Le parole sono importanti anche a destra

Su Facebook mi è stato fatto notare, a proposito della mia riflessione sul termine ‘woke’, che per la destra le parole non sarebbero importanti e che, se non fosse per la sinistra con la sua attenzione al linguaggio inclusivo, non si interesserebbe alla cosa.

C’è del vero: banalmente se sei conservatore il tuo obiettivo è non cambiare niente e per non cambiare niente devi (anche) contrastare chi le cose le vuole cambiare. Ma se il cambiamento riguardasse qualcosa di poco conto, non ci sarebbe motivo di intervenire.

Credo che ridurre il diverso punto di vista sul linguaggio a “per le destre le parole non sono importanti” non colga il punto secondo me più importante, ovvero il tipo di potere che avrebbero le parole.

Iniziamo da una constatazione banale: a destra non mancano le persone che sanno parlare e questa abilità si basa anche sul riconoscere l’importanza delle parole. Ma ovviamente non è solo retorica e ho trovato un passaggio di Robert Scruton, filosofo britannico conservatore, che potremmo trovare praticamente identico in un manuale sul linguaggio inclusivo:

La realtà sociale è plasmabile. Come è dipende da come viene percepita; e come viene percepita dipende da come viene descritta. Per questo il linguaggio è un importante strumento della politica moderna e molti dei conflitti politici del nostro tempo sono conflitti di parole.

Robert Scruton, A Political Philosophy: Arguments for Conservatism, cap. 9 (trad. mia)

Certo, da questa premesse Scruton costruisce una critica al linguaggio usato non per il suo scopo principale, cioè descrivere la realtà, ma al contrario per affermare il proprio potere su di essa. Ma questo è possibile appunto perché le parole – e non solo le parole, perché nella sua analisi del linguaggio dell’Unione europea prende in considerazione anche la sintassi e la costruzione delle frasi – hanno questo potere. Le parole plasmano la realtà sociale e per questo occorre usarle per descrivere la realtà società tradizionale, non per modificarla.

C’è anche un bel passaggio su come le definizioni possano essere oppressive:

Chi e cosa sono io? Chi e cosa sei tu? Queste sono le domande che hanno ossessionato i romantici russi e alle quali hanno dato risposte che non hanno alcun significato di per sé, ma che hanno dettato il destino di coloro ai quali sono state applicate. Io sono un membro dell’intellighenzia, tu sei un populista; io sono un nichilista, tu sei un anarchico; io sono un progressista, tu sei un reazionario.
[…] Fin dall’inizio [del comunismo], quindi, erano necessarie etichette che stigmatizzassero il nemico interno e ne giustificassero l’espulsione.

D’accordo, Scruton è un conservatore ma anche un filosofo, uno che non solo cita ma ha anche letto Wittgenstein e Marx. Cambiamo quindi contesto e prendiamo Donald Trump Jr e il suo libro Triggered (del libro di Scruton mi sono letto con interesse i capitoli sul linguaggio, qui ho cercato i passaggi pertinenti nel pdf). Quando parla di politicamente corretto e di discorsi d’odio, troviamo una tesi di fondo simile: le parole contano anche se purtroppo “nel clima odierno hanno perso completamente il loro significato” al quale sarebbe importante tornare. Certo, Trump Jr ribadisce in più punti che “le parole non sono violenza, sono solo parole” e questo credo sia un punto importante. Le parole – per Trump Jr e probabilmente anche per Scruton – si muovo in uno spazio, quello linguistico, che rimane separato dalle azioni ma non per questo non sono importanti, dal momento che ci permettono non solo di comunicare ma anche di interpretare il mondo.

Le parole sono importanti tanto a destra quanto a sinistra, tanto per i conservatori quanto per i progressisti. La differenza è che per la destra non è possibile fare cose con le parole, perlomeno se quelle cose sono atti violenti. Per la sinistra, invece, le parole possono essere azioni.
Partendo da qui si comprende meglio la diversa valutazione del linguaggio d’odio in rapporto alla libertà di espressione: non è che a sinistra la libertà di espressione valga meno che a destra; semplicemente c’è una diversa valutazione di quello che le parole possono fare.

Due domande a Telmo Pievani su comunicazione della scienza e Jova Beach Party

Ho avuto il piacere di intervistare il filosofo della biologia Telmo Pievani in occasione di una sua conferenza che si terrà sabato 1º ottobre a Bellinzona.

L’intervista ruotava intorno al suo nuovo libro, di cui ho già scritto, e un paio di domande le ho dovute tagliare per motivi di spazio. La prima riguardava gli errori di comunicazione della scienza fatti durante la pandemia; la seconda, partendo da una sua precedente risposta sull’ecologismo che deve ampliare lo sguardo e proteggere la natura non solo con parchi e riserve naturali, chiedeva dei Jova Beach Party su cui tanto si è discusso la scorsa estate.

Gli errori della comunicazione della scienza

Faccio un po’ il bastiancontrario. Molti miei colleghi dicono che sì, ci sono stati errori perché non eravamo preparati… secondo me occorre essere più critici perché c’è un problema di fondo nel modo in cui comunichiamo la scienza. La comunichiamo sempre partendo dai risultati, dai prodotti e quindi raccontiamo i numeri, i fatti, le evidenze. Il che va benissimo: non dico che non sia giusto però non basta, non è sufficiente, bisogna spiegare il metodo scientifico, devi spiegare il modo con cui arrivi a quei risultati. 

Alcuni lo fanno, alcuni lo fanno benissimo, altri diciamo un po’ meno. Bisogna evitare una modalità di comunicazione paternalista del tipo “adesso ti spiego le cose perché tu non le sai” “ma tu stai zitto perché non sei laureato in medicina”, “ma la scienza non è democratica”. Sono tutte espressioni che rendono antipatica e poco amichevole la comunicazione della scienza. 

