I rischi reali della pedofilia virtuale

Leggo sulla BBC di una vasta rete per la vendita di fotografie pornografiche con minori – non solo ragazze molto giovani, ma anche bambini – generate da intelligenze artificiali. In molti Paesi queste immagini sono illegali quanto quelle autentiche.

La mia prima reazione non è certo di sorpresa: era prevedibile che delle persone avrebbero prodotto è venduto simili immagini. No, la mia prima reazione è di disgusto, innescato dalla semplice idea di immagini di abusi su minori.

Però non c’è alcun abuso su persone reali: queste immagini sono e restano disgustose ma, al contrario di autentiche fotografie, per realizzarle nessuno ha sofferto.

È un argomento che l’articolo della BBC affronta di sfuggita:

The National Police Chiefs’ Council (NPCC) lead on child safeguarding, Ian Critchley, said it would be wrong to argue that because no real children were depicted in such “synthetic” images – that no-one was harmed.

Solo che come unico argomento abbiamo quello del piano inclinato, ricalcando un po’ la retorica di alcune campagne antidroga (inizi da uno spinello e poi…)

He warned that a paedophile could, “move along that scale of offending from thought, to synthetic, to actually the abuse of a live child”.

Solo che posso pensare a una situazione diametralmente opposta: una persona con pulsioni pedofile che sfrutta immagini virtuali per placarle senza danneggiare nessuno.

Molto probabilmente non è la strategia migliore per gestire queste pulsioni, ma visto che le iniziative di prevenzione sembrano basarsi quasi esclusivamente sulla punizione e quasi nulla sull’assistenza e il sostegno, direi che non ci sono molte alternative.

Un argomento secondo me più convincente riguarda la normalizzazione degli abusi e della sessualizzazione dell’infanzia: vero che per produrre quelle fotografie virtuali non ci sono stati abusi, ma permetterne la diffusione renderebbe quegli abusi socialmente più accettabili.

Questo argomento si applica anche agli stupri che troviamo nella pornografia con adulti e in generale nelle opere di finzione. Con rischi di eccessi nella sua applicazione.

La realtà è diventata un campo di battaglia allargato e spaccato in due

Sto leggendo Sulla guerra del fotoreporter Gianluca Grossi. Il libro nasce dall’idea che raccontare la guerra, come Grossi ha fatto in varie parti del mondo, non basta. Il semplice racconto della guerra rischia di accrescere il “mito della guerra”, una illusione che invece dovremmo superare affiancando al racconto una riflessione.
Non è un libro sulla guerra in Ucraina, ma l’invasione della Russia costituisce ritorna inevitabilmente più volte.

Riporto uno dei vari passaggi che mi sono segnato.

La guerra manda in cortocircuito anche chi è chiamato a fornirne una spiegazione il più spassionata possibile: analisti, studiosi, accademici, giornalisti. Difficile, quasi impossibile, metterli d’accordo, socraticamente, almeno sulla condivisione di un minimo comune denominatore, su una descrizione della materia e dell’oggetto in discussione riconosciuta in modo unanime. Eppure, proprio questo dovrebbe costituire la premessa per chi è interessato a trovare le risposte alla domanda: «Perché è esplosa questa guerra?». Provo una naturale familiarità di vedute, essendo allergico alle semplificazioni, con coloro che non si accontentano della descrizione più in voga, ampiamente condivisa in Occidente, al punto da costituire l’ufficialità: un dittatore cattivo e retrogrado ha deciso di invadere l’Ucraina democratica e pacifica, che si difende con eroismo grazie al non meno eroico e non meno democratico sostegno dell’Occidente e, non da ultimo, dell’Europa ugualmente minacciata di invasione. È una semplificazione che non conduce a grandi risultati, anzi che non conduce ad alcun risultato, se non alla riproduzione della guerra stessa, in questo caso su scala minore, nella sua versione cartacea e digitale. Il prodotto finale è però il medesimo: la realtà è diventata un campo di battaglia allargato e spaccato in due, gli amici di qua e i nemici di là. Qualsiasi tentativo di leggerla e di interpretarla deve rispettare questa dicotomia, anzi deve farne la sorgente di ispirazione degli argomenti ai quali si richiama.

