Dei delitti e delle pene

Aggiornamento del 24 ottobre 2022. Questo articolo incentrato su Cesare Beccaria gode di una certa popolarità immagino grazie alle ricerche su Google. Per i lettori interessati segnalo un’intervista, disponibile su Academia.org, che ho fatto al giurista Roy Garré in occasione dei 250 anni di Dei delitti e delle pene. Fine dell’aggiornamento.

Grazie all’amico Cantor apprendo che i servizi segreti americani, quando interrogano i probabili terroristi, utilizzano un particolare tipo di tortura chiamato waterboard.

Il Waterboard, o Waterboarding, è in realtà la versione moderna di una tecnica molto antica, talvolta indicata con l’espressione cura dell’acqua, già usata dall’inquisizione per estorcere confessioni.
L’idea di base è indurre una sensazione di annegamento senza tuttavia annegare effettivamente il torturato. Per fare ciò, gli inquisitori versavano acqua o altri liquidi direttamente nella gola dello sfortunato, tramite un imbuto. Gli agenti della CIA, invece, fanno ricorso ad un sistema leggermente più elaborato:il prigioniero viene legato, con la testa in basso, ad un piano reclinato, sul suo volto viene posto un asciugamano bagnato o un telo di plastica e vi si versa sopra dell’acqua.

I risultati sono decisamente soddisfacenti: in meno di un minuto quasi tutti decidono di confessare.

Della tortura

Cesare Beccaria

L’illuminista Cesare Beccaria non ha bisogno di particolare presentazioni, così come non ne ha bisogno la sua opera principale, Dei delitti e delle pene, scritta nel 1763 e data alle stampe l’anno seguente.

Il capitolo 16 della sua critica razionale alle leggi allora vigenti in Europa (definite, senza mezzi termini, uno scolo de’ secoli i piú barbari) è dedicato alla tortura.

Una crudeltà consacrata dall’uso nella maggior parte delle nazioni è la tortura del reo mentre si forma il processo.

Il giudizio di Beccaria su questa crudeltà è netto e limpido:

Un uomo non può chiamarsi reo prima della sentenza del giudice, né la società può toglierli la pubblica protezione, se non quando sia deciso ch’egli abbia violati i patti coi quali le fu accordata. Quale è dunque quel diritto, se non quello della forza, che dia la podestà ad un giudice di dare una pena ad un cittadino, mentre si dubita se sia reo o innocente? Non è nuovo questo dilemma: o il delitto è certo o incerto; se certo, non gli conviene altra pena che la stabilita dalle leggi, ed inutili sono i tormenti, perché inutile è la confessione del reo; se è incerto, e’ non devesi tormentare un innocente, perché tale è secondo le leggi un uomo i di cui delitti non sono provati.

Il ricorso alla tortura per estorcere una confessione è una inutile crudeltà oppure un pericoloso ed intollerabile abuso: il criterio della verità non può risiedere «nei muscoli e nelle fibre di un miserabile», perché così facendo si assolvono i colpevoli robusti e si condannano gli innocenti deboli.

Più in generale, la tortura rischia di vanificare il senso delle pene, in quanto indebolisce la funzione preventiva delle punizioni e mette innocenti e colpevoli sullo stesso piano:

Una strana conseguenza che necessariamente deriva dall’uso della tortura è che l’innocente è posto in peggiore condizione che il reo; perché, se ambidue sieno applicati al tormento, il primo ha tutte le combinazioni contrarie, perché o confessa il delitto, ed è condannato, o è dichiarato innocente, ed ha sofferto una pena indebita; ma il reo ha un caso favorevole per sé, cioè quando, resistendo alla tortura con fermezza, deve essere assoluto come innocente; ha cambiato una pena maggiore in una minore. Dunque l’innocente non può che perdere e il colpevole può guadagnare.

Per quanto riguarda la tortura come espiazione dei crimini, Beccaria è, nella sua condanna, molto drastico:

Un altro ridicolo motivo della tortura è la purgazione dell’infamia, cioè un uomo giudicato infame dalle leggi deve confermare la sua deposizione collo slogamento delle sue ossa. Quest’abuso non dovrebbe esser tollerato nel decimottavo secolo.

Può essere utile ricordare che oramai siamo nel ventunesimo secolo.

Il fine giustifica i mezzi

Si può supporre che i terroristi interrogati dalla CIA siano già stati giudicati colpevoli da un regolare tribunale; ne dubito fortemente, ma ammettiamolo. Supponiamo anche che gli agenti siano dei lucidi e freddi professionisti, completamente privi di sadismo e senza alcuna intenzione punitiva o vendicativa.
Supponiamo anche che questi terroristi non siano più delle persone, non siano cioè più soggetti di diritti e doveri, a causa dei crimini commessi. Quest’ultimo punto è ammissibile unicamente sostenendo la tesi, per nulla convincente, che, mentre un rapinatore o un assassino commettano i loro crimini contro gli altri all’interno della società, i terroristi agiscano invece contro la società stessa, e pertanto perdano la condizione di cittadini.
I terroristi vengono quindi torturati esclusivamente per acquisire informazioni sugli attentati programmati dai loro complici, non per estorcere una confessione di colpevolezza. Se queste persone, o meglio questi individui, confessano, si salveranno verosimilmente delle vite.