La scienza deve essere trasparente, devi raccontare quello che non sappiamo, gli errori, le incertezze, senza nasconderle. La mia proposta è una comunicazione della scienza più onesta e più autocritica e soprattutto raccontare il metodo, cioè come tu arrivi a un risultato, perché così condividi col pubblico la bellezza del metodo scientifico che è fatto di dubbio, di ipotesi a confronto, di nuovi dati che arrivano, di incertezza e di tanta ignoranza, perché poi noi non sappiamo tantissime cose a proposito della natura. È evidente che stiamo studiando un sistema con la natura che ancora ci sfugge. 

Solo un esempio che non ho messo nel libro perché è uscito dopo: due mesi fa è stata fatta finalmente una mappatura di tutti i coronavirus che ci sono in Asia, attraverso i dati genetici. Ed è saltato fuori che ce ne sono solo in Cina 5000. E ne conoscevamo una manciata prima della pandemia. Questo ti fa capire quanto eravamo ignoranti e quanto continuiamo a essere ignoranti, in questo caso su questi virus e sulla loro biodiversità. 

I Jova Beach Party accusati di greenwashing

Secondo me il tema più che il greenwashing è la logica delle compensazioni. 

Tra l’altro io ho partecipato ai Jova Beach Party, c’è anche un mio video. La filosofia di fondo li qual è? Io faccio un concerto con 40mila persone su una spiaggia, il che ha evidentemente un impatto ambientale, ma lo compenso perché finanzio il progetto lì vicino di un’oasi, perché trasmetto a mezzo milione di giovani italiani un messaggio ecologista e ambientalista eccetera. Quindi compenso quell’impatto con altre attività. 

Io comincio ad avere un po’ di dubbi anche su questa strategia della compensazione, secondo me non funziona più tanto bene. Lo fanno anche le aziende e gli Stati: io inquino, emetto CO2 però compro dei crediti di CO2 oppure compenso le mie attività inquinanti. Io penso che non sia più tanto adeguata perché la situazione è talmente grave oggi dal punto di vista del deterioramento ambientale e del cambiamento climatico che più che compensare bisogna davvero ridurre sostanzialmente ogni tipo di impatto che noi abbiamo sull’ambiente: invece di farlo e poi compensarlo, non farlo direttamente.  

Questa è la riflessione che io farei se fossi tra gli organizzatori. Le polemiche non fanno bene ed è chiaro che c’è stata una reazione anche eccessiva in certe parti dell’ecologismo e io non tollero la violenza verbale che è stata usata, un altro deterioramento del dibattito. Però farei una riflessione seria su quanto sia adeguata oggi questa logica della compensazione che secondo me va superata. 

Due cose sulle cose che diciamo delle elezioni

Non sono in grado di fare analisi politiche sulle elezioni italiane, tantomeno dare consigli ai vari partiti. Ma tanto di analisi e consigli così ce n’è in abbondanza.

Tra quelle che ho letto ho trovato due argomentazioni ricorrenti che mi hanno incuriosito.

La prima riguarda la legge elettorale, il “Rosatellum”. Non metto in dubbio che sia una brutta legge e che sarebbe importante cambiarla, innanzitutto perché è molto complicata, ma la legge è quella e tutti i partiti hanno avuto il tempo di adattare le proprie strategie. Le regole del gioco sono quelle, non sono state cambiate all’ultimo e certo possiamo prendere questo risultato come ennesima prova che la legge elettorale è da cambiare, ma pensare che con una legge diversa avremmo avuto un risultato migliore – ad esempio perché la coalizione guidata da Giorgia Meloni avrebbe una maggioranza parlamentare meno marcata – non ha molto senso: regole diverse comportano strategie diverse e non vedo perché chi (vedi il Partito democratico) non è riuscito ad attuare una strategia efficace in questa situazione di sarebbe dovuto riuscire in un’altra.

Poi c’è il tema del voto utile, dell’opportunità di scegliere il male minore. Su questo punto il filosofo Massimo Pigliucci ha scritto un interessante articolo a proposito delle presidenziali statunitensi partendo da una prospettiva stoica nella quale mi riconosco abbastanza.
“Ma perché in politica pretendi la perfezione quando in amore o sul lavoro sei disposto a venire a compromessi?” è un’obiezione che ho sentito spesso. Ed è un curioso argomento. Intanto perché scegliere per quale partito votare dipende esclusivamente da me, mentre per relazioni affettive e lavoro ci deve essere l’accordo di partner e datore di lavoro, ma poi quantomeno in amore gli astenuti non mancano: si chiamano single ed è perfettamente normale non avere una relazione se non si trova la persona giusta. Anzi, scegliere “il meno peggio” in amore fa ancora più strano che in politica. Sul lavoro è più comune ritrovarsi a fare qualcosa di indesiderato perché non si trova di meglio ma la consideriamo una situazione molto spiacevole che, nei casi più estremi, diventa addirittura una forma di lavoro forzato. Senza dimenticare che comunque non mancano quelli che lasciano un lavoro perché insostenibile.
Direi che in tutti e tre i contesti, politica, amore e lavoro, non si pretende la perfezione ma c’è comunque un livello minimo di qualità al di sotto del quale ci si dovrebbe seriamente chiedere se vale la pena andare avanti.

E se invece che per dei politici votassimo per un’intelligenza artificiale?

La campagna elettorale italiana prosegue tra slogan, manifesti, discorsi, comizi, programmi, interviste e altro che probabilmente – e forse fortunatamente – mi sfugge.