Personalmente non provo quella “naturale familiarità di vedute” con chi non si accontenta “della descrizione più in voga”. Un po’ perché – ne avevo scritto in una Piccola guida ragionata al “pensiero unico” – a volte quella descrizione più in voga è banalmente più corretta delle alternative; un po’ perché chi non si accontenta della descrizione più in voga si accontenta invece della contronarrazione opposta, senza mostrare particolare senso critico.

Tuttavia concordo con Grossi: le semplificazioni non conducono a grandi risultati. E dovremmo evitare quella “riproduzione della guerra stessa, in questo caso su scala minore, nella sua versione cartacea e digitale”. Cercare non la neutralità o l’indifferenza, ma la lucidità necessaria a valutare gli eventi in maniera razionale o almeno ragionevole. Il problema è che non è facile, quando tutta la ricchezza di punti di vista e sensibilità viene schiacciata da quella dicotomia del “gli amici di qua e i nemici di là”.

Una mucca e tre esperti

Ultimamente mi interessa il concetto di “esperto“.
Intuitivamente è una persona che ne sa più degli altri, ma ovviamente non è così semplice. Sapere che la dea Kālī ha quattro braccia non fa di me un esperto di religione indiana anche se le persone che mi circondano ignorano persino questa informazione – al massimo sarò “il più esperto” ma non “un esperto” in generale.

Un bel tema è “quale tipo di conoscenza è richiesta per essere esperti”. Qualche giorno fa ho fatto un piccolo esperimento con un sondaggio su Mastodon.
Immaginate di voler sapere quanto vive in generale una mucca. E di avere davanti a voi uno zoologo, un allevatore e un computer con accesso a internet. A chi vi rivolgete?

Abbiamo – supponendo che lo zoologo in questione non sia un entomologo – una persona con una conoscenza teorica dei bovini che si suppone abbia studiato la loro biologia ma che magari manca di alcune conoscenze pratiche; una persona con una conoscenza pratica – di nuovo immaginando che non sia un allevatore di api – ma che per quanto ne sappiamo potrebbe non aver mai studiato la biologia bovina; e una ricerca online, con la possibilità di imbattersi negli studi dei massimi esperti al mondo e il rischio di trovare informazioni di scarsa qualità.

Da notare che la domanda è probabilmente un po’ insolita ma relativamente sicura: non penso ci siano molte controversie sull’aspettativa di vita delle mucche, né a livello scientifico né a livello sociale. Ebbene, la conoscenza pratica batte sia quella teorica sia internet. Al sondaggio ha infatti risposto una sessantina di persone e per poco più della metà la persona migliore a cui chiedere è l’allevatore; oltre un terzo si rivolgerebbe allo zoologo e circa uno su dieci a Google.

Il sondaggio non va ovviamente preso troppo sul serio, sia per il campione poco rappresentativo sia perché per un’indagine seria bisognerebbe prendere in considerazione più scenari. Rimane il fatto che mi ha stupito vedere così poche persone scegliere il computer collegato a internet. Se questo dato è affidabile, significa che cerchiamo informazioni su Google perché in quel momento non abbiamo alternative migliori. Del resto non ci capita spesso di aver di fronte a noi esperti, mentre un dispositivo connesso bene o malo lo abbiamo tutti, in tasca.

Il quarto incomodo

Avevo dato per scontato che il computer con accesso a internet sarebbe stato usato per una ricerca su Google o per accedere a una fonte ritenuta affidabile. Ad esempio Wikipedia in inglese riporta che “Breeding stock may be allowed a longer lifespan, occasionally living as long as 25 years”.

Non avevo pensato a ChatGPT. Che nel mio caso risponde così:

In media, una mucca vive tra i 15 e i 20 anni. Tuttavia, la durata della vita di una mucca può variare a seconda di diversi fattori, tra cui il suo scopo (latticino o da carne), le condizioni di allevamento, la salute generale dell’animale e la gestione delle sue cure.

Le mucche destinate alla produzione di latte possono vivere generalmente più a lungo rispetto a quelle destinate alla produzione di carne, in quanto vengono mantenute in allevamenti specializzati e ricevono cure veterinarie regolari. Alcune mucche lattifere possono anche superare i 20 anni, anche se questo è meno comune.

