e famiglia. Ciao Ivo.
    🙂 🙂 🙂

  2. Potrei ribattere dicendo che questa è una citazione, non una riflessione mia… ma preferisco dire che mi ero sbagliato. D’altra parte non potevo prevedere di trovare in libreria quell’interessante libro di Veronesi, che risponde in maniera splendida a tutte le domande di Elkann…

    Buon Anno anche a te e a chi ti ha costretto ad uscire!

  3. Non ho letto il libro di Veronesi, perciò non so in quale contesto egli sviluppi la frase, né se essa rappresenti la conclusione o l’inizio di discorsi più ampi che magari già contemplano le osservazioni che sto per proporre.
    Mi piace quell’individuazione del senso etico in termini relazionali, perché ne circoscrive il percorso in un contesto conosciuto o conoscibile. Esprimersi secondo relazione, o relativamente, rappresenta una grande conquista del pensiero moderno, il cui verso punta alla negazione di qualsiasi fondamentale e dio è, per l’appunto, un fondamentale. La morale precedente lo decretava come origine fissa nei cui confronti si rapportava la correttezza dell’agire individuale e sociale. Scritture e loro interpreti ne fissavano l’esplicarsi con la pretesa di sottomissione delle ragioni dell’uomo a quelle del dio. Sostituendo tale unica origine con tante origini quanti sono gli individui sulla terra, il sistema ovviamente si complica e l’equilibrio risulta a prima vista improbabile. Ma l’esclusione d’un punto privilegiato fa sì che l’insieme, per reggere, debba necessariamente tener conto della posizione di tutti. Io leggo in questo senso i conflitti contemporanei. Stiamo riuscendo lentamente a rinunciare all’ambigua comodità d’un dio esplicante, ma non abbiamo ancora trovato l’algoritmo che trasli il nostro essere umani dalla dimensione dell’io a quella del noi. Però confido che prima o poi ci riusciremo.

  4. Il libro di Veronesi è una intervista: Elkann dirige il gioco e punta soprattutto sul personale. Questo per dire che non c’è un vero e proprio discorso più ampio.

    In questa risposta vi è, come giustamente evidenzi, tutta l’umanità della morale: non guardare verso Dio ma verso l’uomo.
    Non vi è il tuo pessimismo: Veronesi probabilmente vede il bicchiere mezzo pieno, tu mezzo vuoto 😉

  5. Ecco che ci ricasca! 😉
    (Sto giusto leggendo “I fratelli Karamazov”, una lunga ed esplicita riflessione sull’etica senza Dio. Molto pessimistica anche quella, mi sembra, ma non ho ancora finito).
    Ho la sensazione che Veronesi -come dire- utilizzi un trucchetto. Certamente l’etica riguarda le relazioni tra gli uomini, ma questo non esclude che le regole le abbia dettate un dio.
    Buon anno!

  6. @–>Ivo
    Probabilmente esprimo pessimismo proprio senza accorgermene 🙂 Il mio discorso non voleva essere pessimista! Sostituendo a dio come unica origine (in un sistema d’assi cartesiano) una moltitudine d’origini, cioé tanti punti (0,0) quanti sono tutti gli esseri umani, creiamo una evidente complicazione nell’insieme di riferimento. Ma se riusciremo in ciò attribuiremo dignità anche agli ultimi. E’ un obiettivo programmatico che mi sembra molto positivo, e al quale credo e voglio credere.
    @–> Ferrigno
    Più probabile che un trucchetto (molto noto nell’arte retorica come “prosopopea”) lo abbia utilizzato per primo – e non necessariamente per male – chi doveva far accettare a popoli poco alfabetizzati delle regole minime di convivenza civile. Qualcun’altro, poi, ha notato che la cosa funzionava e ci ha preso gusto.

  7. “Ho la sensazione che Veronesi -come dire- utilizzi un trucchetto. Certamente l’etica riguarda le relazioni tra gli uomini, ma questo non esclude che le regole le abbia dettate un dio”

    Ma se queste regole riguardano le relazioni fra gli uomini e sopratutto se il loro fondamento è il pensiero umano, la vita dell’uomo, questo “dio etico” è un’altro “dio inutile” come il “dio filosofico-scientifico” (tanto di moda negli USA), buono solo a funzionare come fonte di terrore conservatore(“l’ha detto dio, quindi guai a pensare di aggiornarlo perchè si è scoperto qualcosa di nuovo!”)

    Insomma, non si vede, non si sente, non è possibile rilevarlo in nessun modo, non serve nella scienza, nella logica, nell’etica…
    E’ o non è allo stesso livello di un ipotetico frigorifero magico in un ipotetico campo nella 4a dimensione? 😉

  8. be’, forse sono maligno a parlare di trucchi, però parte della risposta è fuori tema.

    È la risposta di un non credente.
    Un credente potrebbe ribattere che se non ami gli uomini non ami veramente Dio.

  9. “Faccio una proposta: ipostatizziamo il concetto di umanità e chiamiamolo Dio!”

    Peggio di prima. Proposta: invece di lanciarci in progetti grandiosi come “amare l’umanità” , tentiamo di creare nel nostro microcosmo sociale un atmosfera in cui i conflitti non si debbano per forza risolere in guerricciole.

    Sorprendentemente, ne guadagneremo in serenità anche noi.

  10. “l’etica non c’entra nulla con dio perché riguarda le relazioni tra uomini” mi sembra una di quelle risposte ad effetto che divertono i non credenti e irritano i credenti. Lector in fabula estrapola bene: l’etica riguarda le relazioni tra gli uomini, gli uomini sono tutti diversi, quindi l’etica “globale” non può che essere multicentrica. Ok, se Veronesi avesse detto quello che ha scritto lector, magari avrebbe convinto qualcuno, così li ha fatti incazzare tutti.

    Ok, ho fatto il pignolo, però almeno spero di essermi spiegato.

  11. ferrigno: Penso di aver capito cosa intendevi dire.
    In generale, ti assicuro che, viste alcune delle domande di Elkann, le risposte di Veronesi sono veramente ottime e poco ad effetto… 😉

  12. Se il titolo è una vera domanda, la mia risposta è un secco SI.
    Io sono realista su questo.

    L’etica esiste come la sedia su cui sono seduto.
    E’ oggettiva. Possiamo discutere se l’etica sia anche universale, indipendente dalle culture e dagli accidenti storici, indipendente dai soggetti ma una risposta negativa – ossia: soggettività, variabilità, contestualità etc. – non metterebbe in dubbio la oggettività dell’etica.
    Oggettivo infatti non è in contraddizione con soggettivo, ma con individuale-privato-incomunicabile-idiolettico-apparente… Le leggi p.e. esistono in relazione a soggetti umani, ma sono oggettive.

    Non esistono sedie cristiane, laiche, progressiste, comuniste, credenti o agnostiche.
    Ci sono sedie.
    ( Ma si veda la mia brevettatissima Cocacola Laic 😉 )
    Sedie, quindi, ed etica- ed entrambe semplicemente esistono.

    Ciò significa che possiamo considerare l’etica a prescindere da Dio.
    La recente frase di Odifreddi “laicità è agire come se la religione e la Chiesa non ci fossero, senza far nulla perché non ci siano”, per spostarci su una questione affine, mi trova sorprendentemente d’accordo( in linea generale ).
    Sfrondiamo l’articolo dal sovrappiù ideologico, da qualche stronzata e dall’impostazione da rotocalco, cioè da intellettuale impegnato, e trasponiamolo nell’etica: l’idea è acuta ed ineccepibile.

    Questo, ovviamente, non chiude tutte le questioni.
    Ci possiamo chiedere ad un passo successivo se l’esistenza di ogni ente, etica inclusa, rimanda ad un creatore; se mai esista un sentimento religioso nella natura umana( un grazioso articolo di Novak, che sicuramente avrà irritato molti ) come c’è un sentimento di solidarietà o un appetito di conoscenza e di libertà; se si possa in generale essere buoni, nei vari sensi della bontà, se non sono attuati questi appettiti- tutti quelli esistenti -, o sono ignorati, o addirittura vengono negati.
    Tutto ciò però riguarda l’esser buoni, non l’etica.
    Oppure possiamo chiederci se l’uomo sia prima un essere che si stupisce d’esistere o un essere relazionale, preso tra doveri e senso di solidarietà.

    Ma sia l’esistenza dell’etica, sia i suoi principi, sia i vari appetiti umani possono essere conosciuti autonomamente.

    ciao, Eno!

  13. “Ci possiamo chiedere ad un passo successivo se l’esistenza di ogni ente, etica inclusa, rimanda ad un creatore”

    Non ce ne è la minima prova, anzi, a livello di etica ci sono fortissimi indizi che ne indicano una sua evoluzione senza “creazioni” o “progetti”.

    L’articolo di Novak mi è parso poco approfondito (la sua classificazione degli atei è molto vaga) e ,in sostanza, inconcludente.
    Non mi sembra “dimostri” una “religiosità per natura” dell’uomo (nè che lo voglia fare, infatti non so se l’articolo che hai suggerito nel link sia quello a cui ti riferisci).