Nel complesso sono abbastanza scorato e non tanto, o comunque non solo, perché il partito e lo schieramento dati per vincitori – il centrodestra con Fratelli d’Italia – sono molto lontani dalla mia visione del mondo: rientra tra le regole del gioco democratico, che si possa perdere. No, il punto per me un altro: il disorientamento nel capire cosa faranno, o proveranno a fare, le persone una volta elette, in parlamento o eventualmente al governo.

In teoria per quello dovremmo avere i programmi elettorali, ma sono una versione diluita degli slogan che troviamo sui manifesti e nei discorsi: affermazioni generiche che è difficile capire come si potrebbero tradurre in proposte concrete (sulle quali comunque si dovrebbe arrivare a compromessi con altre forze politiche oltre che a fare i conti con la realtà di accordi internazionali e coperture finanziarie).
Quella che abbiamo è una visione del mondo che non necessariamente è quella dei candidati: più facile che sia quella che i candidati reputano essere la visione del mondo del loto elettorato o meglio di quella parte del loro elettorato sulla quale è importante puntare.

Certo, di novizi della politica non ce ne sono per cui, se si è seguita un po’ la cronaca degli ultimi anni, c’è un lungo elenco di precedenti sui quali basarsi ma è proprio la cronaca politica mostrare notevoli mutamenti di – chiamiamolo così – “temperamento politico”.

Avete presente quei test che, in base alle risposte a domande tipo “sei favorevole alla legalizzazione delle droghe leggere?” o “vuoi la flat tax?”, indicano quali sono i partiti più vicini? Ecco, forse collocano bene, nell’ipotetico spazio politico, chi fa il test; il problema è la posizione dei partiti che è molto indicativa.

Da qui l’idea di una modesta proposta, sulla scia di quella ben più illustre di Jonathan Swift. Come noto, la sua proposta – contenuta in un libretto satirico del 1729 – prevedeva di risolvere il problema della sovrappopolazione mettendo all’ingrasso i bambini dei poveri irlandesi per venderli ai ricchi inglesi. Io propongo invece di votare non per dei politici, ma per delle intelligenze artificiali.

Una modesta proposta per impedire che i politici siano di peso per i loro elettori o per il Paese

Primo passaggio: si investono dei soldi per la realizzazione di un sistema esperto che scriva leggi e decreti. Questa intelligenza artificiale deve non solo tenere conto di come è fatto un testo giuridico, ma anche di quali sono le conseguenze economiche e sociali. Soprattutto, deve essere in grado di valutare ogni decisione in base ad alcuni valori di riferimento (alla sua creazione dovranno quindi lavorare anche esperti di scienze sociali), cose tipo la tutela dell’ambiente, la libertà individuale, la distribuzione della ricchezza, l’autonomia delle regioni eccetera.

Secondo passaggio: istituire una commissione di esperti che vagli le decisioni dell’intelligenza artificiale. Una sorta di corte costituzionale che verifichi ad esempio il rispetto di diritti fondamentali: magari incarcerare tutte le persone dai capelli rossi – chissà perché si prende sempre questo esempio? – aumenta di dieci volte il benessere collettivo e riduce l’inquinamento, ma non è comunque il caso di farlo.

Terzo passaggio: sostituire le elezioni con un questionario sui valori di riferimento identificati al punto 1. Come quei test che ti dicono che sei all’80% del partito X e al 68% del partito Y, ma più dettagliato, eventualmente proponendo anche qualche scenario ipotetico per valutare le priorità.

Quarto e ultimo passaggio. I risultati vengono poi aggregati e forniti all’intelligenza artificiale che, in base alle priorità e alla sua conoscenza, decide quali leggi cambiare, dove servono più risorse eccetera. Se ad esempio risulta che le disuguaglianze di genere sono un tema da affrontare, l’intelligenza artificiale potrebbe ad esempio decidere di imporre procedure di assunzione “al buio”, in cui fino alla fine non si conosce il genere dell’aspirante dipendente – sempre che la misura risulti efficace e la libertà economica non sia risultata prioritaria.

Possibili obiezioni

Ce ne sono tantissime, a iniziare dalla concreta possibilità che l’intelligenza artificiale venga sviata con informazioni di parte. Se le forniamo studi farlocchi sul clima, potrebbe imporre di aumentare le emissioni di gas serra per far fronte a un’imminente era glaciale.
C’è poi il rischio che la propaganda politica semplicemente si sposti sul questionario.

Ma la situazione sarebbe davvero peggiore di quella attuale?

Aggiornamento del 25 settembre 2022

Mi ero dimenticato di aver già ragionato, nel 2008, su questi test

Da qui l’idea: eliminare le schede elettorali attualmente in uso e sostituirle con un veloce questionario di un ventina di domande, dividendo il proprio voto tra i partiti in base alla distanza ottenuta.

Ricarica la tua immunità

Ho una certa passione per le metafore; non nel senso che ne uso tante quando parlo – anche perché sarebbe impossibile non usare metafore, soprattutto se consideriamo le catacresi come “la gamba del tavolo” – ma che le ho studiate e le considero un aspetto molto importante di quello che diciamo e pensiamo.

Il contesto è infatti quello della linguistica cognitiva, ovvero l’idea che le parole non sono un modo per esprimere un pensiero indipendente dal linguaggio, ma lo strumento con cui pensiamo e categorizziamo il mondo. Non che senza la parola “azzurro” uno non si renda conto, o non percepisca, che il cielo non ha lo stesso colore del mare: diciamo che le parole che abbiamo a disposizione, e che decidiamo di utilizzare, definiscono uno spazio concettuale in cui è più facile muoversi e dal quale si può uscire ma con un certo sforzo.