Nel caso delle mucche da carne, il periodo di vita è spesso inferiore a causa dell’intensità dell’allevamento per la produzione di carne. Tuttavia, è importante notare che l’età di macellazione delle mucche varia in base alle pratiche culturali e alle normative locali.

Ricorda che queste sono solo stime generali e che la durata della vita di una mucca dipende da molti fattori individuali e ambientali.

Ho fatto un errore

Di solito si dice “prendere lucciole per lanterne” o “fischi per fiaschi”; ma nel mio caso credo che l’espressione più adatta sia “confondere il burro con la ferrovia“. Ho infatti confuso due personaggi molto distanti tra di loro: nel citare nella mia newsletter un interessante articolo sulle difficoltà nel pensare e raccontare la crisi climatica, non l’ho attribuito allo scrittore Paolo Giordano ma al giornalista Mario Giordano.

Nella versione online è corretto, ma nella mail inviata agli iscritti l’errore rimane. Non mi resta che sopportare i più che legittimi sbeffeggiamenti di chi ha notato l’errore.

Dagli errori bisogna imparare. Sul perché della confusione, è abbastanza facile: quella parte della newsletter l’ho scritta un po’ di fretta e non l’ho riletta – inoltre avevo appena cercato e letto un po’ di esempi di controinformazione e disinformazione sull’alluvione in Emilia Romagna, mentre l’articolo di Paolo Giordano l’avevo letto qualche giorno prima.

Ma perché confondere i due personaggi è così strano e perché l’idea di me che cito Mario Giordano così divertente? Certo, c’è la profonda differenza di opinione sulla crisi climatica (e anche su altri temi). Paolo Giordano sostiene quella che potremmo chiamare “posizione standard sulla crisi climatica”, ovvero che i cambiamenti climatici sono reali, pericolosi e indotti dalle attività umane; il consenso scientifico è sufficientemente robusto per decidere e possiamo ancora fare qualcosa. Mario Giordano, invece, è lontano da questa “posizione standard”: forse non nega l’esistenza del cambiamento climatico, ma certamente sminuisce il contributo umano e i provvedimenti considerati opportuni.
Tuttavia secondo me la differenza maggiore non è che cosa sostengono, ma come lo sostengono. Paolo Giordano cerca di costruire uno spazio di ragionamento e riflessione nel quale non siamo schiacciati dalle emozioni. Proprio all’inizio del suo articolo afferma che i giorni di una situazione di emergenza sono tra le occasioni “meno adeguate in assoluto” perché quando “la commozione è al culmine e sarebbe meglio tacere”. E quando riporta un dialogo captato in treno – un tizio che commenta che finalmente la smetteranno di rompere le scatole con la storia della siccità – non lo fa né per schernirlo né provocare indignare i lettori. Al contrario, cerca di comprendere da dove arriva questa insofferenza.
La retorica di Mario Giordano è l’opposto, vive di emozioni, perlopiù negative, e di nemici da attaccare.

Non apprezzerei – anzi: non apprezzo, visto che gli esempi non mancano – un sostenitore di quella che definisco “posizione standard sulla crisi climatica” che usasse i metodi di Mario Giordano. Viceversa apprezzerei – anzi: apprezzo – chi esprime dei dubbi perché vuole capire e fa delle critiche che vogliono portare un contributo, non distruggere tutto.

Appendice: il burro e la ferrovia

Quello di “confondere il burro con la ferrovia” è un modo di dire abbastanza diffuso nella Svizzera italiana. E molto curioso: mentre lucciole e lanterne sono accomunate dal fatto di far luce e fischi e fiaschi possono contare su una certa consonanza, l’accostamento tra burro e ferrovia suona ancora più surreale di quello tra un ombrello e una macchina per cucire.

Il mistero sembra avere una soluzione iberica: in spagnolo infatti si confonde l’asino (burro) con la ferrovia (camino de hierro) e le due parole hanno una certa rassomiglianza oltre a indicare entrambe un mezzo di trasporto.

