Dolcezze

Il termine eutanasia, dal greco buona morte, è stato usato la prima volta in epoca moderna dal filosofo Francesco Bacone nel testo, apparso nel 1605, dal notevole titolo di The second book of Francis Bacon of the Proficience and Advancement of Learning divine et human. Bacone intendeva la parola ancora nel senso antico, ossia in riferimento alla morte, non alle pratiche attive e passive che la provocano: nel consigliare la buona morte, il filosofo inglese invitava i medici a non abbandonare a se stessi i malati non curabili, non a somministrare loro del veleno. È solo successivamente che il termine ha assunto la connotazione attuale di “dolce uccisione” piuttosto che “dolce morte”.
La questione dell’eutanasia così intesa è moralmente e giuridicamente complessa e è soltanto in parte riconducibile al tema del suicidio in quanto viene messo in discussione anche il rapporto tra il medico e il paziente.

Il problema di fondo è comunque il medesimo: la domanda “a chi appartiene la mia vita?”.
C’è chi equipara questa domanda ad altre esteriormente simili, ad esempio “a chi appartiene quella casa?” oppure “a chi appartiene questo libro?”. Purtroppo questa operazione, ammesso che un simile esame possa essere d’aiuto, non è lecita: non si sta parlando di un oggetto o di un bene, ma della condizione di esistenza di beni ed oggetti.
Con l’espressione “condizione di esistenza” non si intende assolutamente sostenere che, se non ci fosse una coscienza, non esisterebbero case o libri, ma semplicemente che questi oggetti possono avere un proprietario, ossia esistere socialmente, solamente se esistono delle persone, degli individui autonomi e indipendenti.
È quindi chiaro che la vita non può essere posseduta da nessuno, almeno non nel senso con cui si può possedere un libro.

Descrivere la vita come possibilità di esistenza (sociale) del mondo non significa tuttavia sancirne la sacralità o l’inviolabilità: anche questi atteggiamenti tendono infatti a considerare la vita come un bene equiparabile agli altri, solo più nobile, oppure consegnatoci in affido da non si sa bene chi. Semplicemente si è tracciato un confine di senso.
Non un limite invalicabile, bensì un semplice confine, varcato il quale alcuni discorsi diventano carta straccia, privi di significato.
Le questioni del suicidio e dell’eutanasia rimangono dunque aperte: faccende tremendamente complesse.

3 commenti su “Dolcezze

  1. Certo, non è il caso di parlare di sacralità o di inviolabilità, almeno non in questo contesto. Per quanto mi riguarda, infatti, preferisco ricorrere la più neutro concetto di indisponibilità, contestualizzando così la questione in ambito giuridico e rendendola funzionale alla definizione della coerenza logico-linguistica della società intesa come sistema.

    Bernardo

  2. Parlare di indisponibilità è comunque riferirsi ad un bene per definirne, appunto, la indisponibilità. Oltretutto, se ho letto bene il tuo articolo di qualche giorno fa, tu parli di indisponibilità per l’individuo, non per la società, che infatti legifera sulla vita (eutanasia, aborto, accanimento terapeutico).
    Il confine tra questioni di fatto e di principio (tra ambito giuridico e filosofico-concettuale) è labile.

  3. Certo, “bene” in senso giuridico, non implicando ciò alcuna valutazione ulteriore.
    Quanto alla società, essa legifera soltanto circa l’indisponibilità stessa, sottrae cioè per diritto a se stessa (e conseguentemente ai singoli individui) la disponibilità del bene.
    L’eutanasia, infatti, è un elemento eccentrico e fortemente contraddittorio; l’aborto è stato ammesso solo in virtù dell’oggettiva dipendenza del feto dalla madre e per via del valore determinante riconosciuto al concetto convenzionale di “persona” nell’attribuzione dei diritti; l’accanimento terapeutico non ha a che fare con la disponibilità del bene-vita ma solo con l’opportunità di una cura priva di speranze di successo.

    Bernardo

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