Coronavirus, secondo me un po’ razzisti lo siamo

“Non è razzismo, al massimo ignoranza”: questo, mi pare, l’esito dell’autoanalisi collettiva riguardo alcuni atteggiamenti discriminatori nei confronti di persone orientali.

Perché c’è di mezzo una malattia infettiva, il cui (unico?) focolaio è (al momento?) in Cina, per cui sarebbe normale prudenza evitare ristoranti con specialità asiatiche, stare alla larga da persone con gli occhi a mandorla, insultare un orientale che tossisce, diffondere inviti a non fare acquisti in alcuni negozi che vendono prodotti cinesi (quelli gestiti da cinesi), recandosi invece in altri negozi che vendono prodotti cinesi (quelli gestiti da italiani).

Non è razzismo, si dice, perché alla base non c’è la “presunta superiorità di una razza sulle altre” (riporto dalla definizione di “razzismo” del Devoto-Oli), ma solo la constatazione dell’origine geografica di una malattia – magari condita con qualche commento un po’ sprezzante su abitudini igieniche e alimentari di chi vive in quella regione geografica, ma tant’è.
Normale prudenza, accompagnata appunto da un po’ di ignoranza perché non è che gli immigrati cinesi siano pendolari che rientrano la sera in Cina e molti dei “cinesi” che si incontrano per strada sono giapponesi, coreani, statunitensi o italiani.

Ora, a me tutto questo un po’ razzista sembra.
Mancherà – ma ne siamo proprio così sicuri? – quella “presunta superiorità di una razza sulle altre”, e se vogliamo proprio farne il criterio ultimo per poter impiegare quell’ingombrante termine, possiamo parlare di protorazzismo. Perché c’è quell’atteggiamento a giudicare, e condannare, il singolo non in base a quello che è, ma in base alla comunità alla quale appartiene (o riteniamo appartenga). Il virus è in Cina, quindi anche ragazzo nato a in Europa da genitori coreani c’entra qualcosa.

Ho frequentato alcuni corsi sulla sicurezza e una delle poche cose che mi è rimasta in mente è che la prevenzione non parte necessariamente dagli incidenti, ma dai “quasi incidenti”, da quelle situazioni in cui – per poco, magari addirittura per caso – non è successo niente. Ecco, per il razzismo non partiamo dai linciaggi, ma dai ristoranti vuoti.

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