Che mangino petrolio

Leggo che “il prezzo del petrolio è diventato negativo per la prima volta nella storia”, il che significa “che i produttori di petrolio stanno pagando gli acquirenti per disfarsi delle loro scorte”.
Non ho le competenze per dire cose sensate sulle cause e soprattutto sulle conseguenze di questo crollo e lascio volentieri il compito ad altri.

Il prezzo incredibilmente basso – addirittura negativo – del petrolio mi ha ricordato i batteri di Ananda Chakrabarty. Il nome non dirà molto, ma si tratta del microbiologo indiano naturalizzato statunitense al quale si deve il primo brevetto di un organismo geneticamente modificato, un batterio in grado di “digerire” il petrolio. Ufficialmente, lo scopo era la gestione delle fuoriuscite di idrocarburi, dove con “ufficialmente” intendo che quello è lo scopo che troviamo nella richiesta di brevetto.

Il seguito della vicenda è abbastanza noto, almeno per chi ha approfondito un po’ la questione degli organismi geneticamente modificati: l’Ufficio brevetti statunitense respinse la richiesta argomentando che un organismo vivente non è brevettabile – Chakrabarty si sarebbe dovuto accontentare di brevettare il sistema utilizzato per ottenere quei batteri geneticamente modificati, ma non il batterio di per sé –, e dopo un po’ di ricorsi il caso arrivò davanti alla Corte suprema che a maggioranza decise in favore di Chakrabarty: la vita è brevettabile (o meglio il fatto che i batteri siano esseri viventi non impedisce che possano anche essere il frutto dell’inventiva umana).
Da qui il grande sviluppo delle biotecnologie che ha portato il paradiso in terra – o se preferite la svalutazione della sacralità della vita a vantaggio di malvagie multinazionali , vedete voi quale storia su brevetti e organismi geneticamente modificati volete raccontarvi (la mia è grosso modo quella di Dario Bressanini e Beatrice Mautino, ma vi avviso: è più sfumata delle due qui tratteggiate).

Meno conosciuto è quello che era accaduto prima – e qui mi avvalgo principalmente della bella ricostruzione fatta da Daniel Kevles in “Ananda Chakrabarty wins a patent: biotechnology, law, and society” (Historical Studies in the Physical and Biological Sciences, Vol. 25 No. 1, 1994, pp. 111-135).
Tanto per cominciare Chakrabarty lavorava per la General Electric: che ci fa un microbiologo nel laboratorio di Schenectady, da dove sono usciti macchine per i raggi X, motori a reazione, sistemi di pilota automatico e altre cose del genere? Dal momento che negli anni Settanta – complice probabilmente la conclusione del programma Apollo – gli investimenti nel settore aerospaziale erano in calo, perché non esplorare altri settori? Il che, tra l’altro, spiega anche perché poi ci si sia impuntati nel brevettare non solo il procedimento per ottenere i batteri, ma i batteri stessi: i legali della General Electric hanno semplicemente seguito la prassi in uso nel loro campo.
Tornando alle ricerche di Chakrabarty, la degradazione degli idrocarburi non era in realtà parte del suo progetto di ricerca, ma per quanto “interesse personale” c’era uno scopo pratico compatibile con gli interessi economici dell’azienda. Ovvero trasformare il petrolio in una fonte di proteine. All’epoca il petrolio costava poco e la cosa, da un punto di vista economico, aveva senso: meglio prendere del petrolio e usarlo per far ingrassare dei batteri piuttosto che coltivare legumi o allevare animali. Del resto, osserva Kevles, la General Electric non era l’unica azienda interessata a un’idea simile.
Poi il prezzo del petrolio è salito, i batteri di Chakrabarty sono diventati un metodo di bonifica delle fuoriuscite di petrolio – ma credo non siano mai stati utilizzati per questo scopo – e ci ritroviamo a fare l’esatto contrario di quello inizialmente immaginato dalla General Electric, trasformiamo il cibo in petrolio – o quasi: mi riferisco ai combustibili ottenuti dalle biomasse, come il bioetanolo.

Anche se adesso il petrolio costa ancora meno che negli anni Sessanta, dubito qualcuno andrà a rispolverare questa idea.
Tuttavia, se nei prossimi mesi dovesse apparire, negli scaffali dei supermercati, del “Soylent Black“, qualche domanda sulla sua provenienza me la farei.

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