La disinformazione ai tempi dell’intelligenza artificiale

Circola un video di Bill Gates che dice cose che non ha mai detto: come riporta Facta, molto probabilmente il filmato è stato alterato usando un software di intelligenza artificiale. Parliamo di un deepfake, della creazione di immagini, video e audio praticamente irriconoscibili e relativamente facili da realizzare.
Ai deepfake possiamo aggiungere i modelli linguistici – che qui chiamo “intelligenze artificiali che scrivono cose” – con i quali possiamo in pochi secondi produrre dettagliati articoli di disinformazione sul fatto che la Terra è piatta, non siamo mai andati sulla Luna, l’11 settembre è stata una demolizione controllata, i vaccini hanno rischiato di portare all’estinzione l’umanità eccetera.

Quanta disinformazione!

Le intelligenze artificiali stanno aggravando il problema della disinformazione? Apparentemente sì, anche se forse il problema non è tanto la quantità e qualità delle false informazioni.
Già adesso per verificare una notizia occorre risalire alla fonte e ricostruire il contesto. E non è detto che la qualità delle manipolazioni porti più persone a ritenerle buone. Infatti più della qualità di un contenuto, contano la fiducia verso la fonte e quanto quel contenuto conferma le nostre opinioni. Saremo portati allo scetticismo di fronte a un video perfetto ma presentato da un media che consideriamo inaffidabile e che va contro quello che crediamo. Tenderemo invece a prendere per buono un video imperfetto presentato da fonte che riteniamo credibile e che conferma le nostre idee. Certo non è un atteggiamento ideale, ma ha l’indubbio vantaggio di risparmiarci la fatica di valutare attentamente ogni singola informazione che ci passa davanti, il che sarebbe impossibile.
I modelli linguistici sembrano aggravare la cosiddetta Legge di Brandolini, quella per cui l’energia per smontare una bufale è di un ordine di grandezza superiore a quella necessaria per inventarla. (C’è anche la variante della “montagna di merda, facile da scaricare ma difficile da spalare via”).
Però le intelligenze artificiali possono essere utilizzate anche per riconoscere e smontare le bufale, semplificando quindi anche l’altra parte del lavoro.

Forse sono eccessivamente ottimista, ma credo che alla fine non cambierà molto, per quanto riguarda la facilità (o difficoltà) nel riconoscere le bufale. Il vero problema non riguarderà le monete cattive, ma da quelle buone. Ovvero le notizie autentiche.

Il dividendo del bugiardo

Ho appena scritto che tendiamo a dare per vero quello che conferma le nostre idee e a dare per falso quello che le smentisce. Ma non è solo una questione di vero e falso.
Prima di tutto perché non è detto che una notizia, e più in generale un’affermazione, sia o vera o falsa senza vie di mezzo. Semplificazioni, approssimazioni o imprecisioni introducono tutta una serie di gradazioni. Nella maggior parte delle situazioni dire che la Luna dista 400mila km dalla Terra è un’adeguata approssimazione della distanza media di 384’399 km. Ed è certamente “meno sbagliato” dell’affermare che la Luna si trova a 400 km o a 400 milioni di km.
Soprattutto, può variare la nostra convinzione verso la verità o falsità di un’affermazione, insomma il “quanto ci crediamo”. Sono certo che la Luna non sia a poche centinaia di chilometri dalla Terra e non sia fatta di formaggio; su come si sia formata ho meno sicurezza, sia perché esistono diverse ipotesi sia perché non sono un esperto. Possiamo formularla anche così: sul fatto che la Luna non sia di formaggio sarei pronto ad accettare una scommessa particolarmente rischiosa, diciamo diecimila a uno; per scommettere che la Luna sia nata in seguito a un grande impatto vorrei invece quote più favorevoli. Infine, sulla quantità di acqua presente sulla Luna invece non scommetterei.