Comunque, appena mi imbatto in una metafora provo a pensare a quello che sta dentro e soprattutto a quello che sta fuori. Una metafora infatti prende un’idea che ci è nota (la sorgente) e la applica a un’idea che, almeno per certi aspetti, è meno nota (l’obiettivo), portandoci ad applicare le conoscenze che abbiamo al nuovo contesto. Solo che a volte alcuni aspetti dell’idea obiettivo rimangono fuori dalla metafora e spariscono, mentre aspetti dell’idea sorgente che dovrebbero restare fuori vengono traslate portando a fraintendimenti. Un esempio classico – lo si trova analizzato in Metafora e vita quotidiana di Lakoff e Johnson – è l’amore come una guerra (si conquista il partner) o come un viaggio (la nostra relazione è a un bivio oppure in un vicolo cieco). Mi sono occupato delle metafore del DNA per cui il mio esempio preferito è un altro: se dico che il DNA è un progetto, lascio fuori la cosiddetta “plasticità fenotipica” (la capacità di un genoma di sviluppare differenti caratteristiche a seconda dell’ambiente) mentre potrei portarmi dietro l’idea di un architetto.

Ho scritto, come molti altri, delle metafore belliche nel raccontare (e quindi nel pensare) la pandemia di Covid-19. Adesso mi sono imbattuto in un’altra metafora, questa volta visiva, relativa ai richiami dei vaccini:

L’immunità è come la carica della batteria dello smartphone: con il tempo si abbassa e a un certo punto non sarà più sufficiente – per tenere acceso il telefonino o per non farci ammalare. Il richiamo ci permette di ricaricare il sistema immunitario.

L’idea mi pare buona, anche se vedo alcune criticità.
La prima riguarda la resa visiva della metafora: anche se non si ha la fobia degli aghi – che è comunque abbastanza diffusa –, quella siringa fuori scala che punta dritta al petto di una delle figure appare un po’ minacciosa e forse varrebbe la pena sostituirla con una persona in camice e segnalare con un cerotto sul braccio che la quarta figura è vaccinata da poco.

Ma anche sulla metafora vera e propria ho qualche dubbio. Come detto, le metafore mettono in relazione due domini, in questo caso la nostra esperienza con gli smartphone (sorgente) e il nostro sistema immunitario (obiettivo).
Ora, come proiettiamo sul sistema immunitario la conoscenza comune che, dopo un certo numero di ricariche, la batteria si deteriora e non mantiene più la carica? E come riconduciamo all’esperienza dello smartphone l’immunità da infezione, le varianti di SARS-CoV-2 e i vaccini aggiornati? Quest’ultimo punto è particolarmente delicato perché l’immagine proviene da un tweet della Food and Drug Administration che non rimanda all’idea di un richiamo annuale come avviene per l’influenza, ma a informazioni sullo “updated COVID-19 vaccine booster”: più che ricaricare l’immunità, si tratta di aggiornarla tanto che forse valeva la pena pensare a una nuova versione di una app.

In conclusione: una bella idea ma – come spesso capita con le metafore e con la comunicazione – tutto si gioca sui dettagli che qui convincono fino a un certo punto.

Aggiornamento

Dopo la pubblicazione iniziale ho trovato un altro tweet dell’FDA che riprende proprio la metafora dell’app aggiornata:

Questo tweet è stato molto meno condiviso dell’altro.

Dovremmo tenere conto delle altre narrazioni nella comunicazione della scienza?

Nel bene o nel male purché se ne parli“: a me questa frase, più che una strategia di comunicazione, è sempre sembrata una comoda giustificazione da usare quando qualcosa è andato storto. Ma non son un esperto di marketing e immagino che in determinati contesti – ad esempio quando quello che ti interessa è togliere spazio mediatico ai concorrenti – spararla grossa e raccogliere critiche possa avere qualche vantaggio.

Non credo che questo sia il caso per chi fa comunicazione della scienza: qui la fiducia e l’autorevolezza – quello che nel marketing dovrebbe essere la brand image – sono molto importanti ed essere conosciuti come quello che dice cavolate o difende una determinata tesi a priori potrebbe non essere una bella cosa, quantomeno se si vuole raggiungere un pubblico che la pensa differentemente. Forse può essere una strategia interessante se l’idea è “predicare ai convertiti”, parlare a chi è già convinto di un certo argomento. Il problema è che il controllo sul pubblico è molto limitato e anche quello che viene detto in una conferenza per gli addetti ai lavori può sfuggire di mano ed essere oggetto di discussione, e distorsione, pubblica.

Ora, la comunicazione si gioca molto sul concetto di frame o cornice: quando acquisiamo una nuova informazione, la inseriamo in una rete di idee e concetti che già abbiamo e ad avere la priorità è questa cornice concettuale. In altre parole: se Tizio è convinto che le auto elettriche siano il futuro della mobilità sostenibile mentre Caio pensa che siano una moda pseudoecologista, l’informazione che la tal casa automobilistica produrrà più auto elettriche viene inserita nelle due cornici e assume significati molto diversi, mentre se un’informazione non può essere inserita nella cornice concettuale, è facile che venga ignorata o ridimensionata.

Il classico consiglio che ne segue è di non limitarsi a fornire informazioni ma, se vogliamo convincere una persona che non ha ancora un’opinione netta, anche un frame concettuale nel quale inserire quelle informazioni.
Mi chiedo in quali condizioni valga la pena fare il ragionamento opposto e chiedersi in quali frame potrebbero finire le nostre informazioni. Perché anche un’informazione chiara e oggettiva può fare una brutta fine, nel frame sbagliato.

