Il Principe Harry, il gossip e la felicità

Dubito che leggerò Spare, l’autobiografia del Principe Harry.
Mi sono divertito a leggere alcune recensioni, come quella di Sean Coughlan sul sito della BBC, che definisce il libro “part confession, part rant and part love letter”, in pratica “the longest angry drunk text ever sent”. Ho trovato interessante la spiegazione del titolo originale e del perché quello italiano, Il minore, sia una buona soluzione. E mi ha sorpreso sapere che il ghostwriter del libro, J. R. Moehringer, è un autore affermato nonché vincitore di un Pulitzer. Ma la vita dei reali non rientra tra i miei interessi, almeno non fino al punto di prendermi il tempo per leggere le oltre quattrocento pagine di Spare.

Eppure so alcune cose, di quel libro; molte delle quali le ho apprese mio malgrado, ritrovandomele condivise sui social media o presenti nei titoli di varie testate. È un bene o un male? Cioè, sono informazioni che una persona deve conoscere (o quantomeno è bene che conosca) in quanto parte del bagaglio di conoscenze che è bene avere per capire un po’ il mondo, oppure è quella che Agostino d’Ippona chiamava vana curiositas e che oggi potremmo semplicemente definire gossip?

Alcuni dettagli appartengono certamente alla vana curiositas, tipo il primo rapporto sessuale di Harry. Altri aspetti credo siano di “interesse generale”, almeno in un senso abbastanza debole del termine. Certo la famiglia reale britannica non è più a capo di un vasto impero, ma in ogni caso non parliamo né dei litigi dei vicini di casa o di qualche celebrità tutto sommato ininfluente.

Insomma, direi che l’interesse pubblico verso le confessioni di Harry non è solo gossip. E anche per la parte più di gossip, forse c’è qualche elemento positivo. La vana curiositas potrebbe non essere del tutto vana e indurci a riflettere su che cosa è, o può essere, la felicità. E in particolare il rapporto tra ricchezza e felicità. Perché Harry è ricco ed è nato in una famiglia potente e agiata. È scontato fare dell’ironia sulle difficoltà che può aver incontrato, ma non credo che farsi beffe delle (vere o presunte) sofferenze altrui sia una bella cosa.

Intuitivamente pensiamo che più di è ricchi e più si è felici. Certo, una persona ricca e malata è forse meno felice di una con reddito inferiore ma in salute, ma in generale la relazione è quella. Ed è confermata da uno studio condotto negli Stati Uniti dallo psicologo Daniel Kahneman e dall’economista Angus Deaton, Solo che i due hanno suddiviso il concetto di felicità in due elementi distinti. Il primo è il benessere emotivo, se proviamo più spesso gioia e serenità oppure tristezza e rabbia. Il secondo è invece la valutazione della propria vita. Entrambi i fattori crescono fino a 75mila dollari annui di reddito, poi la felicità rimane grosso modo costante e aumenta solo l’autovalutazione della propria vita. Insomma, non sono più felice ma mi considero tale perché guadagno tanto.

Grazie a Marco Annoni e al suo interessante libro La felicità è un dono ho scoperto che uno studio successivo, condotto da Matthew Killingsworth, ha ridimensionato questo risultato.  Una ulteriore conferma a non dare mai per scontati i risultati delle singole ricerche, soprattutto nelle scienze sociali.
Non c’è una soglia oltre la quale la felicità cessa di crescere, anche se superati gli 80mila dollari le emozioni positive superano quelle negative. E a essere correlato con la felicità è non solo il reddito, ma anche – e soprattutto – quanto importante si considera il denaro.
In ogni caso, più soldi si hanno e meno felicità porta averne un po’ di più. E questo in maniera molto marcata. 10mila dollari in più all’anno aumentano sensibilmente la felicità di chi guadagna poco, un po’ meno in chi ha un reddito medio. E praticamente non cambiano nulla per chi è molto ricco.

Cosa significa tutto questo? Come conclusione provvisoria, direi che la felicità dipende da diversi fattori, alcuni dei quali sono sotto il nostro controllo.