Cosa potrebbe cambiare in sei mesi di moratoria sulle IA

Fa molto discutere la lettera aperta con cui si chiede di fermare per sei mesi lo sviluppo di modelli linguistici – quelli che ho chiamato “intelligenze artificiali che scrivono cose” – ancora più potenti di quelli attuali.

Credo che questa proposta sia semplicemente inapplicabile e l’iniziativa, se avrà qualche effetto, sarà di aumentare un po’ la consapevolezza sull’impatto che ChatGPT e prodotti simili potrebbero avere – e sui quali ho scritto più volte su questo sito, anche prima che l’argomento diventasse così di attualità – il che certo male non fa.
Ma, al di là della realizzabilità, la proposta di una moratoria è anche opportuna? Io credo di sì.

Certo, se avessimo iniziato a occuparci prima – che poi sarebbe l’etimologia di preoccupare – non dovremmo chiedere questa lunga pausa. Dopotutto non è che i modelli linguistici o le reti neurali artificiali siano spuntate all’improvviso poche settimane fa: anche lasciando da parte la fantascienza che racconta queste storia grosso modo da un secolo, sono almeno diversi decenni che se ne discute a livello teorico, pratico e filosofico. Ma si sa, finché un pericolo non è incombente non ce ne occupiamo, per cui eccoci qui, nel 2023, relativamente impreparati.

Cosa cambia in sei mesi? Sperare in qualche legge che regoli le IA mi pare utopico. Senza dimenticare che leggi malfatte potrebbero pure peggiorare la situazione. Sei mesi potrebbero tuttavia bastare per un accordo tra le principali aziende per uno sviluppo “etico” delle intelligenze artificiali. Ma non ho grande fiducia sull’efficacia di un simile accordo.
Una cosa però potrebbe cambiare in sei mesi: il comportamento delle persone. Abituarci a cosa sanno fare i modelli linguistici che, come li definisce il Politecnico di Zurigo, “producono racconti di fantasia altamente plausibili che spesso si rivelano corretti nei fatti”. Abituarci al fatto che dietro un testo ben scritto potrebbe non esserci una persona. Abituarci al fatto che fotografie, audio e video non sono più prove inconfutabili. Abituarci a nuove procedure lavorative.

A proposito delle imposizioni linguistiche

Torno brevemente sulla questione “linguaggio inclusivo” e il parere che l’Accademia della Crusca ha fornito alla Corte di Cassazione.

Seguendo – lo confesso senza particolare entusiasmo – le discussioni sui social media, ho notato il ripresentarsi da parte dei contrari allo schwa del curioso argomento “la lingua non può essere imposta dall’alto”.

Definisco “curioso” questo argomento innanzitutto perché si riferisce proprio a un caso di imposizione: appunto il divieto di utilizzare lo schwa o l’asterisco per evitare il maschile sovraesteso e l’obbligo di utilizzare i femminili professionali. A stabilire queste imposizioni non è tanto l’Accademia della Crusca, che si è limitata a fornire un parere, ma – immaginando che aderisca alle raccomandazioni – la Corte di Cassazione che impone, nei suoi testi, alcune norme redazionali.

A rigor di logica, se si è contro ogni “imposizione dall’alto” della lingua, si dovrebbe difendere il diritto di poter scrivere, se una persona lo desidera, “ə denunciantə” in un atto giudiziario. Ma sarebbe una pessima idea e la corte non solo può, ma probabilmente deve imporre dall’alto delle scelte linguistiche.

Non è certo l’unica realtà a fare una cosa del genere: credo che tutti gli editori abbiamo un proprio “manuale di stile” che non si limitano a grammatica e ortografia standard. Nei libri di Einaudi ad esempio “più” e “così” hanno l’accento acuto anziché grave (piú e cosí); il manuale di stile della Associated Press sconsiglia di utilizzare “claim” (dichiara) perché può implicare scetticismo su quanto affermato; da qualche anno il Guardian scrive “crisi climatica” invece di “cambiamento climatico”.

Certo, alla fine decidono i parlanti, in base a quello che dicono e scrivono e in base a quello che considerano giusto e sbagliato. Ma questo non toglie che c’è chi ha l’autorità di stabilire delle norme – in contesti specifici o anche in generale, come accaduto con la riforma dell’ortografia tedesca –, chi magari non ha l’autorità ma comunque l’autorevolezza per farlo e chi alla fine può solo limitarsi a fare proposte.