Mi spiego con due esempi. Il primo riguarda il WEF, il Forum di Davos che, in quanto importante organizzazione di lobbying, si merita molte critiche, ma non tutte visto che è al centro di diverse fantasie di complotto. Ha senso che in questo contesto si inventino, come nome per un progetto di ripresa – che peraltro nessuno ha chiesto loro di elaborare, ma questo è un altro discorso – “The Great Reset”? O che nel raccontarci un possibile futuro in cui sempre più spesso si farà ricorso a forme di noleggio e affitto o a servizi offerti gratuitamente, si intitoli che “nel 2030 non possederai nulla e sarai felice” dando il via a fantasie sull’abolizione della proprietà privata?
Vista la scarsa stima che ho verso istituzioni come il WEF, per me la soluzione migliore sarebbe smettere di dire e scrivere qualsiasi cosa, ma mi accontenterei di una maggiore attenzione alle parole utilizzate, per evitare di dare materiale così pregiati ai complottisti.

Il secondo esempio riguarda una review sugli antinfiammatori e il COVID firmata da Giuseppe Remuzzi e altri ricercatori dell’Istituto Mario Negri. Per come l’ho ricostruita: gli antinfiammatori erano, insieme ad altri farmaci inutili o pericolosi, inseriti in protocolli non ufficiali di cure domiciliari e adesso che un lavoro scientifico indica che gli antinfiammatori potrebbero essere efficaci nel ridurre le ospedalizzazioni è tutto un “avevano ragione loro” e “il COVID si può curare ma non lo dicono perché si vuole spingere il vaccino”. La storia è spiegata bene da Beatrice Mautino ed Emanuele Menietti nel podcast Ci vuole una scienza.
Qui l’opzione silenzio non è ovviamente percorribile: non ha molto senso pensare di non pubblicare una ricerca perché potrebbe essere manipolata o fraintesa e su un articolo parla di antinfiammatori, è difficile pensare di non citarli nel titolo… Tuttavia qualche cautela in più a livello di comunicazione dei risultati forse la si poteva auspicare se non dai ricercatori stessi, quantomeno dai giornalisti.

Certo, pretendere di considerare tutte le possibili cornici concettuali è praticamente impossibile, ma se uno conosce un tema conosce anche le principali narrazioni di scettici e contrari. Ed è vero che, come si dice in questi casi, uno è responsabile di quello che dice, non di quello che gli altri capiscono, ma qui non si vuol dare la colpa a nessuno – a parte forse il WEF, ma di nuovo è un altro discorso –, ma solo cercare le pratiche comunicative migliori.

Con un’autorevolezza ben diversa dalla mia, quasi un anno fa Nature ha pubblicato un commento di Cecília Tomori dal titolo inequivocabile: “Scientists: don’t feed the doubt machine”. Secondo l’autrice è necessaria una maggiore comprensione delle strategie utilizzate per creare dubbi e diffondere ignoranza, non solo conoscendo quali istituzioni sono in realtà agenzie di lobbying, ma anche guardando al contesto politico e commerciale della ricerca ed evitando di fare da inconsapevoli megafoni di informazioni fuorvianti.

I limiti della censura cinematografica

Mi sono recentemente imbattuto in tre storie curiose di film che si sono dovuti adeguare a regole e consuetudini (per ora restiamo a questa formulazione generica)

Il primo caso riguarda il film Minions 2 – Come Gru diventa cattivissimo che in Cina ha un finale diverso: come riporta il New York Times, i produttori (oppure sono state direttamente le autorità cinesi, non è chiaro) hanno aggiunto un epilogo in cui si precisa che alla fine Gru diventa buono e mette su famiglia mentre un altro personaggio viene arrestato e condannato a vent’anni. Il primo punto è semplicemente un promemoria di quello che viene raccontato nei tre film della serie Cattivissimo Me, mentre la faccenda della “giusta punizione” del cattivo è originale.

Il secondo caso riguarda il film Fall che – lo spiega tra gli altri Wired – ha utilizzato la tecnologia Deepfake per togliere le troppe parolacce pronunciate dai protagonisti, volgarità che avrebbero imposto limitazioni troppo severe: così come inizialmente realizzato il film sarebbe stato classificato “R” (vietato ai minori di 17 anni non accompagnati), con la censura digitale ha ottenuto PG-13 (presenza di un adulto per gli spettatori con meno di 13 anni), guadagnano pubblico potenziale.

Il terzo caso riguarda invece un classico del cinema: Alien di Ridley Scott. Sigourney Weaver si sarebbe rifiutata di rasarsi il pube e, di nuovo per evitare restrizioni che penalizzassero gli incassi, si è provveduto a rimuovere i peli in postproduzione, fotogramma per fotogramma (era il 1979).

Non mi piace la censura: ritengo che una persona adulta debba essere libera di leggere/guardare/ascoltare/dire/condividere qualsiasi cosa. Certo ci sono dei “casi difficili” che possono arrivare a delle eccezioni: informazioni riservate (dalle password a documenti con dati sensibili o segreti militari e industriali), situazioni in cui le parole non sono semplici descrizioni ma portano ad azioni (il caso classico è gridare “al fuoco!” in un teatro affollato) o causano sofferenza (è il caso di insulti e discriminazioni); c’è poi il discorso dei “non adulti” e delle conseguenze collettive di azioni singole (cosa succede se tutti i librai decidono di non vendere un determinato libro?). Del resto i principi andrebbero sempre applicati con un po’ di ragionevolezza e buon senso.