Qualche dubbio sull’etica a lungo termine

Marco Annoni ha scritto un lungo articolo sul lungo-terminismo, l’idea etica che dovremmo basare le nostre decisioni morali guardando anche alle conseguenze sulla vita delle persone che esisteranno in futuro.

Alla base del lungo-terminismo ci sono tre idee:

1. La vita delle persone future è moralmente importante.

2. Noi viviamo sul “precipizio” o “cardine” della storia.

3. Esistono diversi rischi esistenziali che potrebbero compromettere, forse per sempre, il futuro della vita intelligente nell’universo.

I punti 2 e 3 sono affermazioni fattuali; su 3 non ho particolari obiezioni (a parte che non mi pare che ne sappiamo poi così tanto, sulle condizioni per l’evolversi di vita intelligente); 2 mi pare un atto di superbia: perché il “cardine della storia” sarebbe adesso e non – poniamo – la Seconda guerra mondiale, la Grande peste, l’estinzione dei Neanderthal o l’invenzione del teletrasporto tra un migliaio di anni? Ma alla fine 2 non mi pare così essenziale: che sia o no un momento cruciale nella storia dell’umanità, è quello in cui viviamo adesso e in cui possiamo prendere delle decisioni.

Il problema vero secondo me è in 1, nell’argomento morale: non che la vita delle persone future non sia importante, ma è ugualmente importante di quella delle persone esistenti?

Mi spiego riprendendo l’esperimento mentale citato da Annoni:

Immaginiamo uno scenario di questo tipo: davanti a noi si trovano due bottoni. Il primo permette di incrementare la possibilità (diciamo, dello 0,000001%) che 1058 persone che non sono ancora nate vengano al mondo in un futuro molto distante. Il secondo permette di salvare la vita a un miliardo di persone che sono già in vita, oggi. Non potete premere entrambi i bottoni: quale dei due scegliete di premere?

Se ho fatto correttamente i conti, il primo bottone permette di salvare 100’000’000’000’000’000’000’000’000’000’000’000’000’000 volte le vite del secondo. Una differenza che dovrebbe convincere anche chi non si riconosce completamente nell’utilitarismo e nel suo calcolo morale che la cosa giusta da fare sia premere il primo bottone. Non fosse che quelle 1058 vite esattamente da cosa le abbiamo salvate? Non dalla morte, visto che non sono ancora nate, ma al massimo dalla non esistenza. Se fossimo una specie di quelle che troviamo in alcuni racconti di fantascienza, che si muovono nel tempo come noi ci muoviamo nello spazio, forse il discorso sarebbe diverso, ma così non è.

Il che non significa che non dovremmo interessarci delle generazioni future: semplicemente non possiamo fare il calcolo utilitaristico considerando le due cose equivalenti, neppure con qualche fattore di correzione tipo “1 vita presente ne vale 1000 future”. È come chiedersi se 2 metri sono più grandi di un miliardo di ore: il calcolo non si può fare.

Il che non significa che il presente vince sempre. Se riformuliamo l’esperimento mentale dei due bottoni mettendo da una parte la sofferenza di molte persone esistenti e dall’altra un mondo migliore tra cento anni (che è grosso modo lo scenario della lotta alla crisi climatica), la scelta su cosa sia giusto fare rimane secondo me aperta. Il problema non è prendere in considerazione il futuro, ma pensare di poter decidere cosa è giusto fare con un semplice calcolo di vite salvate oggi o tra miliardi di anni. Sono decisioni complesse: sarebbe bello poter trovare la risposta semplicemente applicando una regola, ma è più una questione di “saggezza pratica” – che va certamente “allenata” ragionando su esperimenti mentali come questi sui due pulsanti.

Conclude Annoni:

Il lungo-terminismo è, con tutta probabilità, una delle idee più affascinanti, controverse e importanti degli ultimi decenni. È una di quelle idee che, nel bene o nel male, è destinata a segnare la riflessione e il dibattito per anni, non solo in filosofia o in ambito accademico, ma anche a livello sociale e culturale.

Concordo, anche se non sono molto ottimista sulla qualità del dibattito e sulle possibili conseguenze.