    Inoltre (riflessione personale) l'”essere buoni” , in fin dei conti, è relativamente importante pe rquanto riguarda l’etica: esistono persone “non buone” ma profondamente etiche ovvero, non “amano l’umanità”, ma “vivono e lasciano vivere”, così come molti “buoni” superano l’etica proprio per “amore” , vedi i paternalisti (credenti o meno), che privano (o vorrebbero farlo) l’altro di una o più libertà per il suo “bene”, e sono perciò profondamente antietici -distruggono il presupposto stesso dell’etica- ma “buoni”, in quanto animati da (sinceri o meno non lo sappiamo) sentimenti altruistici.

    Personlmente, preferisco di gran lunga i primi ai secondi. 😉

  14. eno: il titolo è una vera domanda, nel senso che è una domanda che Elkann ha posto davvero a Veronesi.
    Sull’oggettività dell’etica: trovo difficile pensare che l’etica abbia la stessa oggettività di una sedia, però secondo me centri il punto.
    L’apprezzamento di Odifreddi non me lo aspettavo 😉

    Kirbmarc:la distinzione che fai tra quello il “non buono” che eticamente non rompe le scatole e il “buono” che invece antieticamente rompe le scatole è interessante (chissà se hai qualcuno in mente 😉 ). Non sono sicuro che tu attribuisca correttamente le etichette: secondo me il secondo non solo non è etico ma neppure buono, e avrei anche dei dubbi sull’eticità del primo…

  15. Kirbmarc,
    non ho capito la parte su libertà e bontà.

    Ci sono parti enormi di Tommaso d’Aquino in cui si specificano le diramazioni del bonum, in honestum, utile e pulchrum. Sul legame tra volontà, sede della libertà, e intelletto. Sui legami tra cittadini e il bonum commune, e tra questo e il bonum.
    Non le padroneggio che vagamente, e non avevo certo intenzione di riassumerle in poche righe.

    La tua critica della “bontà” è in parte esatta, ma sbaglia obiettivo.
    Una persona, poi, che ama l’umanità non è buono: è un fascista( magari progressista o liberale, ma fascista ) e un amorale.
    L’etica, di cui il bene e il dovere sono solo minuscole parti, riguarda gli individui e la loro indivua, infinita, potenziale relazionalità/( cioè le persone ).
    Gomez Davila diceva con sarcasmo: “L’etica ci vieta di considerare gli uomini come mezzi, e l’Uomo come fine.”

    Oppure tu intendevi libertà come “libertà negativa”? Lasciar fare?
    Questo è un affare politico, vero se applicato ad certi ristrettissimi ambiti particolari, falso, semplicistico e molto pericoloso se inteso come cifra dell’intera politica.
    E soprattutto, io non mischio politica ed etica!
    Se considero l’altro come persona che giustamente merita una distanza, infatti, e non come oggetto di relazionalità, lo considero già un cittadino o un membro della comunità, non solo come persona.

    Se capisco bene, tutto ciò è connesso con lo shibboleth “la libertà è fine a sé stessa” o “la libertà finisce dove inizia quella altrui”.
    Sono consapevole che se i due principi fossero veri, avrei torto.
    Ma entrambe le frasi sono false e legata alla semplificatoria dicotomia “lib. negativa-lib positiva”.
    ( Ho letto da poco i Due concetti di libertà di Berlin ed è un testo di straordinario nulla pneumatico. )

    Se mi chiedi: “Preferisci la libertà negativa o quella negativa?” la mia risposta è la seguente.
    “Questa domanda presuppone una descrizione antropologica di fatto errata. I tipi e le ramificazioni della libertà sono numerosi, tutti di pari dignità, e nessuno assomiglia a quelli che presenti.
    E’ come se a un chirurgo tu chiedessi di scegliere tra braccia, gambe, naso, bocca etc. in un organismo. Ma c’è un trucco!
    Qualunque cosa scelga, vuol dire che è un sezionatore, non un chirurgo.
    E’ un medico solo se si interessa della globalità e non sceglie, a meno che non ci sia un’infezione in corso o una crescita tumorale di una libertà sull’altra o sul dovere.
    Ma molto peggio di ogni tumore, è proprio l’idea di dover scegliere.”

    Sull’etica: non so cosa voglia dire “l’etica si è evoluta”.
    L’etica non si è evoluta più di quanto si sia evoluto il teorema di pitagora.
    Al massimo, sarà emerso un organismo in grado di incarnarla.
    Se si fosse evoluta, sarebbe un fatto.
    Se è un fatto, non può essere prescrittivo.
    O forse intendi con “etica” “comportamento cooperativo”?
    Questo riguarda la sociologia e l’etologia, non l’etica. Io posso cooperare senza alcun concetto di “dovere” e di “altro”, anche se non posso stringere patti, promettere, sentirmi in dovere, pentirmi, chiedere scusa, sentirmi responsabile, espiare, premiare, essere orgoglioso etc. etc. .
    Per dire, tu affermi che l’istituto della promessa si è evoluto? Da cosa?
    E in che senso una cosa come il dovere ammette una gradualità ed una progressione?
    So che girano molti libri sul tema, ma non spiegano il presupposto essenziale: come diavolo passare dall’essere al dover essere? perché mai ci dovrebbe essere un continuum nelle trasformazioni?
    E se non c’è continuità, dove sta la forza dell’obiezione?

    Il testo di Novak, non esaustivo, non precisissimo, ma brillante, tratta di striscio una certa velata religiosità dove scrive( credo ti sia sfuggito ):
    Some years ago I read a book on atheism, by a devout atheist (if that is the right word), who had found to his surprise that a large majority of those Americans who call themselves atheists actually believe in some more-than-human power, force, intelligence in all things.
    Le forme di parareligiosità tra atei sono frequenti. In Germania dell’Est esistono gruppi di umanisti atei che vorrebbero insegnare umanesimo a scuola.
    Il culto della libertà fine a sé stessa e ormai distaccata da qualunque nesso con gli esseri umani reali e la loro costituzione; l’idea di una somma razionalità( con un uso del tutto improprio del termine ragione ); le implicite fedi in un progresso destinale; il culto per l’umanità o la collettività: è difficile non vederci una forma di compensazione.
    Non è già parlare di “religiosità universale”, perché è più verosimile vederci forme di compensazione o di “rioccupazione” di spazi vuoti, ma è un fatto interessante che apre l’interrogativo: “Il fenomento non sarà ancora più esteso?”.

  16. Ah, sì: dimenticavo di salutare.
    ciao, Eno!

    Ps: Il fatto che tu leghi la mia menzione di un “creatore” con “evoluzione”, mi pare indice di un fraintendimento significativo.
    “Creare” non ha nulla a che vedere con dirigere lo sviluppo della natura; spiegarne gli inizi; spiegarne le cause; costruire qualcosa.
    La metafora dell’artigiano che dà forma e dà origine ad un vaso, è sempre stata ritenuta una analogia da intendersi cum grano salis.
    I razionalisti alla Odifreddi, che nonostante l’estemporanea uscita felice ritengo un cinguettatore da talk-show quando dice: “E chi ha creato il creatore…?”, e i fan dell’intelligent-design condividono lo stesso presupposto errato.

    Del resto, io parlavo con grande prudenza di “enti”, non di principi morali o oggetti o esseri viventi, e tu hai replicato “evoluzione”.
    Ma cosa significa che il tipo d’ente “oggetto sensibile” si è evoluto? O “numero”? O “ombra”? O “persona”? O “ente sociale”? O “valore etico”?
    Non sapevo che la biologia trattasse i genera e le species- e con che microscopio li osserva? 😉

    La creazione è il legame tra gli enti, nella loro percepita contingenza e pregnanza di significato, e ciò che li fa esistere.
    La questione non è empirica, ma ricade nell’esperienziale che precede e ingloba ogni empiria.
    Se vuoi, è una questione metafisica e non nel senso che Popper dava, infelicemente, al termine.
    Se non vuoi: i poeti hanno ragione a vedere profondo significato nel mondo, ma sono nauseantemente melensi, vuoti e falsi nell’individuare quel significato nelle parole o nel loro senso o nei sentimenti umani o nella psiche.
    C’è l’esigenza che sia la prima sia la seconda frase siano vere.

  17. eno: molta carne al fuoco.
    Vedo che insisti nel considerare l’etica oggettiva come la sedia, anzi, come il teorema di Pitagora che, per certi versi, è ancora più solido della sedia! La cosa non mi convince del tutto, ma non ho obiezioni serie, quindi rimando il tema.

    Come passare dall’essere al dover essere? È semplice: ci siamo evoluti non solo per collaborare, ma per trovare giusto collaborare. In altre parole: non solo io collaboro con gli altri, ma mi aspetto collaborazione, premio la collaborazione e penalizzo l’ostracismo. Proprio in questi giorni leggevo di una ricerca sui bambini piccoli che premiano chi collabora rispetto a chi è indifferente o ostacola gli altri.
    Il vero problema non è il passaggio dal descrivere al prescrivere, ma il passaggio da descrizioni e prescrizioni intuitive a descrizioni e, soprattutto, prescrizioni razionali.

    Sulla distinzione libertà positiva / libertà negativa: a me non dispiace, come distinzione, la considero una buona bussola per temi sociali e politici. Ma mi sembra che tu te la prenda con chi, su questa distinzione, costruisce edifici teorici molto più imponenti della mia semplice bussola.