La crescente qualità della disinformazione prodotta da intelligenze artificiali forse non alza la credibilità della disinformazione, ma rischia di abbassare quella dell’informazione. Prendiamo – l’esempio è di John Gruber – la registrazione di alcune frasi sessiste di Donald Trump, tra cui il celebre “Grab them by the pussy”, pubblicata a poche settimane dalle elezioni del 2016. Trump alla fine venne eletto, ma la sua popolarità calò. All’epoca non era possibile mettere in dubbio l’autenticità dell’audio; oggi sarebbe una strategia percorribile. E anche un oppositore di Trump dovrebbe ammettere la possibilità di un deepfake e ridurre di conseguenza la propria sicurezza sull’autenticità della registrazione.

Questa erosione dell’affidabilità è un fenomeno noto da alcuni anni; ha anche un nome: “liar’s dividend”, il dividendo del bugiardo. Ne scriveva ad esempio Paul Chadwick sul Guardian nel 2018, sottolineando come gli effetti del dividendo del bugiardo cresceranno con la consapevolezza pubblica dell’esistenza dei deepfake. La popolarità di ChatGPT e dei modelli linguistici è quindi una brutta notizia.

Tutta colpa dell’Intelligenza artificiale?

Riassumendo, c’è il rischio che un audio o un video autentici vengano ritenuti meno attendibili perché c’è la possibilità che siano dei deepfake. O che la grande quantità di articoli di disinformazione ben scritti – da intelligenze artificiali – mi renda più scettico verso articoli ben documentati.

A ben guardare, però, il problema non è dovuto solo alla qualità di falsi. Come detto, molto dipende dal contesto di una notizia per cui, prima ancora che i deepfake e i modelli linguistici, il vero problema è che mass media e autorità hanno perso credibilità.

Quando si è diffusa questa sfiducia? In un articolo su The Conversation, Robert M. Dover indica come punto di svolta l’invasione dell’Iraq e l’utilizzo che i politici hanno fatto delle informazioni fornite dai servizi di intelligence. Non sono sicuro che quello sia stato davvero un momento cruciale; certo la diffidenza non è nata con le intelligenze artificiali e neanche con i social media.

Avvenne due giorni fa. Per un giornalismo in ritardo

C’è questo bel film degli anni Quaranta, ‘Avvenne domani’ di René Clair, in cui il protagonista entra in possesso del giornale di domani – nel senso di quello che sarà pubblicato domani e che contiene il resoconto di quanto accadrà oggi.
Questo scenario, per quanto affascinante – o inquietante, se come il protagonista si legge la notizia della propria morte – è irrealistico, a meno di non avere un qualche fenomeno paranormale o fantascientifico.
Non avendo a disposizione viaggi nel tempo, ci si deve accontenrare dei giornali di oggi che riportano quanto accaduto ieri. Un ritardo di 12-24 che già negli anni Quaranta – e infatti il film è ambientato nel 1890 – si poteva colmare con la radio. Adesso con tv e internet possiamo avere oggi le notizie di quanto accade oggi, in tempo reale o quasi.

E se invece provassimo ad ampliare questo ritardo?

Facciamo un esperimento mentale. Un giornale non riporta nessun evento accaduto da meno di 24 ore. Una sorta di moratoria sull’attualità. Lunedì c’è un terremoto, un colpo di stato, un uragano, uno scandalo politico, una proposta di legge? Web, radio e tv danno subito la notizia. La carta stampata la lascia riposare: non se ne scrive sull’edizione di martedì, ma si aspetta quella di mercoledì, così da avere più informazioni e di avere il tempo per capire quanto era davvero importante quella notizia. Non si tratta semplicemente di leggere il giornale pubblicato il giorno prima, ma di pubblicare il giornale di oggi con informazioni che hanno dimostrato di poter sopravvivere dopo un giorno.

L’idea è simile a quello dello “slow journalism”. Ma non si basa su un elenco di virtù o buone pratiche che oltretutto spingono verso approfondimenti. La moratoria di 24 ore è molto più semplice: niente notizie su eventi accaduti meno nell’ultimo giorno.