Come giudicare quindi questi casi? Per quanto riguarda Alien e Fall, dal momento che si parla di limitazioni per i minori direi che il problema principale è la stupidità di una censura che diventa procedura burocratica e, invece di fare una valutazione complessiva dell’opera, si trasforma in lista di controllo: capezzoli sì/no, peli pubici sì/no, sangue sì/no, parolacce sì/no. Capisco che questo semplifica il lavoro dei censori, permette loro di meglio giustificare le decisioni e rende anche il giudizio prevedibile per i produttori (anche se non è avvenuto per Fall), ma un sistema simile mi pare comunque stupido perché porta a soffermarsi su dettagli e influenza il processo creativo. Negli archivi del sito ho ritrovato un piccolo esempio di quel che intendo con stupidità della censura burocratica.

Più interessante il caso di Minions 2. Potremmo pensare di avere a che fare con un caso di “adattamento internazionale”, come quando la Pixar ha sostituito, nella versione giapponese di Inside Out, i broccoli con i peperoni verdi. Il problema è che il cambiamento non è dovuto alla diversa sensibilità del pubblico che preferisce i broccoli ai peperoni o trova inaccettabile che un cattivo non venga punito: è l’imposizione di un’autorità che non vuole semplicemente assecondare una qualche sensibilità diffusa ma al contrario educare e moralizzare. Ma più che sull’ultimo punto – è usuale che le autorità facciano campagne sociali – insisterei sul primo: è una imposizione, una limitazione della libertà creativa, per quanto sotto forma di epilogo posticcio che si può benissimo ignorare, eventualmente uscito prima dalla sala. Questa operazione ha infatti il vantaggio di essere relativamente trasparente e tracciabile, il che è uno dei criteri secondo me più importanti di fronte a tutti gli interventi del genere. In questo caso è probabilmente a causa di imperizia, tanto che il New York Times ricorda i recenti casi di Fight Club di David Fincher con un finale completamente alterato e il film biografico Bohemian Rhapsody privati di ogni riferimento all’omosessualità di Freddie Mercury.

Direi che, dei tre casi presentati, quello cinese è il più preoccupante e certamente merita di essere definito “censura”, ma non sottovaluterei neanche gli altri due.

Una breve nota sul ‘credo’ e la ‘fede laica’ di Matteo Salvini

Ogni tanto il dibattito politico vola alto e uno slogan come il ‘Credo’ di Matteo Salvini – che sono ragionevolmente certo sia stato scelto perché strizza l’occhio sia al cattolicesimo sia al fascismo – porta a discussioni tra la teologia e l’epistemologia.

Breve riassunto del dibattito

Su Avvenire il teologo Giuseppe Lorizio si interroga sul senso di quella parola, “credo”, chiedendosi se regga una “mera opinione” oppure una “adesione certa e assoluta a una serie di verità o princìpi o valori”. Perché nel senso debole si può benissimo credere in alcune proposte politiche, considerandole utili o necessarie, ma nel senso forte quel credere andrebbe riservato – è un teologo che scrive, cosa vi aspettavate? – a Dio.

Pertanto, non si può in alcun modo intendere un ‘credo’ politico in senso religioso o cristiano.

Prima di passare alla replica di Salvini, una veloce analisi del materiale elettorale, giusto per capire se il ”credo” in questione sia da intendersi in senso forte o debole. Sembra esserci una sorta di documento programmatico, ma non l’ho trovato; però sul sito della Lega Nord troviamo sia i manifesti sia una breve presente presentazione:

Credo nella libertà, nel lavoro, nella meritocrazia, nel coraggio. In un Paese orgoglioso che finalmente torna a scegliere. In una Giustizia giusta, in una Sanità che non lasci indietro nessuno. Nel rispetto di regole e persone.
Credo in chi ha la forza di rialzarsi, in chi non molla mai, in chi ancora ha idee e princìpi.

Per quanto riguarda i manifesti, Salvini fa le seguenti affermazioni (vi risparmio le immagini con il suo volto sorridente):

  • Credo negli italiani (per la flat tax al 15%)
  • Credo che nessun italiano vada lasciato indietro (per togliere l’IVA su alcuni prodotti alimentari)
  • Credo nell’Italia sicura (per fermare gli sbarchi)
  • Credo in pensioni giuste e più spazio per i giovani italiani (per riformare le pensioni)
  • Credo nell’Italia pulita (per la reintroduzione dell’energia nucleare)

Al di là delle prevedibili ambiguità che presenta ogni slogan, direi che è abbastanza chiaro che quel “credo” non riguarda la proposta concreta bensì i valori (e le istituzioni) che la giustificano. Non è un “credo che sia necessario fermare gli sbarchi per avere maggiore sicurezza” bensì un “credo nell’Italia sicura e quindi dobbiamo fermare gli sbarchi”.

Questo non significa necessariamente che il suo sia un “credo” religioso: si può credere in un ideale anche in senso politico, nel senso di ritenere quell’ideale giusto. Ma è Salvini stesso, nella risposta a Lorizio, a specificare che il suo “credo” è più religioso che politico visto che parla esplicitamente di “un atto di fede laica” (parafrasando addirittura il pessimismo dell’intelligenza di Gramsci):

In una società liquida, sfiduciata, corrosa di relativismo, e infine sempre negativa, è importante tornare a ‘credere’ in qualcosa. È insieme l’ottimismo della ragione e della volontà. Credere è dunque l’opposto di dubitare.

E ancora:

Se il relativismo ha contribuito a corrodere la società occidentale, ritornare ad avere fiducia in valori e obiettivi alti è a mio avviso il presupposto per la rinascita del nostro Paese.

Dal credo alla fede

Ovviamente non condivido il presupposto salviniano che il relativismo abbia corroso la società occidentale (ammesso che esista davvero, una cosa chiamata “società occidentale”), ma quello che ho trovato interessante in questo scambio di opinioni è un altro punto.