  18. “Ma cosa significa che il tipo d’ente “oggetto sensibile” si è evoluto? O “numero”? O “ombra”? O “persona”? O “ente sociale”? O “valore etico”?”

    Non esiste l'”ente” “oggetto sensibile”, come non esiste l'”ente” “persona” o “valore etico” o “numero”. Parafrasando Wittgenstein, questi non sono enti, sono classificazioni (o “etichette mentali”) umane di diversi oggetti (o “fatti empirici”) che hanno “affinità” fra di loro.

    E il fatto che gli esseri umani tendano a classificare diversi “fatti” sotto una unica “etichetta mentale” è un prodotto dell’evoluzione.

    Non hanno esistenza autonoma e “metafisica”.

    “La creazione è il legame tra gli enti, nella loro percepita contingenza e pregnanza di significato, e ciò che li fa esistere.”

    Il “significato” è un attibuto umano che si sovrappone al mondo per orientarcisi, come delle linee disegnate su una cartina per tracciare un precorso fra i monti. Se vai fra i monti, a terra non trovi le linee che tu hai tracciato, anche se queste ti possono essere utili per non perderti.

    “Se non vuoi: i poeti hanno ragione a vedere profondo significato nel mondo”

    Non è detto. Come hi già visto, il “significato” non è necessario al mondo, ma all’essere umano per orientarsi nel mondo (e non è detto che serva per forza dare un “significato generale” più ampio della classificazione empirica, così come non è detto che le linee disegnate “descrivano” i monti).

    “Una persona, poi, che ama l’umanità non è buono: è un fascista( magari progressista o liberale, ma fascista ) e un amorale”

    Sono d’accordo, ma (passando ad un altro esempio) se tu ami una persona la vincoli, la limiti in un certo senso,puoi persino arrivare a ridurre la sua libertà (forzarla a vivere se si vuole suicidare, ad esempio). E questo è “buono” ma “antietico” perchè la privi della capacità di decidere.

    “Le forme di parareligiosità tra atei sono frequenti.”

    A volere essere pignoli, chi crede in una “intelligenza razionale”, come dice anche Novak, ateo non è,ma teista (come Voltaire).

    Personalmente non ho “fedi” nè nel “progresso”,(che non esiste a sè come “ente”, è un’altra etichetta che ingloba una serie di mutamenti della tecnologia e delle società umane, mutamenti che recano sempre sia vantaggi che svantaggi, ma non sempre nella stessa misura), nè nella “libertà” (che non è un “must” assoluto-come ho già detto, ci sono dei casi in cui ci riduciamo a vicenda la libertà proprio per “amore”, anche se tendenzialmente tendo ad apprezzare la libertà più dei legami), nè in “sommerazionalità” (l’universo è caotico, l’ordine è una parte limitata -all’interno di un “caos quantistico”-che noi esseri umani cerchiamo in ogni cosa, per non “perderci”,la “ragione” è tracciare queste linee mentali).

    L’articolo di Novak non lo ho trovato brillante, mi spiace, ma piuttosto noioso e un pò troppo autogratificante per un credente (qualcosa come “haha! Ci sono sedicenti atei che credono in qualcosa, dunque la religion è necessaria all’uomo!” in termini più raffinati).

    L’ateismo NON è una religione, è il non accettare religioni. Se poi ci sono persone che si proclamano atee ma credono in “supreme intelligenze” o “destini storici”, semplicemente non sono atei, per definizione.

    C’è da chiedersi, infine, quanto influisca la cultura religiosa anche su chi non è religioso (molto).

    Quanti degli “atei” credenti nella “razionalità suprema” hanno ripreso il concetto dalla loro educazione religiosa?

  19. Kirbmarc: Lascio a eno l’onore e l’onere di rispondere nel dettaglio.

    Mi limito a notare che nel tuo resoconto descrivi il significato come qualcosa che viene applicato al mondo. In realtà il significato crea il mondo, non nel senso che le montagne non esistono se io non le chiamo, ma che non esistono per me, il che è la cosa più importante.

    Quanto alla religiosità: che esistano atei “duri e puri” è un fatto, ma è anche un fatto che molti atei sono in realtà teisti e che l’ateismo è sorto molto tardi, nella storia dell’umanità (e penso solo in ambito monoteistico, ma non ne sono sicuro). Penso sia corretto dire che l’uomo è per natura religioso (ovviamente ciò non significa che Dio esiste).

  20. 1)

    L’idea che non esistano enti ma catalogazioni mentali è difficile da sostenere.
    Certo, esistono catalogazioni mentali.
    Questo non implica che tutto sia tale.
    ( Non mi risulta che Wittgenstein sostenesse una simile posizione psicologista… dove, esattamente? Sei sicuro che parlasse di mente? E se lo sosteneva, comunque sia, aveva torto. )
    Le catalogazioni hanno la caratteristica di essere plurivoche. Gli animali possono essere catalogati in specie diverse, sempre che si abbia l’accortezza di non confondere le specie di un biologo con le species di Aristotele.

    L’esempio classico contro la generalizzazione di questa idea è però il libro.
    I libri possono essere divisi in romanzi, favole, umorismo etc. etc.
    Oppure secondo l’anno di edizione, il taglio delle pagine, la qualità della carta, le dimensioni, il tipo di stampa, il modo in cui viene l’ectipo deriva dall’originale( per impaginazione compositiva come dal manoscritto alla prima copia, per stampa anastatica etc. ), per la collana d’appartenenza, etc. etc.
    ( So qualcosa di biblioteconomia. )

    Gran parte di cià è a relativa discrezione della comunità bibliotecaria.

    Tuttavia “libro” significa due cose contemporaneamente: un oggetto fisico e un opera letteraria.
    Un copia di un oggetto fisico è un secondo oggetto, mentre non ha senso dire che Moby Dick letto in economica e Moby Dick letto in rilegatura, con stessa punteggiatura siano diversi.
    ( Nota che l’oggetto non-concreto “opera” è di solito sottinteso nella frase “ho copiato quel libro fisico” )
    Quando una biblioteca deve inventariare ciò che possiede per rispondere alla domanda “Cosa abbiamo?” o sceglie di catalogare separatamente i singoli oggetti( ciò vale se è una biblioteca o libreria antiquaria, o per assurdo un robivecchi che vende oggetti a peso ) o le cataloga assieme a seconda dell’opera di cui è un ectipo.
    “Avete perso Moby Dick?” ha due risposte: “No, l’abbiamo” oppure: “Ne abbiamo perso il Moby Dick numero 3″.
    L’articolo determinativo segnala che ci sono diversi Moby Dick. Ma sarebbe assurdo se preposto all’opera letteraria, a meno che non sia un articolo di “eminenza” o non ci si riferisca a diverse versioni della stessa opera!
    In nessuna catalogazione possibile, però, l’opera verrà confusa con l’oggetto fisico. Una biblioteca che lo facesse, andrebbe a gambe all’aria: subirebbe furti senza accorgersene oppure moltiplicherebbe bizzarramente la varietà del proprio patrimonio con le copie doppie e triple.

    Ci sono anche questioni più fini sulla pluralità degli enti, che toccano il corpo vissuto, la percezione, la nostra percezione dell’identità nel tempo etc.
    Ma te le risparmio.

    La tesi che sostieni nega l’ontologia.
    Ma dal momento che questa è metodologicamente fondata e non c’è alcuna alternativa sensata per render conto di questo ed altri fenomeni, la tesi si limita a spazzare sotto il tappeto certe questioni dicendo: “Questa risposta non è razionale e complica la realtà praeter necessitatem! La vera risposta razionale la daremo noi domani… o dopodomani… o tra un mese…”
    Così la realtà è semplificata, ma anche del tutto ignorata.

    Se è d’interesse l’aspetto psicologico, ci si potrebbe chiedere casomai come mai c’è tanto fascino nelle aspirazioni riduzioniste( enti-> categorie, etica-> comportamento… )
    E’ un vizio tipico di molti: voler dimostrare che dove la realtà dà molti, in realtà c’è uno.
    Sempre una semplificazione del cosiddetto caos, ma si introduce un espressione avverbiale ( “in realtà” ) dal significato sfuggente e contorto.
    Di più! Queste tesi si scagliando contro la metafisica e i suoi fini distinguimenti tra esistenza, essenza, concetto, senso, potenza, atto, pretenzione, retenzione, telos etc.
    Però poi mi dice frasi come: “La mente è cervello” o “L’etica è comportamento.”
    Ora, quella copula non ha lo stesso significato di “Il cane è rosso”, né indica un’identità come “Mario è mio cugino”.
    Che cosa mai significa, allora? E se non significa, perché si usa?
    Questo nominalismo parte da “Nuda nomina tenemus” e arriva a “Nuda signa habemus”.

