Come ho cambiato idea su Armageddon e Deep Impact

Raccontare la storia di un meteorite che colpisce la Terra non è un’idea particolarmente originale. Poi certo, più che l’originalità dell’idea conta come la si sviluppa ed è su questo punto che si gioca la differenza tra due film incredibilmente vicini nella premessa e incredibilmente lontani nella realizzazione. L’uscita quasi contemporanea (almeno negli Stati Uniti) di Deep Impact e di Armageddon ha legato i due film. Nel 1998 era impossibile parlare dell’uno senza citare l’altro; poi Deep Impact è lentamente scivolato nell’oblio (o almeno così mi pare), mentre Armageddon è diventato a suo modo un classico.

Perché mi era piaciuto di più Deep Impact

In entrambi i film si scopre che un asteroide/cometa colpirà la Terra. Per evitare la scomparsa dell’umanità si cerca di deviare o distruggere il corpo celeste tramite delle bombe atomiche che però non possono essere semplicemente lanciate. La missione per far esplodere l’asteroide/cometa ovviamente incontra diversi problemi e alla fine sarà necessario un sacrificio.
Questo quel che i due film hanno in comune. Ma Deep Impact racconta quello che accade sulla Terra, come l’umanità (o meglio quella parte di umanità che vive negli Stati Uniti) si prepara a livello personale e collettivo alla catastrofe. Armageddon invece racconta l’improbabile e scanzonata impresa di distruggere l’asteroide.

Credo di essere stato uno dei pochi a preferire Deep Impact ad Armageddon.
Perché? Un po’ per la maggiore plausibilità scientifica: gli eventi raccontati in Deep Impact sono plausibili e del resto sono stati coinvolti diversi consulenti e tra le fonti di ispirazione troviamo un romanzo di Arthur C. Clarke. Di plausibile, in Armageddon, c’è invece davvero poco, dalla dimensione dell’asteroide alla tecnologia usata per deviarlo. Alcune “licenze poetiche” sono funzionali alla trama. Ad esempio lo scarso preavviso con cui viene trovato l’asteroide serve a giustificare il fatto di non avere il tempo per addestrare degli astronauti. Ma in generale denotano un sostanziale menefreghismo per la realtà.

Ma a convincermi di più di Deep Impact era il fatto di voler raccontare l’umanità, non un grosso sasso che esplode all’ultimo secondo per evitare l’impatto.

Perché mi piace di più Armageddon

Questo, appunto, nel 1998. Recentemente ho rivisto entrambi i film e ho cambiato idea.

Certo, Armageddon resta un’improbabile e scanzonata avventura, ma lo fa senza prendersi sul serio. Anzi. Lo mostra un piccolo aneddoto: l’attore Ben Affleck aveva chiesto al regista Michael Bay come mai era più semplice addestrare Nella traccia di commento, Ben Affleck dice di aver chiesto al regista Michael Bay come mai fosse più facile addestrare dei trivellatori a diventare astronauti invece che addestrare degli astronauti a diventare trivellatori, ottenendo un “shut the fuck up” come risposta.

Deep Impact invece si prende molto sul serio. E oggi trovo le riflessioni etiche e psicologiche del film superficiali e approssimative, con questa retorica della speranza e del sacrificio. Alla fine , per quanto caricaturali, risultano più convincenti le reazioni psicologiche dei personaggi di Armageddon. Certo, decidere chi salvare e chi no è un problema di giustizia tutt’altro che banale e la soluzione prospettata è interessante: una prima tornata in base all’utilità e poi un semplice sorteggio. Ma alla fine la cosa rimane lì, senza troppa voglia di approfondire o di ragionare su possibili alternative.

Così mentre Armageddon entrava nell’immaginario collettivo e diventava un film con cui confrontarsi, Deep Impact scompariva senza lasciare grandi tracce. E secondo me il problema è appunto quello: un film riusciva a mantenere quanto promesso, l’altro no.
Cosìlla fine ha vinto Armageddon. E lo vediamo nel più recente Don’t Look Up: anche qui abbiamo una cometa che minaccia la Terra, anche qui abbiamo l’ambizione di raccontare come l’umanità affronta una crisi, con riferimenti al riscaldamento globale e alla pandemia. Ma il film, per stile e narrazione, è più vicino ad Armageddon che a Deep Impact.