Se un giornale si prendesse l’impegno di lasciar trascorrere 24 ore prima di scrivere qualcosa, io prenderei in seria considerazione di abbonarmi.

Una buona notizia per il caro-bollette. Una brutta notizia per il giornalismo

Farà caldo fino a novembre, o almeno così prevede Antonello Pasini, primo ricercatore CNR e docente di Fisica del Clima all’Università di Roma Tre.

Fatte le doverose premesse sull’incertezza di previsioni a lungo termine, Pasini spiega in un’intervista che questo caldo anomalo “se può in qualche modo essere una buona notizia per la questione dei riscaldamenti e il relativo problema energetico, non è per nulla una buona notizia per quanto concerne eventi climatici estremi come grandinate e piogge torrenziali” e questo a causa di “infiltrazioni di correnti fredde e l’incontro di queste con il caldo accumulato”. Pasini conclude con un invito all’azione, limitando i danni dovuti al riscaldamento globale e cercando di ridurre le emissioni.

Ora, visto il rischio rappresentato da nubifragi e grandinate sia per l’agricoltura sia per un territorio fragile, voi su cosa titolereste? Una agenzia di stampa (copia permanente su Archive.org per non regalare clic inutili) ha puntato tutto sui possibili risparmi di gas:

Una buona notizia per il caro-bollette: farà caldo fino a novembre

Antonello Pasini, primo ricercatore Cnr e docente di Fisica del Clima presso l’università degli Studi Roma Tre: “Le prossime settimane vedranno temperature elevate, spinte all’insù dall’anticiclone africano

Sembra quella barzelletta del coniuge che annuncia la distruzione dell’auto col fatto che si risparmiano i soldi del cambio dell’olio, ma il fatto che quell’agenzia di stampa sia proprietà del gruppo ENI rende la cosa meno divertente.

L’emergenza climatica in televisione

photo of brown bare tree on brown surface during daytime
Photo by Pixabay on Pexels.com

È Greenpeace, associazione ambientalista che non riscuote le mie simpatie, ma la ricerca è stata condotta dall’Osservatorio di Pavia e mi pare interessante: quanto e come si parla dell’emergenza climatica nella televisione italiana?

Ci sono due rapporti, uno per i telegiornali e l’altro per le trasmissioni di approfondimento, disponibili sul sito di Greenpeace che propone anche una sintesi.

In sostanza, di cambiamento climatico si parla poco (meno di una notizia su cento per i TG; poco più del 6% per gli approfondimenti) e quando se ne parla è soprattutto a partire da eventi climatici o fenomeni naturali; le cause vengono citate raramente nei telegiornali mentre sono riportate in metà delle trasmissioni di approfondimento; le conseguenze sono perlopiù ambientali, solo raramente sociali, economiche o sanitarie.

Un rapporto simile era stato fatto per i quotidiani (ma me l’ero inizialmente perso), con risultati simili.

Ora, Greenpeace punta il dito sulla dipendenza dei media dalle aziende inquinanti. Che certamente c’è e l’indipendenza dell’informazione è un problema che va affrontato (e non solo per le aziende inquinanti). Ma in questi casi mi attengo al cosiddetto “Rasoio di Hanlon” che impone di non attribuire (soltanto) a malafede quello che può essere attribuito alla stupidità o meglio alle difficoltà nel raccontare l’emergenza climatica. Che è una cosa complessa in praticamente ogni aspetto, dai meccanismi climatici alle conseguenze alle possibili soluzioni. Devi semplificare senza banalizzare, spiegare le responsabilità senza colpevolizzare le persone ma anche senza assolverle dando la colpa ad altri. E tutto questo con un sistema mediatico che è pensato per informare su eventi puntuali come crisi politiche o guerre.

L’ultima parola della scienza

L’ultima parola su ciò che sappiamo certamente su [tema oggetto di disinformazione] la lasciamo alla scienza. A lui.