    Poi c’è l’aspetto “genetico”, cioè di emersione dell’attuale dal passato.
    Quando io devo spiegare cià che mi sta davanti, comincio con una descrizione. Vedo un tavolo che poggia su gambe, e vedo che le gambe sono parte del tavolo. Vedo il tavolo e so che c’è un lato invisibile dietro, anche se non so come è fatto. Etc. etc.
    Finora ho utilizzato un armamentario piuttosto robusto e schiettamente metafisico, nel senso aristotelico: “parte”, “lato invisibile”( riflettici e capirai che sapere l’esistenza di un invisibile è davvero curioso ).
    Ora, fatto questo posso chiedermi come è stato costruito, quali leggi fisiche non lo fanno crollare, che statica ha, a cosa serve, come si sono creati gli elementi fisici che lo compongono, qual è la sua struttura chimica…
    Ma tutto questo, la sua genesi e la sua spiegazione fisica profonda, in che modo mi dice qualcosa su “parte di”, “lato invisibile”( cioè il fenomeno del “riempimento”), “identità nel tempo” etc. etc.?
    Non mi dice assolutamente nulla.
    Sostenere il contrario è affermare, a mo’ degli ermeneuti in campo storico, che il passato di qualcosa rende conto del suo stato presente.
    E’ una tesi bella forte, che non viene spiegata.
    Ma come nel caso del riduzionismo enti->categorie, si basa su una promessa di pagherò che ancora non mantiene.
    E di nuovo, dare credito a questi debitori insolventi ha un peso enorme per la nostra comprensione della realtà, che dobbiamo sforbiciare a forza per far andare in pari il nostro bilancio filosofico.

  21. 2)

    Se vai fra i monti, a terra non trovi le linee che tu hai tracciato, anche se queste ti possono essere utili per non perderti.

    Mi piacerebbe divagare su questa frase, perché è falsa.
    E’ vero che non c’è una linea fisica che delimita i monti, ma noi siamo portati a riconoscere negli oggetti certi contorni bona fide, cioè intuitivamente.
    ( Poi ci sono ulteriori partizioni del tutto arbitrarie, ma sono altra faccenda )
    Sono confini fuzzy, che identificano i cosiddetti oggetti vaghi. Tuttavia, essi esistono pur essendo più un fascio di confini attribuibili che un preciso confine.
    ( O meglio: questa è la spiegazione logica che noi diamo del fenomeno percettivo quando lo spieghiamo intellettualmente.
    In origine, agli enti sensibili noi diamo limiti topologici caratterizzati da vaghezza e analogia. )

    Probabilmente il modo in cui l’intuizione di confine si struttura ha radici psicologiche, con relativa spiegazione “evolutiva”. Mi è più difficile credere che la nozione di oggetto vago o di confine sia pscicologica, per le ragioni dette sopra…

    E’ sospetto, poi, il tipo di ragionamento che fai: “I confini servono a orientarci, quindi si sono evoluti nella nostra mente per farci sopravvivere.”
    E perché non: “I confini e molti altri enti esistono. Tutto ciò che può essere utile, dev’essere anche reale. Quindi l’esistenza di tali enti ha avuto un ruolo fondamentale nell’evoluzione.” ?

    Mostrare come questo presupposto sia falso, mette in discussione la tua idea di “realtà”, “conoscenza” e “psicologico”.
    Ma mi rendo conto che era solo una metafora e la tratto come tale.
    Inoltre, anche se in generale la tua negazione dell’ontologia è errata, ancora non è detto che il senso sia reale.

    Non so bene come spiegarti che il senso, cosiddetta proprietà terziaria, sia reale, ma ci provo.
    Tu dici che è imposto dall’uomo o che si è evoluta.
    Questa materia richiederebbe una analisi fine di cosa possa essere reale e cosa no.

    Difficilmente qualcuno potrebbe dirmi: “La verità, sia come corrispondenza mente-realtà, sia come insieme di conoscenze vere, non è reale! E’ solo un prodotto dell’evoluzione!”
    Se me lo dicesse, cadrebbe in contraddizione pragmatica.
    Credo che tu non sosterrai una tesi simile.
    Se non lo fai, siamo a metà strada.
    Resta da dimostrare che di relazioni mente-realtà o intellectus-res o coscienza-noemata etc. ce ne sono molte, e che la relazione apofantica è solo una di queste.
    Insomma, si relaziona con la realtà la verità. Ma anche il giudizio morale( il bonum ), quelli estetici, e molti altre cose che non assomigliano affatto a giudizi.
    Analisi in questo senso si trovano in Tommaso d’Aquino, in Scheler, in John Austin…
    Sono tesi poco popolari nella comunità acculturata, ma capaci di render conto di una gamma di fatti molto più vasta di quella che un apofansis-addict possa fare.
    Spiega perché se io do un immotivato biasimo a qualcuno, non basta dire: “Il biasimo, purché si basi su fatti veri, non è né vero né falso. Cosa vuoi da me?”. Dobbiamo spiegare in che modo esso era giusto.
    Questo comportamento linguistico ci vincolo a ritenere la giustizia oggettiva e legata alla realtà- ma come detto sopra, oggettività non esclude la soggettività e la località, ma l’individualità e l’incomunicabilità.
    ( Con questo rispondo parzialmente a Ivo sulla consistenza oggettiva dell’etica. )

    Dimostrato questo, potrei passare a spiegare- anzi: a mostrarti ostensivamente- che la “meraviglia” rimanda ad un Altro, come una traccia rimanda ad un piede.
    Ma ci tengo a sottolineare che il “dimostrare” di cui parlo non è la dimostrazione di un matematico.
    Avrai notato che uso fino allo sfinimento la locuzione “render conto“.
    Io mi limito a render chiara e a razionalizzare la struttura spontanea della ragione, dell’intelletto, e del “cuore” umano.
    ( Il presupposto da argomentare è ovviamente che esista una tale struttura. )
    Tutto ciò di cui parlo è insomma del tutto naturale. Al contrario, i nominalismi e compagnia bella sono posture umane innaturali, traboccanti di postulati d’origine sconosciuta e senza fondamento nella nostra esperienza sensibile.
    Per dirla in termini neopositivisti: sono METAFISICHE. Per dirla in termini wittgensteiniani, sono BOTTIGLIE IN CUI SI INTRAPPOLANO MOSCHE.

  22. Mi insinuo, tra Eno e Kirbmarc, dalla parte di Kirbmarc per identità di vedute.
    Se esistesse un’etica “a priori”, in circostanze limite saremmo condizionati da essa. Non sarebbe neppure concepibile una “mors tua, vita mea”, che invece pone crudamente l’accento sulla centralità dell’io normativo nei rapporti tra esseri.
    In realtà, anche l’etica si sviluppa in un contesto contrattualistico, tant’è che si sostanzia poi nel diritto positivo. E’ sì oggettiva, nel senso descritto da Eno, perché una volta formata tende ad agire “a prescindere” dai suoi creatori. Ma è anche relativa, in quanto mutevole nel tempo per effetto delle volontà individuali. “Non uccidere”, principio che oggi penso reputiamo unanimemente l’assoluto etico, potrebbe cambiare la propria portata cogente qualora in futuro la medicina fosse in grado di riportare in vita un cadavere.

  23. 3)

    Sull’articolo di Novak non insisto.
    Non posso analizzare ogni virgola, perché è solo un editoriale e non un incunabolo di Petrarca.

    Sull’ateismo e la fede, avrei molto da dire.
    La fede non è una scelta: è un fatto.
    L’uomo si fida di qualcosa costantemente: mi fido del linguaggio che sto usando, del sistema di internet che visualizzerà su altrui pc quello che scrivo fedelmente, mi fido di te( altrimenti non ti parlerei ) etc.
    Fidarsi è un tipo di atto umano, pari per dignità al conoscere, al credere, al supporre e agli atti emotivi come amare, odiare, pentirsi…

    Ci sono forme di negazione della religione che la negano sostenendo che la “fede” non è razionale.
    Facendo questo rivelano molti presupposti errati.
    Pensano che esista un unico tipo di fede comune a tutte le religioni( ci sono differenze enormi già tra ebraismo e cristianesimo ) e che tutte le religioni siano centrate sulla fede( il buddhismo non lo è ).
    Pensano che fede e religione siano la stessa cosa.
    Pensano che “razionale” sia un attributo della solo conoscenza, ignorando che c’è una razionalità artistica, una razionalità emotiva, una razionalità pratica etc. etc.

    Ciò che non è un fatto già dato è l’oggetto di fede, e il ruolo che esso ha per l’esistenza dell’uomo.

    Sicuramente chi nega Dio per una fede nella Ragione o nella Scienza o nel Dubbio lascia il sospetto che abbia sostituito Dio con un dio.
    Sono, per esperienza, molto numerosi. So bene che per definizione non sono atei. Il punto è che molti si professano atei senza esserlo, e non perché non sappiano il significato del termine.

    Poi ci sono persone che negano Dio perché credono che sia stato smentito o che fosse un prodotto culturale, o perché hanno fede in certi infondati “assiomi” metafisici.
    Sono casi molto diversi dai primi.

    Ci sono poi anche tipi di “agnostici”, quelli che dicono di “lasciare la porta aperta”, che invece sono veri e propri atei perché dimostrano di avere un’idea impossibile di Dio( Dio non è una possibilità a cui lasciare aperta alcuna porta ).

    La casistica- e mi dispiace fare casistica sulle persone- è sterminata, e di atei veri e propri ce ne sono molti.

    Ciò che resta invariato è la presenza del sapere, del credere, del fidarsi.
    E la presenza, non accidentale, nella realtà e nell’uomo stesso di ragioni per credere in Dio.