Avatar 2, la via dei buchi di sceneggiatura

Sono due le cose incredibili di Avatar – La via dell’acqua. La prima è ovviamente l’esperienza visiva e sonora, con un nuovo ambiente di Pandora in cui immergersi grazie agli effetti speciali.

La seconda è la pochezza della sceneggiatura. Il primo Avatar aveva una storia incredibilmente classica e prevedibile; il secondo capitolo alla prevedibilità unisce incoerenze e insensatezze varie. Immagino che il processo creativo sia andato grosso modo così: James Cameron riunisce il team di autori – il soggetto è firmato anche da Rick Jaffa, Amanda Silver, Josh Friedman e Shane Salerno –, dice cosa vuole filmare e questi si inventano la prima cosa che possa giustificare quelle scene. Rivoglio il cattivo interpretato da Stephen Lang! Facciamo che prima di morire ha fatto una copia della propria coscienza che adesso viene riversata in un clone. Voglio mostrare un mondo acquatico! Bene, il protagonista abbandona la foresta perché boh, vuole sfuggire al cattivo? Voglio una grande caccia a qualcosa di simile a dei cetacei senzienti! Facciamo che li cacciano perché hanno un siero che arresta l’invecchiamento. E così via.

Magari lo scrittore Steven Gould, al quale è stato affidato il compito di scrivere i romanzi tratti dai film, troverà delle giustificazioni credibili. Ma il film è tanto una gioia per gli occhi e le orecchie quanto una sofferenza per chi cerca di tenere insieme gli eventi. Suggerirei, per il prossimo film della serie, di lasciar perdere lo sforzo e tentare un’operazione postmoderna: realizzare una serie di episodi slegati introdotti da James Cameron che spiega cosa ha voluto filmare. “Ho pensato che fosse figo mostrare l’assalto a un treno a levitazione magnetica, tipo quelli dei vecchi western”. “Adesso vi mostro il protagonista che si integra in una nuova popolazione acquatica di Pandora”. E così via.

Meglio la clonazione o il siero anti-invecchiamento?

Fin qui non ho detto nulla di particolarmente originale: le poche recensioni che ho leggiucchiato mi pare dicano sostanzialmente la stessa cosa.

Provo quindi a dire qualcosa di più originale prendendo due buchi di sceneggiatura come esperimenti mentali per ragionare su alcune intuizioni etiche e filosofiche.

Il primo esperimento riguarda il già citato siero che arresta l’invecchiamento e che sostituisce l’unobtainium quale sostanza preziosa che spinge gli umani a saccheggiare Pandora e fare guerra ai nativi.
Una persona ricca quanto sarebbe disposta a pagare per una simile sostanza? Secondo me poco, visto che può fare un backup della propria mente e riversarla in un clone più giovane e magari geneticamente migliorato. Dubito infatti che la distopica società terrestre dei film, visto quello che fa a Pandora, si ponga molti problemi verso il miglioramento genetico. La tecnica “backup mentale + clonazione” non dovrebbe essere particolarmente cara, visto che viene impiegata per resuscitare un gruppo di soldati: i costi devono essere inferiori a quelli di arruolamento e addestramento.
Giusto una persona giovane e in perfetta salute potrebbe preferire il siero che arresta l’invecchiamento, ma direi che per tutti gli altri l’opzione clonazione con riversamento dei ricordi è la migliore, mettendoci anche al riparo da morti accidentali. A meno che non esista qualche dubbio sul trasferimento della coscienza: nel film va a buon fine e oltre ai ricordi i cloni mantengono anche la propria personalità, ma magari è un caso oppure per qualche motivo si attribuisce al proprio “corpo naturale” un qualche valore intrinseco.

Lontano dal cuore

Il secondo esperimento mentale riguarda i tulkun, i cetacei senzienti cacciati dai terrestri per ottenere il siero. La relazione con i Na’vi, i nativi umanoidi, è molto stretta: le due specie hanno un rapporto di fratellanza ma finché i tulkun venivano uccisi lontano dai villaggi Na’vi, nessun problema. Quando però la strage avviene vicino casa diventa improvvisamente intollerabile e bisogna agire. Si può ribattere che è difficile fare qualcosa in acque lontane, ma i primo intervento è spiegare ai tulkun come evitare di farsi localizzare dai cacciatori! Insomma: sei come un fratello per me, ma se ti ammazzano a mille miglia da qui la cosa mi lascia indifferente.