Valentia Petrini, Non chiamatele fake news, Chiarelettere 2020

Sto leggendo un po’ di libri sulle “fake news”, e tra di questi c’è anche quello della giornalista Valentina Petrini. Dal punto di vista teorico è relativamente povero, ma è un’interessante testimonianza di come una giornalista che crede nel valore dei fatti affronti professionalmente e personalmente la disinformazione e la polarizzazione. Insomma, non ci si sofferma più di tanto su cosa siano le fake news, sulle differenze rispetto a fenomeni antichi come la propaganda, sui meccanismi di diffusione e sugli effettivi effetti, ma almeno non ci si limita a dare la colpa ai social media dal momento che, si legge a un certo punto, “la lotta contro la disinformazione sarebbe monca se non allargassimo il dibattito a tutta la macchina dell’informazione”.

Tuttavia è un altro il passaggio che più mi ha colpito, purtroppo in negativo, ed è quello che troviamo citato all’inizio di questo testo e che introduce l’intervista a un esperto. Ho omesso sia il nome dell’esperto, sia il tema di cui si discute perché mi interessa il modo di ragionare, non il caso specifico che potrebbe essere l’efficacia dei vaccini, il riscaldamento globale, le scie chimiche, l’assassinio di Kennedy o lo sbarco sulla Luna.

Abbiamo un esperto del tema e certamente quello che dice è importante e merita, nel dibattito pubblico, uno spazio diverso da quello di una persona con minori competenze sul tema. Certo, qui sarebbe importante capire come, immaginando di essere a nostra volta persone “con minori competenze sul tema”, possiamo valutare le competenze di un esperto o meglio ancora di due esperti o sedicenti tali che si contraddicono.

Il problema è tuttavia un altro: Valentina Petrini introduce l’intervista con le parole citate all’inizio. “L’ultima parola su ciò che sappiamo certamente […] la lasciamo alla scienza. A lui”. Perché queste parole non mi convincono? Di per sé si dice semplicemente la scelta di chiudere il capitolo con alcuni punti fermi sostenuti da un ricercatore esperto del tema. Tuttavia le parole sono secondo me sbagliate. L’ultima parola: dopo non c’è più spazio neanche per domande? Sappiamo certamente: di che tipo di certezza stiamo parlando? È certo come è certo che 2+2=4, come il fatto che la Terra è rotonda, come è certo che se mangio cibo grasso mi verrà un infarto? La scienza: esiste una cosa che possiamo definire “la scienza”, e parlare come tale, o abbiamo una pluralità di discipline e ricercatori?

L’esperto poi fa bene il suo lavoro di esperto: riassume quello che si sa, nota che al momento c’è un’ipotesi accettata da quasi tutti (e si capisce che la certezza è in realtà limitata) e che chi sostiene altre tesi non ha prove solide o addirittura porta prove false. Capisco che di fronte a corbellerie e dibattiti sterili si sia tentati di presentarla come “l’ultima parola della scienza”, ma forse è una tentazione alla quale varrebbe la pena resistere.

Leggere notizie

Ho finito di leggere ‘Smetti di leggere notizie – Come sfuggire all’eccesso di informazioni e liberare la mente’ di Rolf Dobelli (tradotto in italiano da Silvia Albesano e pubblicato dal Saggiatore).

Di un infelice esempio fatto dall’autore ho già scritto.
Nel complesso, come ho trovato il libro? In quattro parole: condivisibile, confuso, manicheo ed elitario.

Continua a leggere “Leggere notizie”

In difesa delle “fake news”

Lo ammetto subito: il titolo di questo post è un’esca per attirare lettori, un click bait per capirci. Non intendo affatto difendere bufale e notizie inventate — per quanto, lo ammetto, non abbia molta simpatica per le soluzioni autoritarie talvolta proposte per contrastare il fenomeno, per cui potrei davvero trovarmi a difendere il diritto di scrivere e condividere baggianate.
Ma questo è un altro discorso: qui mi interessa una difesa linguistica delle fake news. È la parola, che voglio difendere, non il fenomeno.