  24. 4)

    Prima di tornare a studiare, un’ultima cosa( lascio alcuni punti del tutto inevasi, come l’osservazione di Ivo sull’essere e il dover essere… che presuppone ciò che vuole dimostrare… 😛 ).

    Tu continui a dire che la libertà è il fondamento dell’etica, nel discorso su bene e eticità.
    E’ chiaro che dai a “bene” e “etica” un significato tuo, del tutto legittimo ma diverso da quello comunemente in uso. Sviluppi poi una teoria che dai per scontata ma non mi è chiara nei dettagli: pertanto non do giudizi.

    Ma scusa- perché la libertà?
    Perché non piuttosto, la responsabilità? o la giustizia? o il bene? o la coscienza di sé? o la cura della propria psiche?

    L’etica si interessa dell’uomo in quanto agente.
    L’azione presuppone sia le varie forme di libertà, la nozione di bene, di virtus, di coscienza, di responsabiiltà, di alterità etc. etc.
    Se manca qualcosa, è una azione in difetto: o cattiva, o non libera, o …
    Oppure non è un azione!

    Se io tolgo la nozione di “alterità”, cioè la percezione della distanza tra me e un altro essere( foss’anche io, come sostiene Platone ), resta un uomo che si agita e fa cose, costruisce, opera effetti nel mondo.
    Tuttavia, non c’è più responsabilità, né azione: avrei un uomo poietico, e non pratico.
    In tali condizioni, lo stesso concetto di “libertà” sarebbe svuotato, o cmnq insignificante.

    Non vedo ragioni per porre una gerarchia tra le varie componenti dell’azione.
    Dire “La libertà è il presupposto dell’etica” è immotivato come dire “Il dovere è il …” o “L’amore….” o “L’umanità…” o “La consapevolezza delle conseguenze…”

    ciao! Eno 🙂

    ( Mi hai beccato nel pomeriggio di svago totale. Buona domenica a tutti. )

  25. @lector: Non ho detto che esiste un sistema di norme a priori e acontestuali.

    A priori non vuol dire universale, ma non empirico né individuale. Io mi riferivo ai valori, cioè a quelle “categorie” in cui incaselliamo le cose prima di compiere atti o giudizi etici: “utile, inutile” vale per gli oggetti, “buono, cattivo, generoso, meritevole etc.” per persone( che sono anche oggetti ), “degno di compassione, indegno di compassione” per gli esseri senzienti…
    Io non posso essere compassionevole con una moneta, né posso parlare di bontà( forse ) per un animale.
    Ma non c’è nessuna ragione fattuale per cui certi attributi possono andare ad alcune “cose” e non ad altre. A priori è solo la grammatica di base, non la letteratura e il lessico.

    Questa distinzione tra empirico e apriori non ha grosso peso quando rileviamo la pluralità di sistemi etici, o meglio: aiuta a capire le ragioni dell’indubitabile trasformazione dei sistemi etici e del contestualismo che li caratterizza.
    Ha invece un peso decisivo quando ci chiediamo: “D’onde l’etica?”

    Il principio “non uccidere”, per dire, non solo non varrà per sempre, ma ha mai avuto valore assoluto.
    Infatti, il decalogo dice letteralmente: “Non commettere omicidio”.

    ciao Lector! 🙂

  26. Ciao, Eno. 🙂
    Non darmi dello scemo, ma non riesco proprio a cogliere. A parte che è difficilissimo seguire la traccia di tutti i ragionamenti senza perdersi (per me).
    Con qualche divagazione, il discorso verteva sull’etica. Più o meno, la domanda era questa: “esiste un’etica senza dio?”
    Io interpreto la questione in termini di etica assoluta e a priori. Tra me e me rispondo no, perché giudico l’etica un prodotto umano, relazionale e mutevole. Mi pare che Kirbmarc abbracci questo approccio, col rispondere che così come non esiste dio, non esiste neppure un’etica assoluta. In effetti, i due concetti (quello di un dio “deista” – pertanto né ebraico, né induista, né atzeco – e quello di assolutezza dell’etica) “lato sensu” potrebbero coincidere.
    Replichi: “A priori non vuol dire universale, ma non-empirico né individuale”. Qui iniziano le mie prime difficoltà (forse debbo rileggermi tutti i tuoi commenti, ma mica è impresa facile!): stai contestando il significato che ho dato (forse arbitrariamente) al termine “a priori”, ovvero mi precisi il significato corretto al quale tu ti rifai, intendendo che per te l’etica è non-empirica né individuale?
    “Questa distinzione tra empirico e apriori…ha peso decisivo quando ci chiediamo “d’onde l’etica?” Ora, io leggo quel “d’onde” come “da dove proviene”. Se questa mia lettura è corretta ribadisco che per me qualsiasi etica è tanto “empirica” quanto “individuale” e assurge a un livello più alto solo tramite una mediazione contrattualistica che si trasfonde nel diritto. A meno che, non mi stia completamente sbagliando sul significato di etica.
    Infine, mi eccepisci che “non uccidere” non ha né ha mai avuto valore assoluto, rifacendoti alle parole del decalogo. Qui non colgo proprio la sottigliezza (mea culpa), se non in quanto “omicidio” significa “uccisione del simile”, ma per una percezione esatta della differenza penso che dovrei afferrarne il senso direttamente dall’originale ebraico. Per uccidere, io mi riferivo all’U-omicidio, anche per limitarne il riferimento a un contenuto universalmente accettato (tra persone razionali).
    Attendo umilmente lumi. 🙂

  27. Durante una lezione, Imre Lakatos osservò a proposito di una complicata formula:

    Riguardo alla verificabilità, questo è davvero un risultato conclusivo, perché nessuno che io conosca è mai riuscito a leggerlo!

    Questi tuoi commenti si avvicinano molto a meritare in pieno questa frase 😉
    Magari domani me li leggo con calma e ti rispondo…

    PS Nel mio discorso non presuppongo quello che voglio dimostrare, presuppongo quello che vuoi dimostrare tu, accontentandomi di un risultato intermedio.

  28. Ho scritto troppo, troppo in largo e senza frenare il mio impulso alla divagazione e al dettaglio.
    Pardon…

    1) Quando scrivo che a priori non vuol dire universale, cercavo di chiarire in che senso è assurdo pensare che l’etica sia solo un frutto dell’evoluzione.
    Ma non ho troppe forze per spiegare.
    Già un’altra volta Ivo mi aveva chiesto di riassumere Scheler in un post e io avevo più saggiamente declinato: ciò che viene argomentato in 300 pag. fitte fitte, non si riassume.

    Ripeto solo questo.
    Quando costruisco liberamente delle norme o agisco secondo principi, non tratto sullo stesso piano ogni cosa.
    Tratto in un modo le persone, in un altro gli oggetti, in un altro gli animali non-autocoscienti, in un altro i beni “sociali” come l’onore o le opere d’ingegno, in un altro le leggi.
    Questo impedisce che molti possibili principi o azioni abbiano senso.
    Il cavallo di Caligola non era davvero un senatore, non posso brevettare mio figlio né un numero primo, non posso dare medaglie al merito a un animale né biasimarlo, non posso letteralmente amare o odiare una statua né posso sposarla, non posso decretare il possesso di una branca della matematica, non posso condannare chi non è consapevole delle proprie azioni, non posso decidere a maggioranza che Giorgio è una res, un oggetto.
    Tutto questo è OVVIO.
    Ma la domanda è: perché è ovvio?
    Deriva da qualche esperienza sapere che di ciò di cui non si è consapevoli, neppure si è responsabili? O che solo ciò che è costruito o scoperto può essere brevettato?
    E quale esperienza potrebbe smentire questi principi?
    Non sono smentibili, quindi non sono empirici.
    Limitano le possibilità dell’etica, quindi l’etica ha fondamenti a priori.
    Avendo fondamenti a priori, l’etica non è solo frutto dell’evoluzione.

    2) Commettere un’omicidio ha una definizione legale, uccidere è un fatto oggettivo.
    Come da vocabolario, il boia uccide ma non commette omicidio; se sparo a un rapinatore ho ucciso, ma non sono un assassino.

    Senza scomodare le lingue semitiche, in tedesco quella frase suona: “Du sollst nicht ermorden”, e in inglese “Thou shallst not murder”.
    Non era l’uccisione in sé a essere vietata IN MODO ASSOLUTO( precetto divino ), ma i casi prescritti dalla legge.
    Non è mai esistito il principio assoluto di non uccidere, essenzialmente perché inapplicabile.

    Perché lo menzionavo?
    Tu dicevi che il precetto apparentemente universale ed assoluto di non uccidere potrebbe evolversi.
    Io ho risposto che non è mai esistito quel precetto, ma un’altro, “non commettere omicidio”, che è una prescrizione legale-sociale.
    Come ogni prescrizione legale, si è sempre evoluto, è sempre stato contestuale e non ha mai avuto la stessa applicazione ovunque.
    C’era però qualcosa di universale e a priori: la consapevolezza che una persona non è un vaso di terracotta, una res, che possiamo spaccare a nostro piacimento.

    ciao, Eno!

  29. Grazie per i chiarimenti. Ora credo di poterti replicare, ma non voglio abusare della tua disponibilità. Se sei d’accordo, possiamo riprendere nei giorni a venire. Per adesso, aspetterei il commento preannunciato di Ivo, che senz’altro vorrà aggiungere qualcosa.
    Ciao 🙂

  30. “Tuttavia “libro” significa due cose contemporaneamente: un oggetto fisico e un opera letteraria.”

