Dalla cosa alla parola e ritorno

Il Manifesto del 4 gennaio 2005 pubblica un interessante articolo di Francesco Ferretti sull’apprendimento del linguaggio da parte del bambino: “Quel che serve per passare dalla cosa alla parola“.

Il tema principale è l’inadeguatezza del modello classico, che prevede la associazione dello stimolo sonoro (la parola pronunciata dall’adulto) allo stimolo visivo (l’oggetto mostrato sempre dall’adulto).
Questo rozzo meccanismo, argomenta l’autore, è sconfessato da numerosi studi che mettono in luce, ad esempio, come l’attenzione del bambino non sia rivolta all’oggetto mostrato, bensì all’adulto che mostra l’oggetto e pronuncia la parola corrispondente, oppure l’esistenza di due diversi sistemi cognitivi, uno predisposto alla visione degli oggetti fisici (le cose) e uno degli oggetti intenzionali (le persone). Il modello classico, in conclusione, va superato in favore di un approccio più completo ed elaborato.
Le scoperte delle scienze cognitive sono interessanti e costituiscono una ottima lettura per i filosofi del linguaggio. Tuttavia è proprio necessario scomodare il dualismo cognitivo con il conseguente Bambino di Cartesio (è il titolo di un libro di Paul Bloom) per mostrare l’inadeguatezza del modello associazionista?
Per tale scopo sono forse più che sufficienti due semplici osservazioni.

La prima è che il linguaggio non serve solo per nominare oggetti. Anzi, raramente vengono semplicemente nominati oggetti. Il linguaggio serve a manifestare e a comunicare qualcosa di più e di diverso. È quindi ovvio che l’adulto come il bambino non possa associare i nomi alle cose: non gli interessa battezzare gli oggetti (palla, torta, eccetera), bensì vivere (avere la palla per giocare, la torta per mangiare e così via).

La seconda considerazione riguarda invece l’infanzia contrapposta all’età adulta: si ha la sensazione di una confusione tra l’apprendimento di una seconda lingua da parte dell’adulto e l’apprendimento della lingua materna, e quindi del linguaggio, da parte del bambino.
Gigantesco errore, perché se nel primo caso ha un senso (seppure limitato, come accennato prima) parlare di associazione e corrispondenza tra cose e parole, nel secondo caso riferirsi ad una simile relazione è un completo non senso. Perché per il bambino non vi sono parole e neppure cose, e probabilmente neppure meccanismi cognitivi come li può intendere un adulto.

Queste osservazioni non sono formulate da un filosofo isolazionista (categoria polemicamente introdotta in conclusione dell’articolo), ma da una persona ragionevole che, prima di dedicarsi alla ricerca scientifica, gradirebbe un po’ di chiarezza concettuale.

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