Lorizio distingue – correttamente – tra una concezione “forte” (che preferisco chiamare religiosa) e una “debole” (che preferisco chiamare razionale o, in questo contesto, politica) di credere. Che poi è la differenza tra il dire “Credo in Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra” e il dire “credo che stia piovendo”: nel primo caso sto facendo una professione di fede, una adesione certa e assoluta sulla quale c’è poco da discutere, se non eventualmente a livello teologico; nel secondo caso sto facendo un’affermazione di cui tutto sommato non sono molto sicuro (altrimenti direi “so che sta piovendo” o semplicemente “piove”) e che apre a ulteriori discussioni e verifiche sperimentali (se vogliamo usare un termine così pomposo per il guardare fuori dalla finestra).

Salvini invece riformula questa distinzione: ignora il diverso atteggiamento epistemologico (“adesione certa e assoluta” da una parte e “ritenere vero qualcosa” dall’altra) ma punta tutto sulla differenza: il credo religioso ha per oggetto Dio, quello politico un ideale.
Passare da “credere” ad “avere fede” Salvini si sottrae al dubbio e alla discussione sia sui valori in sé, sia sulle istituzioni che li incarnano, sia sull’applicazione concreta di quei valori. Intendiamoci: non è un problema che Salvini sia convinto che nessun italiano debba essere lasciato indietro o che l’Italia debba essere sicura; il problema è che pretende di sigillare queste idee con il marchio della ”fede laica” sostenendo esplicitamente che questi sono punti su cui non ci possono essere dubbi. Quando invece cose da dire ci sarebbero: perché “nessun italiano” invece di “nessuna persona”? La sicurezza è un bene in sé o un mezzo? Quali sono le priorità tra questi principi? Come bilanciarli in caso di conflitto?

Il tutto è ovviamente funzionale all’idea di Salvini di avere un unico sistema di valori condiviso (il suo), senza neanche prendere in considerazione l’idea che alla base della società possa anche esservi la coesistenza pacifica di più sistemi di valori e che le istituzioni debbano in primo luogo mantenere questa convivenza. La fede – in senso religioso e laico – è del resto un modo molto efficiente per tenere insieme gruppi con visioni non necessariamente coincidenti. Ne scrive, relativamente ai conservatori negli Stati Uniti, la sociologa Francesca Tripodi in The Propagandists’ Playbook. Anche se non tutti i cristiani sono conservatori e non tutti i conservatori sono cristiani, la fede in Dio, nel Paese, nelle forze dell’ordine o nel libero mercato permettono di superare le divergenze:

Nonetheless, the concept of faith, whether it be in God, in country, in the police, or in a free market, creates an ideological dialect that resonates with conservative voters across the country.

Dalla fede alla fiducia (e alla speranza)

Giustamente uno potrebbe chiedere quale sarebbe l’alternativa a questa “fede laica”. Una l’ho già indicata: il credere nel senso razionale di ritenere vero qualcosa, restando aperti alla discussione – se costruttiva, ovviamente: non vedo molto senso nel parlare di uguaglianza con uno convinto della superiorità di chi ha la pelle bianca.

Ci sono poi altri due concetti che curiosamente non figurano in questo dibattito. Il primo è la fiducia: soprattutto se parliamo di istituzioni umane – come la polizia, il governo, la comunità scientifica… – avere fede, vale a dire una adesione certa e assoluta, può essere pericoloso; meglio chiedersi se, e a quali condizioni, queste istituzioni si meritano la nostra fiducia.
Il secondo concetto – al quale in realtà Salvini accenna quando parla di “ottimismo della volontà” – è la speranza: anche se non ho fiducia in certi partiti politici, posso comunque sperare che riescano a combinare qualcosa di buono.

In conclusione: è stato bello volare alto per un po’, ma alla fine il dibattito politico resta quello che è e la replica di Salvini è stata un’occasione per cercare di conquistare un certo elettorato citando, tra le altre cose, il “valore della vita, da preservare dall’inizio alla fine” e la “lotta a ogni genere di droga” in quella che Lorizio ha profeticamente definito “una filastrocca di opinioni”

Perché il ‘Green pass’? Contenere l’epidemia o punire i non vaccinati?

Certificato digitale di vaccinazionePer quel che vale la mia opinione, non vedo nulla di scandaloso nell’idea che le persone vaccinate possano fare cose proibite alle persone non vaccinate: se la situazione pandemica rende necessarie delle limitazioni – dalla mascherina nei luoghi chiusi allo restarsene chiusi in casa –, ha senso che chi è immune sia anche solo parzialmente esentato. E sì, i vaccinati non solo si ammalano meno e meno gravemente, ma contagiano anche meno, per cui c’è una riduzione del rischio non solo per sé stessi, ma anche per gli altri.

Certo, se una persona considera ingiustificate – per motivi morali o politici – alcune o tutte restrizioni fin qui imposte, ovviamente sarà contraria anche all’introduzione del Green pass, come viene chiamato il certificato che attesta l’avvenuta vaccinazione (o, a seconda della versione, l’avvenuta guarigione oppure un test negativo recente) e che in vari Paesi diventa un lasciapassare per varie attività, dai grandi eventi ai ristoranti ai musei.
Credo valga la pena ascoltare queste obiezioni, perché colgono un punto importante: il Certificato Covid ha la stessa ragion d’essere degli altri interventi non farmacologici introdotti dall’inizio della pandemia, cioè ridurre il rischio per la collettività. Altre motivazioni andrebbero discusse – insieme alle conseguenze di ordine pratico, come le difficoltà di una verifica di certificato e documento di identità per bersi un cappuccino seduti al tavolo di un bar.