    Il linguaggio “naturale” umano non è progettato per discussioni fliosofiche o scientifiche. E’ essenzialmente utile alla comprensione immediata: per questo con una sola parola si intendono sia il contenenete che il “contenuto”. E’ un uso filosoficamente improprio,in realtà si tratta di due concetti differenti, ma nel linguaggio “naturale” la correttezza filosofico-scientifica non è essenziale.

    Ma questo non dimostra che ci siano “enti” metafisici.

    “Ma dal momento che questa è metodologicamente fondata”

    Non basta il metodo a rendere una tesi vera.

    “e non c’è alcuna alternativa sensata per render conto di questo ed altri fenomeni, la tesi si limita a spazzare sotto il tappeto certe questioni”

    Non si spazza nulla “sotto il tappeto”; se mai., si rimanda da un analisi di presunti “enti” metafisici ad una analisi del linguaggio e dela psicologia umana.

    “Ma tutto questo, la sua genesi e la sua spiegazione fisica profonda, in che modo mi dice qualcosa su “parte di”, “lato invisibile”( cioè il fenomeno del “riempimento”), “identità nel tempo” etc. etc.?”

    L’analisi su cosa noi intendiamo per “riempimento”, su come ci costruiamo il concetto di “pieno” o di “tempo” o di “parte”, è una analisi psicologica in atto (che ha già dato dei risultati interessanti, vedi l’analisi sul “riconoscmento del sè”). Altro che “spazzata sotto il pavimento” o “ignorata”.

    “E’ vero che non c’è una linea fisica che delimita i monti, ma noi siamo portati a riconoscere negli oggetti certi contorni bona fide, cioè intuitivamente.
    ( Poi ci sono ulteriori partizioni del tutto arbitrarie, ma sono altra faccenda )”

    Questo perchè abbiamo avuto evolutivamente un vantaggio ricoscere le simmetrie e i “contorni” (per riconoscere una banana da una foglia o da un ramo, per esempio). Comunqu, mi sono spiegato male, parlavo proprio dei sentieri “arbitrarii” (entro certi limiti: il paesaggio li influenza sempre, non esistono ininiti sentieri percorribili).

    “I confini e molti altri enti esistono. Tutto ciò che può essere utile, dev’essere anche reale.”

    La srconda frase è falsa. I numeri, ad esempio, sono utili, ma non sono “reali” , sono modelizzazioni della realtà.

    “Ma anche il giudizio morale( il bonum ), quelli estetici, e molti altre cose che non assomigliano affatto a giudizi.”

    Il giudizio “morale” non è un giudizio sulla realtà, ma una “deduzione” ( meglio derivazione) che parte da dei “postulati morali” (espliciti o meno) che fano parte della nostra “mente” perchè, appunto, “selezionati” evolutivamente.
    La stessa cosa per un giudizio estetico, anche se in maniera diversa.

    Una mente intelligente non umana NON avrà la stessa etica o la stessa estetica dell’uomo (anzi, non è nemmenodetto che abbia un eticao una estetica), ma, se è sopravvissuta, AVRA’ un sistema di conoscenza della realtà rapportabile a quello umano (perchè la realtà è una sola), ma non identico (perchè la struttura della mente umana influenza anche la conoscenza della realtà).

    “la struttura spontanea della ragione, dell’intelletto, e del “cuore” umano.”

    Che dipendono dalla struttura del suo cervello, selezionato dall’evoluzone. E che NON sono una realtà indiprndente da suo cervello o addirittura dal mondo fisico.

    “la “meraviglia” rimanda ad un Altro”

    La meraviglia è un’altrastruttura della mente umana, non una legge di natura o un “fatto”.
    Per dirla intermini informatici: meraviglia,etica, estetica, ragione, sentimenti,inteletto sono software. Che dipende da un hardware (il cervello) ed è stato selezionato dalle forze “cieche” della selezione naturale.
    Quindi questo “software” utilizza dati del mondo esterno, ma non è una “realtà esterna”, nè è indipendente dall’hardware. E’ un “epifenomeno”.

    “La fede non è una scelta: è un fatto.”

    Sostanzialmente sono d’accordo, anche se ci sarebbe da discutere sulla parola “fede”.

    “Fidarsi è un tipo di atto umano, pari per dignità al conoscere, al credere, al supporre e agli atti emotivi come amare, odiare, pentirsi…”

    Ma c’è differenza fra fidarsi e fidarsi.
    Un conto è supporre, con un margine di errore (e la possibilità di cambiare idea in caso di controprova),un comportamento prevedibile di un oggetto che si conosce, un altro è presupporre una base di confronto (anche quesa, non granatita) fra due persone, di cui l’esistenza è però verificata, e un alto è supporre un ente metafico. Non sono situazioni paragonabili.

    “Pensano che “razionale” sia un attributo della solo conoscenza, ignorando che c’è una razionalità artistica, una razionalità emotiva, una razionalità pratica etc. etc.”

    Non credo sia questione di razionalit, ma di evidenze (nel senso d “prove materiali”) . Come abbiamo già visto, arteed emoioni non parlano della “realtà”. La “razionalità pratica” , poi, èla stessa razionalità conosctiva non approfondita. Le regolette del meccanico o dell’ingegnere hannoil loro fondamento nelle leggi fisiche che lo scienziato studia.

    “E la presenza, non accidentale, nella realtà e nell’uomo stesso di ragioni per credere in Dio.”

    Non ce ne sono, se non in una visione che ritiene reali gli “enti metafisici” o il mondo “dotato di un senso intrinseco”. Come abbiamo già visto, questa visione è superata (e inutile: non spiega nulla del funzioamento nè del mondo nè della mente umana, si limita a “supporre” enti s enti)

  31. 1)”perché la libertà?”

    Non perchè sia il SOLO fondamnto dell’etica, ma perchè è UNO dei fondamenti dell’etica. L’esempio del paternalismo come “buono” (ovvero, pewr come lo intendevo io in quel contesto, motivato da un sentimento altruistico) era solo uno dei varii esempi di azione “buone” (o meglio altruistiche) ma non “etiche”.

    2)”perché è ovvio?Deriva da qualche esperienza sapere che di ciò di cui non si è consapevoli, neppure si è responsabili?”

    No, ma lo stesso concetto di “pena” e “responsabilità penale” è un costrutto dell’evoluzione della mente umana (la natura non “punisce”) E’ risultato vantaggioso “punire” solo il consapevole, perchè in questo modo si stabilisce un “principio” da seguire consapevolmente. Se si punissero consapevoli e no, le stesse norme non avrebbero senso (richiedono la consapevolezza per essere applicate).

    “O che solo ciò che è costruito o scoperto può essere brevettato?”

    E’ implicito nel concetto di “propietà”. La “propietà” è una evoluzione della protezione del sè, quindi anche del proprio “lavoro” , che si è “reso parte di sè”.

    E ,sul figlio, non è sempre stato così (per i Romani il figlio era propietà del pater familias). Idem per Gorgio come res (gli schiavisti sostenevano proprio chedegli esseri umani fossero cose, “strumenti parlanti”).
    Già questo stabilisce che gli “a priori” tali non sono,perchè variano storicamente.

  32. In sostanza tu dici che l’è tutto psicologico, perché… psicologico e sovraimposto.
    Io dico che non lo è, e che una parte di ciò che noi chiamiamo “psicologia” o “mente” non è empiricamente smentibile.
    Finita lì.

    i numeri non sono “reali”, sono modellizzazioni della realtà

    Il ma sottinteso( non sono… ma… ) è spurio.
    Certo che non sono “reali”, come il tavolo su cui scrivo.
    Ma sono reali senza virgolette.
    Esistono diverse forme di esistenza: spaziale e temporale, spaziale e non temporale, temporale e non spaziale, né spaziale né temporale( cioè astratta ).
    Quine direbbe che esistere è univoco ed è solo essere una variabile quantificata, ma queste teorie comportano improbabili vermi pluridimensionali e robe così…
    Se ne sono accorti in molti che ci sono differenze di realtà: non tutto il reale è presente nel flusso di coscienza( leggi naturali, numeri, leggi etc. ).
    Ma questo non vuol dire che la teoria presta il fianco a obiezioni così elementari.

    Il linguaggio “naturale” umano non è progettato per discussioni fliosofiche o scientifiche. E’ essenzialmente utile alla comprensione immediata

    Parzialmente vero, ma non pertinente.
    Io non stavo dicendo che il lessema “libro” ha diversi significati.
    Non mi riferivo ai significati dei termini.
    Dicevo che le azioni che noi compiamo con ciò a cui di volta in volta il termine “libro” si riferisce, implica l’esistenza del tipo d’ente “opera” e a volte “volume”.
    E’ vero che l’analisi del linguaggio ordinario- di stampo russelliano o lessicale- non dimostra molto, ma l’uso che ne facciamo e ciò che compiamo- p.e. in una biblioteca, in diritto, in un mercato…- con esso sì.
    Gran parte del linguaggio non dice, ma fa.
    Vende, cede, promette, conferma, cataloga, definisce…
    Possiamo anche dire che tutte queste azioni, con gli enti che implicano, sono illusorie.
    Ma visto che non possiamo farne a meno nella vita sociale, esattamente come non possiamo fare a meno di vedere, che senso ha parlare di illusione?
    Se vuoi puoi dire che quegli enti sono solo “software”, ma allora lo sarebbe anche l’esistenza del pc da cui digito.