Strana etica, quella dei Na’vi. Ma gli umani non sono da meno e non mi riferisco alla cattiveria di ignorare la sofferenza di esseri senzienti per il proprio tornaconto: parliamo dei cattivi del film, in questo c’è coerenza. Ma uno dei buoni, di fronte all’uccisione di un tulkun, commenta qualcosa tipo “ma come, lo uccidiamo per prenderci solo questa bottiglietta di siero e tutto il resto del corpo lo buttiamo?”. Come se uno sfruttamento più efficiente avrebbe reso l’uccisione di una creatura senziente meno sbagliata.

Il pane di via e le sirene nere

Sarà che sono uno di quelli che si appassiona all’idea di calcolare il contenuto calorico del lembas, il “pane viatico” che nel ‘Signore degli anelli’ gli elfi di Lórien garantiscono essere sufficiente per un’intera giornata di attività fisica intensa, ma mi sembra naturale ragionare sugli aspetti scientifici del colore della pelle di una creatura per metà umana che vive negli abissi marini.

Il riferimento è ovviamente alle polemiche per Halle Bailey, cantante e attrice scelta per interpretare la Sirenetta nel remake in live action del film Disney che uscirà l’anno prossimo. Ma tanto le polemiche hanno poco a che fare con la plausibilità scientifica – o meglio fantascientifica, visto abbiamo a che fare con creature di fantasia – della produzione di melanina nelle sirene. Non che buttarla sulla filologia funzioni molto meglio, a meno di non voler attribuire caratteristiche di originalità e immutabilità a un film d’animazione del 1989. A malincuore penso sia quindi il caso di lasciar da parte i discorsi scientifici e discuterne dal punto di vista politico e sociale; ma la vera domanda non è perché nel 2023 una sirena ha la pelle scura, ma perché fino ad adesso la abbiamo automaticamente immaginata con la pelle chiara.

Per la cronaca, gli studenti britannici Skye Rosetti e Krisho Manaharan hanno calcolato che una pagnotta di lembas contiene circa 2600 kcal, pubblicando il risultato sul ‘Journal of Interdisciplinary Science Topics’, una rivista sulla quale gli studenti dell’Università di Leicester possono far pratica di scrittura di articoli scientifici su qualsiasi tema.
Visto che Tolkien descrive i lembas come focaccine sottilissime, abbiamo una densità energetica superiore a quella di benzina e metano: l’unica è che contengano dell’uranio, reso digeribile dalla magia elfica. 

La deriva hegeliana del cinema contemporaneo

Nei giorni scorsi ho accompagnato la prole a una proiezione speciale per i trent’anni della Lanterna magica, un cineclub per bambine e bambini da 6 a 12 anni.

In programma c’erano due mediometraggi di Charlie Chaplin: Charlot avventuriero (noto anche come L’evaso, 1917) e Vita da cani (1918). Due cose mi hanno colpito.

La curiosa vita di Toraichi Kono

Nel primo film compare brevemente un attore asiatico che interpreta la parte dell’autista della ricca ragazza di cui l’evaso Charlot si innamora. Nei titoli di testa figuravano solo i personaggi principali così ho fatto una breve ricerca e grazie a Wikipedia ho scoperto che non solo che si chiamava Toraichi Kono, ma anche che non era un attore, bensì l’autista, segretario personale e amico di Chaplin.

Praticamente coetaneo di Chaplin, Kono nacque a Hiroshima e arrivò negli Stati Uniti non per fuggire dalla povertà ma – riporta un articolo del Los Angeles Times – per liberarsi da un matrimonio combinato e da un padre oppressivo. Pilota di aerei, incontrò Chaplin nel 1916 al Los Angeles Athletic Club diventando suo autista e assistente; nel 1932, durante un viaggio in Giappone, Kono evitò che Chaplin venisse ucciso dalla Black Dragon Society, un gruppo paramilitare ultranazionalista. Due anni dopo però Kono criticò le spese eccessive di Paulette Goddard, terza moglie di Chaplin, e il rapporto tra i due si incrinò. Poco prima del bombardamento di Pearl Harbor, l’FBI arrestò Kono per spionaggio; rimase internato fino al 1948 e negli anni Cinquanta tornò in Giappone dove morì nel 1971.