Infatti, nel titolo, fake news è scritto tra virgolette, trucchetto da filosofi del linguaggio per indicare che si sta parlando, appunto, della parola, non di quello che indica.1
Perché a volte c’è bisogno di uno stolto che, mentre il saggio indica la Luna, guarda il dito, più che altro per capire se al saggio trema un po’ la mano e se non è meglio usare un bastone o un cannocchiale, per mostrare il nostro bel satellite agli altri.

Continua a leggere “In difesa delle “fake news””
  1. Trucchetto che rischia di appesantire la lettura, e visto che quello che sto scrivendo non è un saggio di filosofia del linguaggio, vi risparmio le virgolette nel testo. []

Del giornalismo del 21º secolo

Secondo me, se il giornalismo ha un senso, oggi, è quello di fare da traduttore all’interno della società.

Con giornalismo intendo, qui, chi dà notizie quotidianamente: gli approfondimenti sono un altro discorso, perché appunto non danno la notizia, ma forniscono gli strumenti per comprenderla. Il problema è che non è detto che questi strumenti siano alla portata di tutti e non è detto che interessino a tutti. Due aspetti che non è il caso di trascurare: una società in cui tutti riescono a comprendere tutto sarebbe bellissima, ma se non ci si ricorda che è un’utopia quello che si ottiene è una società in cui metà della popolazione crede di sapere tutto perché due anni fa ha letto un articolo su Internazionale e l’altra metà odia quelli che leggono Internazionale perché si sentono trattati da capre ignoranti (senza dimenticare un’altra metà che neppure sa che cosa sia Internazionale, e un’altra metà ancora che non conosce le frazioni). Continua a leggere “Del giornalismo del 21º secolo”

Io non ci capisco niente

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Forse sono io, ma di questo blocco di titoli apparso sul sito di Repubblica non ci capisco nulla.
“Gravissimo tifoso Napoli”, pur con molti sottintesi, non è difficile: un tifoso della squadra di calcio del Napoli è in gravissime condizioni di salute. È anche sottinteso che sia in pericolo di morte per qualche atto di violenza e non per un incidente o un malore, eventi tutt’altro che improbabili.
“Parla il padre”, immagino il padre del tifoso (“video” in blu si riferisce al padre che parla o in generale al tifoso in fin di vita?”). Chi ha detto “vi ammazzo”? Il padre? Il tifoso?
E poi, sotto, arriva un misterioso Gastone che “fermò derby 2004”.

Con molta fantasia immagino che Gastone, ultrà della Roma che già in passato aveva commesso atti di violenza, abbia minacciato (“vi ammazzo”) e poi sparato ferendo gravemente un tifoso del Napoli e per questo sia stato arrestato con l’accusa di tentato omicidio.

Il fatto che il titolo su Repubblica ricordi i rebus della Settimana Enigmistica non mi pare molto normale. Non capisco se è voluto – per capirci qualcosa uno deve aprire le pagine collegate, aumentando visualizzazioni e introiti pubblicitari – o se proprio non ce la fanno.

Aggiornamento

Non sono il solo, a non capirci niente.

Ripensare il giornalismo a partire da qui

73f11895-5b2f-4196-b364-4d1cc0eb16dbQuesta mattina sono stati presentati i Concerti dell’Auditorio di Rete Due.
Un’ora di conferenza stampa, con tre intermezzi musicali e nessuno spazio per le domande (se non durante il rinfresco offerto alla conclusione della conferenza stampa).

Sul sito della Radiotelevisione svizzera di lingua italiana è disponibile il video di tutta la conferenza stampa, oltre ovviamente a un testo di presentazione e a vario materiale fotografico.

Quale è il senso di scrivere un articolo che vada al di là delle tre righe qui sopra, link compresi?