Cronaca teologica

Helen Joy Davidman era una scrittrice ebrea, comunista e atea, almeno lo era fino alla fine degli anni ’40, quando avvenne la conversione al cristianesimo. Si sposò due volte: la prima con lo scrittore William Lindsay Gresham, la seconda con Clive Staples (C. S.) Lewis. Morì di cancro nel 1960, all’età di 45 anni.

Tutte le morti lasciano un vuoto, un vuoto che si riempie di dolore e che è impossibile da descrivere. Il secondo marito, C. S. Lewis, tenta questa impresa impossibile: prende un quaderno trovato per casa e inizia a scrivere, ad annotare, a tenere un diario del proprio dolore. Il risultato, pubblicato con lo pseudonimo di N.W. Clerk, è A Grief Observed, in italiano Diario di un dolore.

Quali sono i temi di questo diario? All’inizio del quarto e ultimo quaderno si legge:

Queste note parlano di me, di H. e di Dio. In quest’ordine. L’ordine e le proporzioni sono l’esatto contrario di quelli che avrebbero dovuto essere.

Il dolore capovolge le priorità, annebbia la percezione del mondo, costringendo ad un cieco egocentrismo. Ma gli appunti sono preziosa possibilità di uscita, quando si cessa di essere scrittori e si diventa lettori:

Ho riletto queste note per la prima volta e ne sono sbigottito. Da come parlo, chiunque penserebbe che la morte di H. conti soprattutto per l’effetto che ha avuto su di me. Il suo punto di vista sembra del tutto scomparso.

Tornare a pensare alla moglie, a come era lei realmente: questa la legittima necessità di Lewis. Il problema è quell’avverbio: realmente. Nella realtà, lei è morta, non c’è più, non esiste: tutto quello che Lewis può fare è ricordarla, ma il ricordo non è una operazione semplice:

Io penso a lei quasi sempre. Penso alle cose che erano lei: le sue parole, gli sguardi, le risate, le azioni. Ma chi le sceglie e le mette insieme è la mia mente. Non è passato neanche un mese dalla sua morte, e già sento il lento e insidioso inizio di un processo che farà della H.a cui penso una donna sempre più immaginaria. Basata sui fatti, certo: non vi metterò (così spero, almeno) nulla di inventato. Ma la composizione non diventerà inevitabilmente sempre più cosa mia?

Lewis teme la inevitabile costruzione di una immagine, un simulacro che sarà sempre più Lewis e sempre meno la moglie, perché lei non c’è più, non è più in grado di frenare o arrestare la sua fantasia comportandosi, come spesso avviene, in maniera inaspettata:

Il sapore aspro, mordente, purificatore, della sua alterità è scomparso.

La vera H., in quanto altra, distrugge le immagini. E le immagini, adesso, distruggono la vera H.
Ma questa non è l’unica distruzione che Lewis, sconfortato, osserva: la fede in Dio, dopo la morte della moglie, si rivela infatti meno solida di quanto sembrava.

Sono sempre riuscito a pregare per gli altri morti, e lo faccio ancora, con una certa fiducia. Ma quando cerco di pregare per H. mi arresto. Sono sbigottito, sopraffatto dallo smarrimento. Ho un’orribile sensazione di irrealtà, mi sembra di parlare nel vuoto di qualcosa che non esiste.

Perché Lewis riesce a pregare per gli altri morti ma non per la moglie defunta? Perché riesce a credere nella vita eterna di un conoscente ma non in quella della moglie? Evidentemente nel primo caso la questione è poco importante, mentre nel secondo è essenziale, ed è facile scommettere quando la posta in gioco è bassa, difficile quando è alta.

A quanto pare, la fede (ciò che io credevo fosse fede) che mi permette di pregare per gli altri morti mi è sembrata forte solo perché non mi è mai importato gran che, non mi è mai importato disperatamente, che quei morti esistessero o no. Eppure ero convinto del contrario.