Le forze dell’ordine

Entrambi i film vedono il vagabondo Charlot confrontarsi con la polizia: nel primo da evaso in fuga, per cui il rapporto con gli agenti è abbastanza trasparente (anche se non sappiamo per quale motivo sia stato incarcerato); nel secondo è semplicemente un senzatetto che cerca di sopravvivere il che comporta anche stare alla larga dagli agenti – anche quando potrebbero o dovrebbero aiutarlo dal momento che è stato derubato da due furfanti.

In entrambi i film i poliziotti non sono né buoni né cattivi e se si scontrano con il protagonista Charlot non lo fanno per cattiveria – al contrario dei già citati ladri di Vita da cani o dello spasimante codardo in Charlot avventuriero – ma perché fa parte del loro ruolo di tutori di un ordine del quale il vagabondo Charlot non fa parte. Certo non è sempre così: un altro mediometraggio dello stesso periodo, Easy Street, vede Chaplin diventare addirittura poliziotto e riportare la pace in un quartiere malfamato, ma che l’idea predominante fosse quella un po’ anarchica della polizia come emanazione di una parte soltanto della popolazione lo si vede da un altro film realizzato un decennio dopo: Liberty (1929) di Leo McCarey con Stan Laurel e Oliver Hardy, ovvero Stanlio e Ollio. Anche qui i protagonisti sono due evasi, ma la sequenza iniziale è molto più esplicita: una scritta ci ricorda che la storia americana è fatta da eroi che combatterono per la libertà, citando George Washington, Abraham Lincoln, il generale della Prima guerra mondiale John Pershing e poi, dopo un “e ancora adesso la lotta per la libertà continua” vediamo Laurel e Hardy in divisa da carcerato scappare dalla polizia.

La differenza rispetto a film e serie tv odierne è abissale. Prendiamo un altro film con protagonista un evaso: Il fuggitivo (1993) di Andrew Davis. Gli agenti sono personaggi positivi al pari del protagonista e infatti alla fine non potranno che allearsi contro il vero cattivo.
In generale, la polizia è al servizio della comunità, gli agenti hanno un grande senso del dovere e della giustizia (che talvolta giustifica anche il trasgredire le regole) e se per caso qualche poliziotto non agisce bene, è l’elemento estraneo in un sistema che si impegna per protegge la collettività. Serie tv come Blue Bloods (imperdibile per gli amanti di Tom Selleck) convincono pure gli spettatori che per difendersi può essere opportuno che un agente spari a persone disarmate.

Anche qui ci sono eccezioni, ma in generale la polizia, quantomeno come istituzione se non come singoli agenti, pare uscita dai manuali scolastici di filosofia quando si parla dello Stato in Hegel che – lo so che è una semplificazione, ma del resto per come scriveva Hegel o semplifichi o ti viene l’emicrania – metteva appunto la polizia come superando delle istanze individuali e incarnazione dell’eticità e della razionalità. E insomma, ridatemi Charlie Chaplin.

Aggiornamento 20 settembre

A proposito di copaganda – parola formata da “cop” e “propaganda” che indica la rappresentazione estremamente positiva della polizia nei media –, ho scoperto che John Oliver ha dedicato una puntata del suo fortunato show a Law&Order.

I limiti della censura cinematografica

Mi sono recentemente imbattuto in tre storie curiose di film che si sono dovuti adeguare a regole e consuetudini (per ora restiamo a questa formulazione generica)

Il primo caso riguarda il film Minions 2 – Come Gru diventa cattivissimo che in Cina ha un finale diverso: come riporta il New York Times, i produttori (oppure sono state direttamente le autorità cinesi, non è chiaro) hanno aggiunto un epilogo in cui si precisa che alla fine Gru diventa buono e mette su famiglia mentre un altro personaggio viene arrestato e condannato a vent’anni. Il primo punto è semplicemente un promemoria di quello che viene raccontato nei tre film della serie Cattivissimo Me, mentre la faccenda della “giusta punizione” del cattivo è originale.