E qui arriviamo al secondo motivo per cui definisco “curioso” l’argomento “la lingua non può essere imposta dall’alto”. Non solo è falso, visto che è possibile e giusto farlo; non solo è fuori luogo visto che il caso in questione è una (legittima) imposizione dall’alto. Ma l’argomento sottintende anche che quel che “arriva dall’alto” sia di per sé male mentre quello che “arriva dal basso” sia di per sé buono. Il che, soprattutto se “in alto” mettiamo delle presunte “élite”, mi pare un argomento decisamente populista.

Niente schwa nei testi giuridici

Mi è stata segnalato che “La Crusca dice basta asterischi e schwa perché ideologici“.

Il riferimento è a un documento che ha uno di quei titoli che mi piacciono tanto perché non dovrebbero lasciare spazio a fraintendimenti: L’Accademia risponde a un quesito sulla parità di genere negli atti giudiziari posto dal Comitato Pari opportunità del Consiglio direttivo della Corte di Cassazione.

Parliamo insomma di un parere – la Crusca non ha del resto poteri prescrittivi sulla lingua, se non la sua autorevolezza – e che riguarda un contesto ben particolare, ovvero il linguaggio giuridico. Non è un divieto generale all’utilizzo di soluzioni come il “carə tuttə” anche in altri contesti ai quali, si legge, «occorre per contro garantire la massima libertà».

Detto questo: sì, il documento è decisamente ostile verso quelli che definisce “segni eterodossi”. Ed è anche vero che, nella lunga premessa, si criticano i presupposti teorici del linguaggio inclusivo.

Non condivido appieno queste critiche, che mi paiono forzate soprattutto con l’accostamento alla cancel culture, ma condivido o comunque a considero ragionevoli le raccomandazioni pratiche.

  • Evitare le reduplicazioni come “cittadine e cittadini” (soluzione peraltro criticata anche dai sostenitori del linguaggio inclusivo in quanto escluderebbe le persone non binarie).
  • Evitare l’articolo davanti ai cognomi di donne.
  • Evitare asterischi e schwa.
  • Declinare al femminile i nomi di cariche e professioni, come “ingegnera”, “la giudice istruttrice” o “la presidente”.
  • Usare forme neutre o generiche come “le persone” o “il personale”.
  • Accettabilità del maschile “inclusivo” plurale (ma non di quello singolare) come “i dipendenti”.

Questo, come detto, in un contesto di linguaggio sorvegliato come quello giuridico. Sul quale peraltro la Crusca fa un paio di affermazioni che appaiono temerarie, viste le oscurità di alcuni testi giuridici. Mi riferisco al timore di arrivare “alla disomogeneità e all’idioletto”: intento nobile, ma direi che da quel punto di vista il linguaggio inclusivo è l’ultimo dei problemi.

Chiudo con una considerazione. Questa è una presa di posizione conservativa eppure sostiene con convinzione – si parla di «uso largo e senza esitazioni» – i femminili professionali. Penso che, dei tanti aspetti del linguaggio inclusivo, quello di “ingegnera” lo si possa ormai dare per assodato.

I social media nuocciono gravemente alla salute delle discussioni razionali

Il titolo ricalca gli avvisi che si trovavano sui pacchetti delle sigarette – da qualche anno mi pare che il burocratico “nuoce gravemente alla salute” sia stato sostituito da un più diretto “uccide” – ma non vorrei venisse frainteso.
Sul fatto che il fumo faccia male non ci sono praticamente dubbi, mentre le ricerche di cui parlo in questo articolo sono meno certe. In ogni caso non auspico interventi statali per proibire o ridurre l’utilizzo dei social, né mi sento di consigliare a tutti di tenersene alla larga.

Già che siamo in zona di avvisi: questo post riprende in parte quanto scritto nella mia newsletter settimanale, alla quale potete abbonarvi.