    E’ implicito nel concetto di “propietà”. La “propietà” è una evoluzione della protezione del sè, quindi anche del proprio “lavoro” , che si è “reso parte di sè”.
    E , sul figlio, non è sempre stato così (per i Romani il figlio era propietà del pater familias). Idem per Giorgio come res (gli schiavisti sostenevano proprio chedegli esseri umani fossero cose, “strumenti parlanti”).
    Già questo stabilisce che gli “a priori” tali non sono,perchè variano storicamente.

    Tutto vero ma non dimostra nulla.
    Queste si chiamano deviazioni sul modello.
    La condizione umana dello schiavo o del figlio era quella di essere considerato come una cosa.
    In tal modo si stabiliva il rapporto di sottomissione tra padre e la familia e dello schiavo con la società.
    Ciononostante era una relazione umana, non un possesso: lo schiavo si sentiva sottomesso.
    Le cose non si sentono sottomesse e noi non cerchiamo di sottometterle.
    Posso anche nominare senatore un cavallo o res Giorgio. Ma il risultato non è un senatore o una cosa: è una palese beffa ai danni del senato e il soggiogamento di Giorgio.

    Quanto alla proprietà, lasciamo stare la tesi sulla sua origine, che non ci dice nulla sulla sua natura.
    Se vuoi puoi dire che è implicito nel concetto. Ma implicito in che senso?
    Lessicale? Allo stesso modo in cui azzurro è blu chiaro?
    Ovviamente no: io posso non capire alcuna lingua, ma comprendere il “mio” e il “tuo”.
    Logico? A & (A->B) -> B ?
    Ammetterai che c’è una differenza.
    Bene, ciò che è “implicito” ma non è lessicale, a cui tu ti riferisci, è esattamente l’a priori di cui parlo.

    Il giudizio “morale” non è un giudizio sulla realtà, ma una “deduzione” ( meglio derivazione) che parte da dei “postulati morali” (espliciti o meno) che fano parte della nostra “mente” perchè, appunto, “selezionati” evolutivamente.
    La stessa cosa per un giudizio estetico, anche se in maniera diversa.

    Sì, in parte do giudizi sulla base del sentire comune, o di certe pulsioni, o abitudini…
    Ma ridurre tutto a postulati mentali è puramente… un postulato!
    E poi cosa vuol dire deduzione implicita?
    Dove trovi le traccie di una deduzione nel comportamento umano?
    Se vedo un anziano sofferente che sta per cadere, io l’afferro. Non penso nulla, e se mi chiedono perché l’ho fatto replico: “L’ho visto soffrire.[ cioè ho visto empaticamente la sua sofferenza] Mi sono sentito in dovere…”
    Non c’è alcuna prova di una deduzione.
    Le “deduzioni” che presupponi sono, queste sì!, una modellizzazione di comodo…

    Ma c’è differenza fra fidarsi e fidarsi.

    Infatti, ho distinto credere e fidarsi.
    Le distinzioni che fai non esauriscono il problema.
    Se ti interessi: J. Newman, “Grammatica dell’assenso”

    “razionalità pratica”

    Razionalità pratica, per tradizione secolare, significa: razionalità etica, e non regola del pollice.

    bye, Eno

  33. In sostanza tu dici che l’è tutto psicologico, perché… psicologico e sovraimposto.
    Io dico che non lo è, e che una parte di ciò che noi chiamiamo “psicologia” o “mente” non è empiricamente smentibile.
    Finita lì.

    i numeri non sono “reali”, sono modellizzazioni della realtà

    Il ma sottinteso( non sono… ma… ) è spurio.
    Certo che non sono “reali”, come il tavolo su cui scrivo.
    Ma sono reali senza virgolette.
    Esistono diverse forme di esistenza: spaziale e temporale, spaziale e non temporale, temporale e non spaziale, né spaziale né temporale( cioè astratta ).
    Quine direbbe che esistere è univoco ed è solo essere una variabile quantificata, ma queste teorie comportano improbabili vermi pluridimensionali e robe così…
    Se ne sono accorti in molti che ci sono differenze di realtà: non tutto il reale è presente nel flusso di coscienza( leggi naturali, numeri, leggi etc. ).
    Ma questo non vuol dire che la teoria presta il fianco a obiezioni così elementari.

    Il linguaggio “naturale” umano non è progettato per discussioni fliosofiche o scientifiche. E’ essenzialmente utile alla comprensione immediata

    Parzialmente vero, ma non pertinente.
    Io non stavo dicendo che il lessema “libro” ha diversi significati.
    Non mi riferivo ai significati dei termini.
    Dicevo che le azioni che noi compiamo con ciò a cui di volta in volta il termine “libro” si riferisce, implica l’esistenza del tipo d’ente “opera” e a volte “volume”.
    E’ vero che l’analisi del linguaggio ordinario- di stampo russelliano o lessicale- non dimostra molto, ma l’uso che ne facciamo e ciò che compiamo- p.e. in una biblioteca, in diritto, in un mercato…- con esso sì.
    Gran parte del linguaggio non dice, ma fa.
    Vende, cede, promette, conferma, cataloga, definisce…
    Possiamo anche dire che tutte queste azioni, con gli enti che implicano, sono illusorie.
    Ma visto che non possiamo farne a meno nella vita sociale, esattamente come non possiamo fare a meno di vedere, che senso ha parlare di illusione?
    Se vuoi puoi dire che quegli enti sono solo “software”, ma allora lo sarebbe anche l’esistenza del pc da cui digito.

    E’ implicito nel concetto di “propietà”. La “propietà” è una evoluzione della protezione del sè, quindi anche del proprio “lavoro” , che si è “reso parte di sè”.
    E , sul figlio, non è sempre stato così (per i Romani il figlio era propietà del pater familias). Idem per Giorgio come res (gli schiavisti sostenevano proprio chedegli esseri umani fossero cose, “strumenti parlanti”).
    Già questo stabilisce che gli “a priori” tali non sono,perchè variano storicamente.

    Tutto vero ma non dimostra nulla.
    Queste si chiamano deviazioni sul modello.
    La condizione umana dello schiavo o del figlio era quella di essere considerato come una cosa.
    In tal modo si stabiliva il rapporto di sottomissione tra padre e la familia e dello schiavo con la società.
    Ciononostante era una relazione umana, non un possesso: lo schiavo si sentiva sottomesso.
    Le cose non si sentono sottomesse e noi non cerchiamo di sottometterle.
    Posso anche nominare senatore un cavallo o res Giorgio. Ma il risultato non è un senatore o una cosa: è una palese beffa ai danni del senato e il soggiogamento di Giorgio.

    Quanto alla proprietà, lasciamo stare la tesi sulla sua origine, che non ci dice nulla sulla sua natura.
    Se vuoi puoi dire che è implicito nel concetto. Ma implicito in che senso?
    Lessicale? Allo stesso modo in cui azzurro è blu chiaro?
    Ovviamente no: io posso non capire alcuna lingua, ma comprendere il “mio” e il “tuo”.
    Logico? A & (A->B) -> B ?
    Ammetterai che c’è una differenza.
    Bene, ciò che è “implicito” ma non è lessicale, a cui tu ti riferisci, è esattamente l’a priori di cui parlo.

    Il giudizio “morale” non è un giudizio sulla realtà, ma una “deduzione” ( meglio derivazione) che parte da dei “postulati morali” (espliciti o meno) che fano parte della nostra “mente” perchè, appunto, “selezionati” evolutivamente.
    La stessa cosa per un giudizio estetico, anche se in maniera diversa.

    Sì, in parte do giudizi sulla base del sentire comune, o di certe pulsioni, o abitudini…
    Ma ridurre tutto a postulati mentali è puramente… un postulato!
    E poi cosa vuol dire deduzione implicita?
    Dove trovi le traccie di una deduzione nel comportamento umano?
    Se vedo un anziano sofferente che sta per cadere, io l’afferro. Non penso nulla, e se mi chiedono perché l’ho fatto replico: “L’ho visto soffrire.[ cioè ho visto empaticamente la sua sofferenza] Mi sono sentito in dovere…”
    Non c’è alcuna prova di una deduzione.
    Le “deduzioni” che presupponi sono, queste sì!, una modellizzazione di comodo…

    Ma c’è differenza fra fidarsi e fidarsi.

    Infatti, ho distinto credere e fidarsi.
    Le distinzioni che fai non esauriscono il problema.
    Se ti interessi: J. Newman, “Grammatica dell’assenso”

    “razionalità pratica”

    Razionalità pratica, per tradizione secolare, significa: razionalità etica, e non regola del pollice.

    bye, Eno

  34. “implica l’esistenza del tipo d’ente “opera” e a volte “volume””

    Nessun “ente”, ma concetti diveri espressi on la stessa parola. Gli “usi” che facciamo delle parole presuppongono concetti mentali,non enti metafisici.
    E questi concetti dipendono dalla struttura del cervello, come l’output del softwaredipende dall sua strttura.