Il secondo caso riguarda il film Fall che – lo spiega tra gli altri Wired – ha utilizzato la tecnologia Deepfake per togliere le troppe parolacce pronunciate dai protagonisti, volgarità che avrebbero imposto limitazioni troppo severe: così come inizialmente realizzato il film sarebbe stato classificato “R” (vietato ai minori di 17 anni non accompagnati), con la censura digitale ha ottenuto PG-13 (presenza di un adulto per gli spettatori con meno di 13 anni), guadagnano pubblico potenziale.

Il terzo caso riguarda invece un classico del cinema: Alien di Ridley Scott. Sigourney Weaver si sarebbe rifiutata di rasarsi il pube e, di nuovo per evitare restrizioni che penalizzassero gli incassi, si è provveduto a rimuovere i peli in postproduzione, fotogramma per fotogramma (era il 1979).

Non mi piace la censura: ritengo che una persona adulta debba essere libera di leggere/guardare/ascoltare/dire/condividere qualsiasi cosa. Certo ci sono dei “casi difficili” che possono arrivare a delle eccezioni: informazioni riservate (dalle password a documenti con dati sensibili o segreti militari e industriali), situazioni in cui le parole non sono semplici descrizioni ma portano ad azioni (il caso classico è gridare “al fuoco!” in un teatro affollato) o causano sofferenza (è il caso di insulti e discriminazioni); c’è poi il discorso dei “non adulti” e delle conseguenze collettive di azioni singole (cosa succede se tutti i librai decidono di non vendere un determinato libro?). Del resto i principi andrebbero sempre applicati con un po’ di ragionevolezza e buon senso.

Come giudicare quindi questi casi? Per quanto riguarda Alien e Fall, dal momento che si parla di limitazioni per i minori direi che il problema principale è la stupidità di una censura che diventa procedura burocratica e, invece di fare una valutazione complessiva dell’opera, si trasforma in lista di controllo: capezzoli sì/no, peli pubici sì/no, sangue sì/no, parolacce sì/no. Capisco che questo semplifica il lavoro dei censori, permette loro di meglio giustificare le decisioni e rende anche il giudizio prevedibile per i produttori (anche se non è avvenuto per Fall), ma un sistema simile mi pare comunque stupido perché porta a soffermarsi su dettagli e influenza il processo creativo. Negli archivi del sito ho ritrovato un piccolo esempio di quel che intendo con stupidità della censura burocratica.

Più interessante il caso di Minions 2. Potremmo pensare di avere a che fare con un caso di “adattamento internazionale”, come quando la Pixar ha sostituito, nella versione giapponese di Inside Out, i broccoli con i peperoni verdi. Il problema è che il cambiamento non è dovuto alla diversa sensibilità del pubblico che preferisce i broccoli ai peperoni o trova inaccettabile che un cattivo non venga punito: è l’imposizione di un’autorità che non vuole semplicemente assecondare una qualche sensibilità diffusa ma al contrario educare e moralizzare. Ma più che sull’ultimo punto – è usuale che le autorità facciano campagne sociali – insisterei sul primo: è una imposizione, una limitazione della libertà creativa, per quanto sotto forma di epilogo posticcio che si può benissimo ignorare, eventualmente uscito prima dalla sala. Questa operazione ha infatti il vantaggio di essere relativamente trasparente e tracciabile, il che è uno dei criteri secondo me più importanti di fronte a tutti gli interventi del genere. In questo caso è probabilmente a causa di imperizia, tanto che il New York Times ricorda i recenti casi di Fight Club di David Fincher con un finale completamente alterato e il film biografico Bohemian Rhapsody privati di ogni riferimento all’omosessualità di Freddie Mercury.

Direi che, dei tre casi presentati, quello cinese è il più preoccupante e certamente merita di essere definito “censura”, ma non sottovaluterei neanche gli altri due.