Un’altra immagine che si scioglie, un’altra certezza che svanisce: la fede. Lewis inizia a corteggiare l’idea di un Dio maligno, sadico e torturatore: quale garanzia si ha che egli sia buono, o che il suo concetto di buono coincida con il nostro? Ad ogni modo, quello che Lewis percepisce è un Dio assente: una porta sbarrata, il silenzio.
La domanda che tormenta Lewis è: Perché il dolore e la morte? O Dio odia, ma l’odio è un sentimento troppo umano, oppure ama, e per amore tortura l’uomo, esattamente come un dottore scrupoloso, per amore del paziente, è costretto ad amputare un arto. In ogni caso, per l’uomo vi è il dolore. E nessuna garanzia di felicità. La religione non è in grado di consolare.
Ancora una volta questi pensieri, scritti nei primi due quaderni, vengono riletti e, in un certo senso, superati. Lewis comprende che il terribile gioco della H. immaginaria che sostituisce quella reale è lo stesso identico gioco della fede fasulla rispetto alla vera fede. È il pericolo delle immagini:

Le immagini, devo supporre, hanno una loro utilità, o non sarebbero così diffuse. (…) Ma per me è più evidente il loro pericolo. Le immagini del Sacro diventano facilmente immagini sacre, sacrosante. La mia idea di Dio non è un’idea divina. Deve essere continuamente mandata in frantumi. Ed è Lui stesso a farlo. Lui è il grande iconoclasta.

Le immagini sono pericolose perché non sono vere, non sono la realtà, che sempre supera qualsiasi immagine. Le parole e le azioni vanno rivolte all’uomo vero, non al suo ritratto. Ed è quindi giusto che questo ritratto venga distrutto, in modo che si torni a guardare la persona.

Dio ha mandato in frantumi il castello di carte che Lewis credeva un tempio, l’illusione che Lewis credeva fede.
La conclusione del terribile cammino di Lewis è il rifiuto di ogni idea in favore della realtà:

Non la mia idea di Dio, ma Dio. Non la mia idea di H., ma H.

Il filosofo gioca con le idee: le costruisce, le smonta, le modifica, le diffonde, le scredita, le difende o le attacca, ma non le distrugge. Almeno, non con la radicalità che ha sperimentato Lewis.
È questa forse la vera, radicale differenza tra filosofia e religione: la prima vive di immagini, la seconda le distrugge.
Diario di un dolore vale, da solo, più di mille trattati di teologia.

2 commenti su “Cronaca teologica

  1. “La conclusione del terribile cammino di Lewis è il rifiuto di ogni idea in favore della realtà”

    Non si direbbe, dato che continuò a credere in qualcosa che di reale aveva ben poco. Poteva vedere dio, discutere con dio, apprezzare l’alterità di dio come faceva con sua moglie quando era in vita?
    No.

    Allora, questo sua rifiuto delle idee per la realtà è rimasto incompiuto, Lewis ha preferito rimanere a monologare fingendo un dialogo, proiettare l’immagine di un “ordine sovrannaturale delle cose” di un “senso ultimo” (positivo o negativo) degli avvenimenti, che era una esigenza SUA,sulla realtà ,dandole il nome di “Dio”.

  2. Su quanto Lewis si sia attenuto alla sua (tragica) scoperta, non lo so, e in ogni caso non è il tema della tua obiezione.

    Non poteva vedere e discutere con Dio come faceva con la moglie, ma una relazione con Dio c’è: Lewis dialoga con Dio, interpretando la propria esperienza in una maniera che noi, da non credenti, non possiamo capire.
    Lewis legge così la propria esperienza e si sforza di non formarsi idee di questa esperienza: in questa ottica, come ha detto Vincenzo Vitiello, “affermare Dio c’è è una bestemmia ancora peggiore di affermare Dio non c’è”.
    Io ho rispetto di questa sua esperienza: se lui vede così il mondo, e capisce che io, invece, lo vedo diversamente, non capisco perché dovrei rompergli le scatole.

    Non ho ancora letto The God Delusion di Dawkins. Ma in libreria ho sfogliato l’introduzione (credo alla seconda edizione), nella quale ribatte all’obiezione che la vera fede è quella, ad esempio, di Bonhoeffer, non dei deliranti predicatori della Bible Belt. Cito a memoria (correggetemi se sbaglio): “se tutti i credenti fossero così, il mondo sarebbe un posto migliore e io avrei scritto un altro libro. Così non è”.

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