Il fine giustificherebbe, in questi casi, i mezzi?

Niccolò Machiavelli

L’affermazione “il fine giustifica i mezzi” è legata al nome di Niccolò Machiavelli; il diciassettesimo capitolo del Principe, il primo trattato di politica in senso moderno del termine, riguarda una questione molto interessante: Della crudeltà e pietà e s’elli è meglio esser amato che temuto, o più tosto temuto che amato.
Torturare le persone o, per riprendere la distinzione ipoteticamente introdotta poco sopra, gli individui, non è sicuramente un atto di pietà e difficilmente si proverà amore verso un torturatore, per quanto si possa giustificarne il comportamento.

Vediamo dunque come Machiavelli risponde a questa domanda:

Nasce da questo una disputa: s’elli è meglio essere amato che temuto, o e converso. Rispondesi che si vorrebbe essere l’uno e l’altro; ma perché elli è difficile accozzarli insieme, è molto più sicuro essere temuto che amato, quando si abbia a mancare dell’uno de’ dua.

Per il sovrano è dunque meglio essere sia pietoso che crudele ma, tra le due, è meglio la crudeltà della pietà, è più sicura.
Tuttavia, è bene sottolineare come per Machiavelli il timore non si identifichi con l’odio, anzi: il bravo sovrano deve ben guardarsi dal farsi odiare:

Debbe non di manco el principe farsi temere in modo, che, se non acquista lo amore, che fugga l’odio; perché può molto bene stare insieme esser temuto e non odiato; il che farà sempre, quando si astenga dalla roba de’ sua cittadini e de’ sua sudditi, e dalle donne loro: e quando pure li bisognasse procedere contro al sangue di alcuno, farlo quando vi sia iustificazione conveniente e causa manifesta […].

Persino la fredda ragion politica, dunque, offre dei buoni motivi per non praticare la tortura: come nota Machiavelli in chiusura del capitolo, «[Il principe savio] debbe solamente ingegnarsi di fuggire lo odio».

Purtroppo la democrazia presenta qui uno spiacevole effetto collaterale, come efficacemente rappresentato da Doonesbury di Gary B. Trudeau:

Gary B. Trudeau, Doonesbury 29/7/2006

Bush: Come farò a uscire dal gioco?

Consigliere: Facile, signore… Lei aspetta che si plachi il casino attuale e tiene duro in Iraq ancora per i prossimi due anni e mezzo. Dopo il suo successore dovrà decidere se andarsene. Se se ne va e regna il caso, non sarà colpa sua, se resta e la democrazia prende vigore, lei si prende tutti i meriti.

Bush: Dio, come sono intelligente!

Consigliere: Sì, signore. La storia dirà proprio questo.

(Traduzione da Linus, settembre 2006)

6 commenti su “Dei delitti e delle pene

  1. Pingback: Cantor
  2. un paio di cose sugli argomenti di beccaria: la prima la dici tu stesso, e cioe’ che molte delle cose che dice valgono ‘solo’ nei casi in cui la tortura venga usata come strumento di confessione, ma non nei casi in cui essa venga usata come strumento di intelligence. e quindi poi, in effetti, come fai tu nella seconda parte, per questi secondi casi bisogna trovare degli argomenti alternativi.
    la seconda e’ sull’uso della forza nei confronti di una persona da giudicare: se uno riconosce il sacrosanto principio dell’innocenza fino a processo contrario, e se, come fa beccaria, se ne deriva che non si puo’ colpire nessuno prima del processo, allora mi sembra che l’uso della forza da parte dei rappresentanti dello stato abbia bisogno, anch’esso, di una giustificazione alternativa.

    (a proposito, bella sta cosa che ti rifai, cosi spesso, a pensatori italiani…)

  3. Se c’è un concreto pericolo, lo stato può limitare la libertà anche prima del verdetto finale: la custodia cautelare esiste appunto per questo, per evitare che inquinamento delle prove o reiterazione del reato. Stesso discorso, con i dovuti distinguo, per la violenza: non si arresta un (presunto) rapinatore con un predicozzo.
    Ovviamente vanno condannati gli eccessi; per questo è necessario che il potere giudiziario sia distinto da quello esecutivo. Purtroppo la separazione dei poteri l’ha teorizzata il francese Montesquieu (anticipato dall’inglese Locke, se non erro): niente italiani 😉

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