L’italiano è una lingua complicata, per le persone non binarie

Sto seguendo il Locarno film festival e ho visto – è in concorso nella sezione Cineasti del presente, dedicata opere prime e seconde – Before I Change My Mind di Trevor Anderson.
È un bel “coming of age movie”, insomma uno di quei film con adolescenti che si confrontano con i primi problemi da adulti. Siamo nel Canada degli anni Ottanta e la storia ruota intorno a Robin, da poco trasferitosi dagli Stati Uniti col padre e alle prese con i soliti problemi di ambientazione. Con un intelligente misto di commedia e dramma, il film racconta del rapporto tra Robin e Carter, che semplificando un po’ possiamo definire il bullo della scuola.

Vaughan Murrae in una scena del film

Ora, scrivere di questo film è difficile proprio da un punto di vista linguistico: Robin è infatti una persona non binaria, vale a dire che non si riconosce né come maschio né come femmina. Nel film – che come accennato è ambientato nel 1987 quando “binario” e “non binario” si riferivano perlopiù all’informatica – non si usano pronomi di genere per Robin mentre adesso, quando devono parlare del personaggio o dell’interprete (l’eccezionale Vaughan Murrae), gli autori hanno deciso di usare il ‘singular they’. Ma in inglese è relativamente semplice: in italiano evitare espressioni che siano maschili o femminili è invece un casino, come si vede nella presentazione sul sito del Festival dove troviamo giri di parole un po’ forzati come “giovane volto principale” (e nel finale gli scappa un “che Robin sia libero”).

Ho avuto il piacere di incontrare Trevor Anderson, affrontando anche questo problema. La sua prima risposta è stata un “buona fortuna” seguito da “grazie al cielo non ho dovuto scrivere il film in italiano”. Entrambi eravamo un po’ scettici sull’usare soluzioni come asterischi o schwa, non tanto perché sarebbero risultati anacronistici rispetto all’epoca del film – dopotutto ne stiamo scrivendo/parlando oggi nel 2022 e anche loro adesso, per praticità, usano il ‘singular they’ –, ma perché sarebbero risultati meno naturali: il rischio è che alla fine, più che del film e di Robin, uno si ricordi soprattutto di quella strana ə che era presente nella recensione, relegando Before I Change My Mind tra i film LGBT+ quando l’intento di Anderson era realizzare un classico film di formazione in cui capita che il personaggio principale sia non binario. “Volevo fare il coming of age movie che negli anni Ottanta non ho avuto modo di vedere”, mi ha detto. Così, nella recensione che ho scritto ho cercato espressioni neutre, riformulando in continuazione le frasi, ma temo che qualcosa mi sia sfuggito.

Perché racconto tutto questo? Semplicemente perché capisco molte delle perplessità nei confronti dello schwa per evitare il maschile sovraesteso e i riferimenti al genere (scrivendo ad esempio “l’attorə” invece di “l’attore” o “l’attrice”): è una soluzione che ha i suoi limiti. Ma il problema, come mostra nel suo piccolo il film in concorso a Locarno, c’è e non ha senso fare finta di nulla.

Uno schioccare di dita

C’è un pensiero che continua ad arrovellarmi, dopo aver visto Avengers endgame.1

Ora, già nel precedente film la conta degli scomparsi era realisticamente di molto superiore alla metà – perché un conto son quelli letteralmente ridotti in polvere dallo schiocco di dita di Thanos, un altro son quelli morti per i vari incidenti seguiti alla scomparsa. Incidenti per metà delle automobili in circolazione, un quarto degli aerei (contando il copilota, ammesso che lui e il personale dell’aeroporto abbiano il sufficiente sangue freddo per l’atterraggio), più navi, elicotteri, treni, metropolitane, autobus senza dimenticare centrali nucleari, dighe eccetera.
E tutto questo ammettendo che il sistema economico continui a funzionare, che nelle fattorie si continui a coltivare la terra, che qualcuno rifornisca le fabbriche di materie prime e distribuisca i prodotti, eccetera.
Insomma, secondo me è facile azzardare che, tra polverizzati da Thanos, morti immediatamente in incidenti e morti di inedia nelle settimane successiva, almeno due terzi dell’umanità non ci siano più. E temo sia una stima molto conservativa.