    Le azioni non sono illusione, la teoria che le vorrebbe dipendenti dsa “entità” metafisiche lo è.
    Il concetto di “opera” non è una legge di natura, o una costante esterna al pensiero umano, tanto è vero che si è modificato CON il pensiero umano.
    E’ uno dei molti esempi della “struttura” del pensiero umano (e del comportmentio umano), che non è uno “spirito libero” ma un “software” obbedisce a una lunga serie di regole (del linguaggio, dell “catalogazione” delle cose, della suddivisione spazio-temporale).

    PS: Non è psicologico in senso stretto, è struttura della mente/software.

    Per fare un altro paragone, il modo con cui una nave si muove spesso compicato) dipende anche dalla sua forma, anche se noi (ipoteticamente) non sapessimo di preciso come. Navi simili si muovono in modo simile, così come “menti” simili agiscono in modo simile.

    “Ciononostante era una relazione umana, non un possesso: lo schiavo si sentiva sottomesso.”

    Legalmente era un possesso. Nella società era un possesso. Quindi l'”a priori” che tu presupponi non esisteva, se nona livello del sentire soggettivo dello schiavo (che, poi, non sappiamo se si sentisse sottomesso o “cosa” . Se era schiavo dalla nascita, era più facile che si sentisse “cosa”).

    “Se vuoi puoi dire che è implicito nel concetto. Ma implicito in che senso?”

    Della “definizione interna” di propietà e possesso, persona e cosa. Definizione che (mi spiaceripetermi) NON è indipendente dalla strttura del nostro cervello.

    “Dove trovi le traccie di una deduzione nel comportamento umano?
    Se vedo un anziano sofferente che sta per cadere, io l’afferro. Non penso nulla, e se mi chiedono perché l’ho fatto replico: “L’ho visto soffrire.[ cioè ho visto empaticamente la sua sofferenza] Mi sono sentito in dovere…””

    La “deduzione” (o meglio “derivazione”, non avendo formazione fiosofica tendo a sbagliare i termini) è implicita nella tue frasi. Le “regole” (formatasi per evoluzione) sono sofferenza è male” e “bisona evitare il male”. Vedi l’anziano che soffre, e agisci di conseguenza. “Deduzione” è improrprio, ma forse “derivazione” no.

    IL problema, a mio avviso, è che tu ritieni l’idea di opera,di numero, di bene, come indipendenti dalla struttura del cevello umano, ed esistenti “a parte”, ma non spieghi perchè dovrebbe essere così, lo presupponi.
    La mia visione invece crec di rintracciare nella strttura del pensiero umano l’originedi queste “idee”. ovviamente,la strttura del pensiero umano non è “a priori”,ma dipende dal suo supporto fisico (il cervello) e dai dati elaborati (il mondo esterno, gli altri comportamenti umani) che dipendono, in ultima analisi, dalle leggi della fisica. Non c’è bisogno di aggiungere enti “extra-fisici” a questo odello.

  35. No, basta, rinuncio.
    Mi sono copiaincollato tutto in word e l’ho stampato; poi, tra ieri sera e la pausa pranzo ho preso il mio vocabolarietto e sono andato a verificare i termini che non conoscevo e quelli che non riuscivo a contestualizzare; mi sono fatto le glosse, ho riletto con molta attenzione, indicato con lettere e numeri i punti più salienti, consultato qualche vecchio manuale di filosofia e anche il codice penale per rinverdire i più sbiaditi ricordi; poi accendo il computer e … mi travolgete con altre 6 pagine fitte fitte ….
    Ok. Vedetevela tra di voi. Come al solito, Ivo è sempre il più saggio. 🙂 🙂 🙂

  36. ( Associare un’azione in risposta ad una situazione non è una derivazione da principi etici. E’ una risposta ad un caso specifico. Io vedo A, comprendo A, vi IMMEDIATAMENTE collego la giusta risposta B e agisco di conseguenza.
    Ma perché mai pensare- come non era affato implicito nelle mie parole- che io così sussumo A in una A-ità, cioè l’insieme dei casi analoghi, per dedurne mediatamente B?
    Questo va bene nella spiegazione nomologico deduttiva e tu presumi che valga universalmente…
    Ma è una constatazione quotidiana che noi non sappiamo spiegare il perché delle nostre azioni, ma agiamo bene.
    Non c’è allora alcuna ragione per pensare che noi usiamo sussunzioni e derivazioni, di cui non c’è traccia. )

    Sulla differenza tra concetto e ente, sul fatto che gli atti linguistici presuppongano o creino enti, non so fare altro che rimandarti a una robusta lettura di Austin e Searle.

    Tu affermi implicitamente che ci sarebbe un primato dell’apofantico e dell’esperienza “concreta” sugli altri usi e gli altri vissuti.
    E’ implicito nel tuo dire che esistono essenzialmente “oggetti fisici”.
    Ma perché?
    In effetti essi sono visti, sentiti, palpati, affermati, analizzati, concettualizzati. E noi non possiamo fare a meno di esistere senza avere sensazioni. In quel caso, noi saremmo cadaveri o in coma.
    Quelle operazioni sono ineliminabili, e da essi traiamo un gioioso: “Est!” della scoperta e della conquistata, piccola verità.
    ( E se ci sbagliamo un sonoro: “Mannaggia!” )

    Se valesse il principio che si tratta solo di “concetti” per la promessa( però bada: da “Io ti darò un cane!” segue un dovere, non un concetto di dovere… i concetti qui non c’entrano nulla ); o per lo stupore; o per il biasimo; o per la nomina; o per l’elogio; etc. -allora perché graziare dalla deminutio ad concepta l’affermazione o la percezione?
    Non c’è una sola ragione per escluderli dall’elenco.
    E se li escludi, io sarei parimenti legittimato a comporre una mia metafisica borgesiana in cui l’unico atto reale- cioè graziato- è, chessò, l’accusa o l’elogio.
    Poetico e divertente un mondo basato sull’invettiva e il complimento, ma assurdo.

    Ma non sono forse affermazione e percezione sviluppi dell’evoluzione? Puro “software”?

    Certo, se tutto è software il concetto di software è del tutto svuotato.
    Software su quale hardware?

    Gli antichi scettici negavano la verità ed sapevano saggiamente che per evitare una contraddizione dovevano cambiare il concetto di verità, l’atteggiamento e la struttura dell’uomo.
    Sai e sapevano forse farlo? E come?
    E come potresti comunicare una simile non-verità a uomini che vivono nel mondo della verità e dell’errore?

    E’ su questo argomento– in una forma più raffinata, in realtà- che si basa ciò che tu chiami il mio “presupporre una distinzione tra mente e idee( termine che non ho mai usato )”.

    In realtà, io non presuppongo nulla e tanto meno che l’oggetto delle operazioni della mente sia indipendente da esso: ne sono appunto l’oggetto contingente, ed anche i possibili oggetti di quelle operazioni.
    Chiamiamola indidendenza!

    Casomai, visto che tu ti servi tanto delle parole “utile” ed “evoluzione”, potrei replicare che tu presupponi che utilità ed evoluzione della mente siano indipendenti dall’ontologia.
    E’ più sensata, foss’anche un’ipotesi di lavoro. Dopotutto, gli enti sono più ovvi, perché oggetti di diverse mie operazioni: mi stanno davanti, li ho tra le mani, li tratto, li do, li pronuncio.
    Alla mente arrivo solo dopo, quando, conosciuto un po’ del mondo, torno su me stesso. Perché ciò che viene prima e senza cui non potrei MAI arrivare alla mente non dovrebbe avere anche un qualche primato?

    In realtà io non ho mai parlato di indipendenza.
    Parlare di indipendenza dalla mente vuol dire perdersi nelle nebbie delle metafisiche- sensu deteriori- di “mondo interno-mondo esterno”, tanto care all’empirismo, al fisicalismo e all’idealismo.

    Però, l’oggetto del mio pensiero non è il mio atto di pensiero né la struttura del mio pensiero né la struttura biologica con cui penso.
    Allo stesso modo, le mie gambe non sono il percorso della gimcana né le regole della corsa. Ciò che compio, come lo compio e l’atto di compierlo sono distinti.

    DISTINZIONE, non INDIPENDENZA.

    ciao, Eno

  37. Mi sono perso poco dopo il commento 30…
    Non mi va di chiudere i commenti, però direi di chiudere qui la discussione, e questo per due o tre motivi:

    • in molti punti mi sembra che vi siano discordanze più di terminologia che di contenuto;
    • tutto ciò è un abuso dello strumento dei commenti, che non sono un forum;
    • state affrontando troppi argomenti diversi perché la discussione riesca a raggiungere una conclusione.

    I temi che avete toccato mi interessano, quindi prima o poi ci scriverò qualcosa di specifico e circostanziato, e lì, forse, si riuscirà ad avere un confronto (per me) meno confuso.

  38. Giusto e chiedo scusa.

    Scarlett: “Tara! Home. I’ll go home. And I’ll think of some way to get him back. After all… tomorrow is another day.”
    THE END

    ( Segue musica lacrimosa, titoli di coda, ma soprattutto: THE END. )

  39. Eno se vuoi continuare il discorso (che a me interessa) in maniera più articolata e in altra sede, io sono disponibile.

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