Più condividiamo meno pensiamo

Alla fine di ogni articolo ci sono una serie di pulsanti per condividerlo su vari social media. Ma forse dovrei toglierlo, visto che secondo una ricerca condividere un’informazione ci rende più creduloni. O, per dirla con le parole del titolo dell’articolo pubblicato su Science Advances, “il contesto dei social media interferisce con il riconoscimento della verità” (“The social media context interferes with truth discernment”).

Prima di vedere i contenuti dell’articolo, qualche avvertenza.
La ricerca è stata condotta sottoponendo ad alcuni soggetti il titolo di una notizia e chiedendo loro, in maniera casuale, se la consideravano attendibile e se l’avrebbero condivisa online. Insomma una situazione così:

Un contesto un po’ diversa dal modo in cui di solito troviamo delle notizie, ne valutiamo l’affidabilità e decidiamo se è il caso di condividerle. Insomma, nella “vita vera” l’effetto rilevato dai ricercatori potrebbe non esserci, o essere trascurabile. Ma intanto si è visto che le persone sono meno brave a distinguere le notizie vere da quelle false quando viene loro chiesto se sono interessate a condividere la notizia.

Perché tutto questo? I ricercatori hanno preso in considerazione due ipotesi. La prima è che abbiamo una quantità limitata di “energia mentale”. Se ne impieghiamo una parte per decidere se condividere la notizia, ne abbiamo meno a disposizione per valutarne criticamente il contenuto. Insomma, decidere se condividere o meno un contenuto ci distrae. La seconda ipotesi è che la decisione di condividere una notizia ci porti automaticamente a considerarla più attendile, visto che non ci piace l’idea di condividere notizia inaccurate.
I due modelli differiscono per il tipo di interferenza. Il modello dell’energia mentale (che i ricercatori definiscono “spillover”) prevede giudizi errati sia per le notizie vere che per quelle false. Il modello della consistenza, invece, prevede perlopiù notizie false scambiate per vere. Ebbene, i dati mostrerebbero che è il primo modello a essere corretto. In altre parole: basta prevedere la possibilità di condividere una notizia per abbassare lo spirito critico delle persone.

A caccia di indignazione

Quella appena riassunta non è l’unica ricerca sui social media di questi giorni. Un altro studio ha preso in considerazione i tweet sul “trophy hunting”. Qui c’è la ricerca, e qui il comunicato stampa.

La caccia ai trofei consiste in persone benestanti che pagano per poter cacciare animali protetti. Il tutto avviene legalmente e i soldi vengono usati per la protezione degli ecosistemi, per cui alla fine c’è un guadagno netto per la fauna selvatica. Hai fatto fuori un leone o un rinoceronte in via di estinzione, ma quel che hai speso permette di mantenere aperta la riserva naturale in cui possono vivere molti più esemplari. Ciononostante fatico a considerare chi pratica questo sport un “amico della natura”. E mi sento di concludere che uno che uccide esseri viventi perché sono trofei non è una bella persona.

Sul tema ne aveva scritto Sandel nel suo interessante saggio Quello che i soldi non possono comprare (del quale avevo scritto una recensione):

Se credete che sia moralmente riprovevole uccidere la fauna selvatica per sport, il mercato della caccia ai rinoceronti è un patto col diavolo, un tipo di estorsione morale. Potreste accettare i suoi effetti positivi sulla conservazione dei rinoceronti ma deplorare di fatto che questo risultato sia ottenuto soddisfacendo quelli che voi considerate piaceri perversi di ricchi cacciatori. Sarebbe come salvare dalla distruzione un’antica foresta di sequoie permettendo ai boscaioli di vendere a donatori benestanti il diritto di incidere le proprie iniziali su alcuni degli alberi. Quindi che cosa si sarebbe dovuto fare? Avreste rifiutato la soluzione di mercato sulla base del fatto che la repellenza morale della caccia ai trofei è superiore ai benefici della salvaguardia? Oppure avreste deciso di pagare l’estorsione morale e di vendere il diritto di cacciare alcuni rinoceronti nella speranza di salvare la specie dall’estinzione? La risposta corretta dipende in parte dal fatto che il mercato riesca poi effettivamente a procurare, o meno, i benefici che promette. Ma dipende anche da un’altra questione: se i cacciatori di trofei sbagliano a trattare la fauna selvatica come un oggetto di sport e, in tal caso, dalla gravità morale di questo errore.