Abbiamo quindi una popolazione mondiale di due-tre miliardi di persone che con difficoltà si riorganizza, ricostruisce una società.
Passano gli anni – cinque, per la precisione, e non sono pochi – e gli Avengers riescono a procurarsi le gemme dell’infinito: un altro schiocco di dita e 4 miliardi di persone ritornano come se nulla fosse. Il problema non è tanto ritrovarsi la figlia di cinque anni che ne ha dieci e chiama qualcun altro mamma e papà, ma dove alloggiare – se ti va bene hai una casa abbandonata da cinque anni, se ti va male è abitata da altri, se ti va malissimo è diventata una discarica tossica con le macerie dalla Grande scomparsa –, cosa mangiare, cosa bere, che medicine prendere. Perché, anche stimando una crescita demografica, tutto il sistema produttivo è dimensionato per poco più di tre miliardi di persone – e improvvisamente hai sette miliardi di bocche da sfamare, di corpi di curare e vestire.

Insomma, un’altra catastrofe e se per numero di morti il secondo schiocco di dita è forse inferiore al primo, è sicuramente maggiore per sofferenza. E gli Avengers sono i buoni.

  1. Breve premessa per chi non ha visto gli ultimi due cinefumettoni Marvel: Thanos, preoccupato per l’incontrollata crescita demografica, decide di far sparire metà degli esseri viventi – perlomeno quelli senzienti – della galassia. Gli Avengers non riescono a fermarlo, ma cinque anni dopo riescono a far tornare in vita tutti quelli cancellati. []

Non sono antirazzista, ma…

Uno si distrae un attimo e si ritrova senza parole.

Era lì. Ed era una bella parola: antirazzismo. Sì, c’era chi sosteneva che non bisogna essere “contro” ma “per” e che il vero valore era un altro – l’integrazione, il rispetto, la tolleranza, l’uguaglianza, fate voi. Ma la realtà è che l’antirazzismo marcava un limite, escludeva un concetto dallo spazio pubblico, dichiarandolo socialmente inaccettabile: non era possibile sostenere le proprie opinioni, o le proprie azioni, con l’idea che gli esseri umani siano divisi in razze con caratteristiche stabili e definite.
E questo, secondo me, era un bene. Continua a leggere “Non sono antirazzista, ma…”

L’originalità andrà di moda

Sono in vacanza e ne ho approfittato per andare un paio di volte al cinema, il che significa che mi sono visto due film, un certo numero di pubblicità di attività commerciali locali e circa una decina di trailer di altri film. Se ci aggiungiamo i manifesti in entrata, possiamo tranquillamente dire che mi sono potuto fare un’idea della produzione cinematografica – limitata ovviamente alle grandi produzioni hollywoodiane – dei prossimi mesi.

Ora, sarà che prima di andare in vacanza ho seguito il Festival del film di Locarno, sarà che oramai per banali questioni anagrafiche ho una memoria cinematografica diretta che spazia su tre decenni, ma non c’era un film originale: per bene che poteva andare, si trattava di un sequel o un prequel, insomma il capitolo aggiuntivo di una serie cinematografica con situazioni e personaggi già conosciuti; alla peggio, i rifacimenti. Giusto per fare qualche titolo: Ben Hur, Ghostbuster, Star Wars: Rogue one, Alla ricerca di Dory, L’era glaciale: in rotta di collisione, Independence Day: rigenerazione. Per tacere di tutti i film tratti da fumetti.

Non credo sia questione di crisi di idee. Perché alla fine di idee nuove ce ne sono, forse non tante, forse non originali, forse non riuscite benissimo, ma ce ne sono: non è Werner Herzog che ha rifatto Nosferatu inquadratura per inquadratura (guardando alcuni dei trailer, mi vien da dire: purtroppo).
Però queste idee, evidentemente, non trovano seguito se presentate da sole, senza qualcosa di rassicurante proveniente dal passato nel quale impacchettarle.
Il contrario di quello che succedeva anni fa, quando i film western copiavano Kurosawa facendo finta di nulla. L’originalità – che non è necessariamenre avere idee nuove, ma presentarle come tali – non è di moda. Chissà se di ritornerà.

Tra fraintendimento e manipolazione della realtà

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Il regista Roman Polanski non parteciperà al Festival del film Locarno, dove avrebbe dovuto una lezione di cinema aperta al pubblico, ricevere un un riconoscimento speciale e presentare il suo Venere in pelliccia in Piazza Grande.

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