Che cosa intendo? Sospetto che il Green pass da alcuni sia pensato come un premio per i vaccinati, o una punizione per i non vaccinati: ci siamo fatti lo sbattimento di prenotare e andare al centro vaccinale, abbiamo affrontato gli eventuali effetti collaterali e adesso siamo nella stessa situazione di chi invece ha scelto di non vaccinarsi? Il ragionamento è tutt’altro che campato per aria – soprattutto per le persone non a rischio il vaccino è un gesto in parte altruistico –, così come ha senso pensare a misure che incentivino gli indecisi a vaccinarsi. Ma allora introduciamo dei veri incentivi, come permessi retribuiti al lavoro o un buono per una pizza, non delle punizioni per chi non si vaccina che non hanno senso a meno che non si introduca l’obbligo. Perché una qualsiasi restrizione non giustificata dalla situazione pandemica sarebbe appunto una punizione. In altre parole: se l’alternativa è chiudere per tutti, ha senso chiudere solo ai non vaccinati, se invece si potrebbe tenere tutto aperto non c’è ragione di introdurre il Green Pass.

Un’ultima cosa: ad avere effetti indesiderati non sono solo i vaccini, ma anche le misure come l’obbligo di certificato vaccinale. Ho già argomentato che la pandemia non è una guerra contro il virus ma un viaggio che tutti stiamo facendo affrontando varie difficoltà: chi non si vaccina non è un agente al soldo del nemico ma un compagno di viaggio che per vari motivi – alcuni dei quali perfettamente legittimi – sta facendo scelte diverse, additarlo come colpevole di chissà cosa rischia soltanto di allontanare l’arrivo a destinazione per tutti.

E se la pandemia non fosse solo un’emergenza sanitaria?

Riflessione assolutamente inutile, visto il momento in cui ci troviamo. Ma tant’è: nella mia posizione, non è che possa fare molto altro; e se ormai con questa pandemia è tardi per rimediare, magari con la prossima andrà meglio. Quindi, mi chiedo: e se avessimo sbagliato fin dall’inizio a raccontare la pandemia come un problema sanitario?

Perché certo, abbiamo a che fare con un virus che – in ordine decrescente di probabilità – ti contagia, ti fa ammalare, ti uccide. Indubbiamente la nostra salute, lo “stato del nostro corpo”, è il primo pensiero. Mi ammalerò? Quanto gravemente? Guarirò completamente? Morirò?

Il primo pensiero; solo che per molti – e includo qui anche comunicazioni e decisioni delle autorità – è stato anche l’unico pensiero: la pandemia è un problema sanitario e individuale, riguarda le condizioni del nostro corpo.

Perché dico che è un errore? Innanzitutto perché da tempo con il termine “salute” non si intende solo il corretto funzionamento del corpo. L’Organizzazione mondiale della sanità definisce la salute come “uno stato dinamico di completo benessere fisico, mentale, sociale e spirituale”. Ok, è una definizione vaga, per non dire una supercazzola. Se già c’è incertezza su come interpretare grandezze misurabili come la temperatura corporea o la pressione del sangue (37,5 è febbre? 130 è ipertensione?), figuriamoci leggere la qualità delle relazioni sociali o della vita spirituale. Difficoltà che però non possono farci ignorare che la salute è anche quello e soprattuto che la pandemia incide anche su quello.

Ma non è solo questione di salute. La pandemia colpisce non solo gli individui, ma anche la società. Ora, non ho ben capito perché ma “società” è diventata una parola controversa, come se l’autonomia dell’individuo si potesse manifestare solo ignorando completamente l’esistenza di altre persone. Ad ogni modo, con “società” intendo banalmente il fatto che la nostra quotidianità è fatta anche dalla quotidianità di altre persone: se preferite, chiamatela “vita in comune”, “rapporti interpersonali” (includendovi ovviamente anche le reflazioni economiche). Dormiamo in letti costruiti da altre persone, ci facciamo la doccia grazie a uno scaldabagno costruito e installato da altre persone e che funziona grazie a delle canalizzazioni costruite da altre persone, leggiamo libri scritti, tradotti, pubblicati e venduti da altre persone, mangiamo cibo prodotto, elaborato e distribuito da altre persone, scrivo queste parole su un dispositivo elettronico progettato, costruito, distribuito e venduto da altre persone.
Ora, se molte di queste “altre persone” non possono fare quello che fanno di solito – non dico perché in condizioni critiche in un reparto di terapia intensiva: bastano febbre alta e spossatezza, o il dover badare a un familiare malato, il periodo di lutto per aver perso una persona cara –, tutto il sistema non tiene. Anche economicamente: questa idea che “senza lockdown la situazione economica sarebbe tale e quale a prima” non ho ben capito dove salta fuori.

Ora, abbiamo un problema non solo medico-sanitario ma più in generale “umano” (e forse anche più che umano, perché non sono così sicuro che le conseguenze per l’ambiente siano state solo positive). Pensare che sia solo un problema medico-sanitario è appunto un errore, perché perdiamo di vista parte del problema. Restiamo lì, incantati dal bollettino giornaliero di morti e ricoverati come se fossero l’unica cosa di cui preoccuparci, non la punta dell’iceberg; ci sembra che mascherine, chiusure e limitazioni varie abbiano l’unico scopo di salvare quelle vite lì, non proteggere anche tutto il resto, il vivere in comune, l’economia. Sbagliamo a fare l’analisi costi-benefici, mettendo i costi solo sull’economia e i benefici solo su (una limitata concezione di) salute. Ovvio che ci si chieda se vale la pena “uccidere l’economia” per “degli ottantacinquenni con un piede nelle fossa”.