Il tema mette in discussione i nostro modelli etici e va attentamente valutato. Solo che tutta questa discussione sfugge di mano, quando sui social media appare la foto di una persona ricca con il fucile da una parte e il corpo di un animale protetto dall’altra. E le discussioni violente su Twitter sembrano avere un effetto sulle leggi sulla protezione della fauna selvatica. Personalmente sarei per proibire questo tipo di caccia e cercare altre risorse per proteggere le specie in via di estinzione, per cui non sono troppo dispiaciuto dall’esito – ma è inquietante come i social media riducano lo spazio per discussioni razionali.

Contro le guerre culturali

Sono stato tentato di scrivere qualcosa sulle modifiche apportate ad alcuni romanzi di Roald Dahl.

Il caso, del resto, apre molti interrogativi interessanti.
Chi gestisce i diritti d’autore può modificare i testi come faceva lo stesso autore in vita? Il fatto che parliamo di letteratura per l’infanzia cambia qualcosa? Perché importanti cambiamenti nella trama o nei personaggi in opere derivate (vedi i molti film realizzati a partire dai romanzi di Dahl) ci indignano meno di una correzione al testo? Se correggere quanto scritto dell’autore è sbagliato, lo è anche pubblicare uno scritto che l’autore non voleva pubblicare?
Immaginando che la correzione di un refuso sia non solo tollerata ma anche auspicata, a che punto una correzione diventa inopportuna? Se una parola ha cambiato significato o accezione, è lecito sostituirla con una parola più vicina al significato originario e quindi alle intenzioni dell’autore? E se – cambiando autore e genere – qualcuno ripubblicasse le opere di Asimov sostituendo le anacronistiche schede perforate che ogni tanto compaiono con dei file caricati in rete?
Quanto è importante tenere pubblicamente traccia delle modifiche e mantenere accessibili le opere originali? Lasciare in nota i passaggi originali andrebbe bene? Come deve comportarsi chi traduce i testi di fronte a termini problematici o non più attuali? E cosa accadrebbe se fosse l’autore stesso a chiedere di aggiornare le sue opere affinché restino al passo con i tempi?

Lo scontro finale

Queste sono alcune delle domande che mi sono posto e sulle quali sarebbe interessante (e forse anche urgente) ragionare. A queste domande possiamo poi aggiungere tutte le riflessioni sugli effetti del linguaggio dispregiativo, giusto per mettere in contesto alcune delle modifiche apportare ai testi di Dahl. Questo non per condannare o assolvere l’operazione, ma per capire di preciso quali sono i problemi e quanto sono gravi.
Solo che per ragionare e discutere serve un ambiente adatto: nulla di troppo complicato, diciamo un posto dove chi dice la sua opinione non si sente come l’eroe che da solo affronta il nemico – e non una divisione che è lì per occupare una via di comunicazione, ma l’intero esercito arrivato per sterminare l’intera popolazione e spargere sale sulle macerie.

Questa metafora bellica merita un chiarimento, perché vi vedo due difficoltà. Il primo è proprio l’idea di concepire una divergenza di opinioni come uno scontro, invece di un’occasione per chiarirsi le idee e stabilire un terreno comune di discussione – il che non vuol dire arrivare a un compromesso, il terreno comune può semplicemente essere il fatto di pensarla diversamente. La seconda difficoltà riguarda il tipo di conflitto al quale si pensa. È un semplice diverbio, un duello mortale, uno scontro di poco conto, la battaglia dalla quale dipendono le sorti della guerra e forse della civiltà? A seconda di quale situazione immaginiamo cambiano le strategie.

Molte cose che ho letto su questa vicenda dei libri di Roald Dahl avevano lo spirito dello scontro finale. Aragorn che con pochi uomini affronta l’esercito di Mordor sperando che Frodo riesca a distruggere l’unico anello; il protagonista di Le streghe trasformato in topo che per eliminare le streghe inglesi deve versare la pozione magica nella minestra che tra poco mangeranno; Poirot che si taglia i baffi per sconfiggere i temibili Quattro e sventare il loro diabolico piano di impadronirsi del mondo.
Certo, restiamo nell’ambito di una guerra figurata in cui le armi sono perlopiù reboanti post sui social media, articoli indignati e che attirano l’indignazione, accuse di ipocrisia per mostrarsi i più puri e intransigenti. Se qualcuno dovesse davvero ricorrere alla violenza fisica, la cosa sarà solo in parte riconducibile agli eccessi retorici di questi giorni.

Va anche detto che non tutti hanno denunciato la più grande catastrofe culturale dall’incendio della biblioteca di Alessandria, sollecitato indignazione generale, invitato al boicottaggio eccetera. C’è chi ha provato a ragionare e a discutere, ma direi con scarsi risultati, almeno in questi primi giorni. Forse più avanti – quando sarà calata un po’ l’attenzione – ci saranno le condizioni per discussioni più lucide.

Un possibile manifesto: disinnescare le bombe culturali

Da quanto ho ripreso in mano questo sito, aggiornandolo più o meno regolarmente, mi sono chiesto se dovessi seguire una qualche “linea editoriale”. Insomma se scegliere un tema specifico invece di scrivere semplicemente quello che mi passa per la testa – come si poteva ancora fare all’epoca d’oro dei blog.
La risposta finora è sempre stata negativa. Del resto scrivo perché mi aiuta a chiarire le idee e a riordinare i pensieri. Che quello che scrivo possa essere utile ad altri è una speranza (probabilmente un’illusione), non un obiettivo. Eppure questa vicenda dei libri di Dahl – e soprattutto delle discussioni che ne sono seguite – mi convince della bontà dell’idea di un progetto di comunicazione. Disinnescare le bombe culturali, riflettere su come creare spazi di discussione in cui si costruisce qualcosa, evitando la facile indignazione.

Non ignoriamo l’astrologia

Il Corriere della Sera ha deciso di pubblicare una collana di libri di astrologia. Da possessore e lettore più che soddisfatto di una analoga collana dedicata alle parole della filosofia, la cosa mi indispone un po’. Certo, la serietà di quei libri è garantita dagli autori e dai curatori della serie (Corrado Del Bò, Simone Pollo e Paola Rumore). Non immaginavo di ritrovarmi a dire che quei nomi ne garantiscono la qualità nonostante l’editore.

Se il problema fosse solo la perdita di credibilità – almeno da parte di alcuni – del Corriere della Sera, sarebbe solo una preoccupazione loro. Ma c’è anche il discorso di dare dignità all’astrologia. Che per carità, se la cava bene anche senza la Biblioteca di astrologia del Corriere della Sera: dopo un paio di millenni di critiche, l’astrologia continua a esser presente, tra oroscopi e le chiacchiere di chi chiede di che segno sei. Certo non è più considerata una disciplina seria: non la si insegna nelle scuole, non ci si basa su di essa per far previsioni e i già citato oroscopi sono perlopiù confinati nelle pagine di costume. Ma l’astrologia continua a tenerci compagnia.

Questa tenacia è uno dei motivi per cui l’astrologia mi affascina. Insieme molto probabilmente al fatto che ha soffiato il nome che – seguendo il modello di biologia, psicologia, zoologia, archeologia… – spetterebbe all’astronomia. Per questo motivo io una collana di libri dedicati all’astrologia la comprerei. È vero che si tratta di una pseudoscienza priva di fondamento, ma questo non significa che la si possa ignorare. Parliamo infatti di una pseudoscienza che troviamo in molte culture, che per millenni ha rappresentato una forma di sapere legittima tanto da intrecciarsi con la rivoluzione scientifica e che, come accennato, continua ad avere un certo seguito anche in un mondo dominato dalla tecnologia come il nostro.
Raccontare la storia dell’astrologia per descriverne la popolarità e la marginalizzazione sarebbe un’iniziativa interessante. E anche spiegare che tipo di prove si possono fare, e sono state fatte, per mettere alla prova la validità dell’astrologia.

Il problema, insomma, non è che il Corriere della Sera dedichi una serie di libri all’astrologia, ma quello che c’è dentro quella serie di libri. E che, a giudicare dalla presentazione della collana, è quanto di più lontano dall’approccio da me auspicato